1 Dicembre 2016
Claudia Sorlini è una delle più stimate scienziate italiane.
Nel 1965 consegue la Laurea in Scienze Biologiche e prosegue la carriera accademica fino a diventare professoressa ordinaria di Microbiologia degli alimenti presso l’Università degli Studi del Molise. Dal 1993 al 2013 insegna Microbiologia agraria all’Università degli Studi di Milano. Assume diversi incarichi all’interno della governance universitaria: è Preside della Facoltà di Agraria dal 2004-2010 e durante tale mandato fonda la Facoltà di Agraria dell’Università di Makeni, in Sierra Leone. Dal 2005 al 2013 è Delegata del Rettore alla Cooperazione Internazionale allo Sviluppo. Claudia Sorlini è stata inoltre componente del Comitato Pari Opportunità dell’Ateneo di Milano (2007- 2010) e coordinatrice della sezione Donne e Scienza del Centro di Ricerca GENDERS – Gender & Equality in Research and Science (2006 – 2013). Dal 2013 assume incarichi esterni all’Università: nel 2014 fa parte della Steering Committee of the EU Scientific Programme for Expo 2015 e dal 2013 del Comitato Women for EXPO (Ministero Affari Esteri). Nell’anno 2015 riceve dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, l’onorificenza dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, per “ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, della economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici ed umanitari, nonché per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari”.
Nello stesso anno è insignita dell’Ambrogino D’Oro, Civica benemerenza del Comune di Milano. Ha inoltre ricevuto il Premio “Donne che ce l’hanno fatta” di Pechino, Making Women World Congress per il suo impegno tra arte, scienza, cultura e sociale e il Premio Tecnovisionarie: donne che vedono il futuro di EXPO Women Global Forum – Women & Tech per aver dato un contributo accademico rilevante e aver coordinato progetti europei e nazionali sulle tematiche dell’ambiente, dell’agricoltura e delle bioenergie. Per il suo impegno inoltre nella cooperazione internazionale, con un master e un progetto di ricerca sull’agricoltura in zone aride e la supervisione della Facoltà di Agraria di Makeni (Sierra Leone), che ha contribuito a istituire.
Prof.ssa Sorlini il XXI secolo potrebbe rivelarsi drammaticamente decisivo per il futuro del genere umano. Le Nazioni Unite stimano che la popolazione mondiale nel 2100 oscillerà tra i 10 ed 12,5 miliardi di persone. Le conseguenze del continuo degrado ambientale e l’esponenziale incremento demografico ci portano a chiederci dove vivremo e con cosa ci nutriremo? Lei cosa ne pensa?
La situazione è certamente preoccupante: da un lato le risorse ambientali indispensabili alla produzione di alimenti sono già sfruttate al di sopra della sostenibilità: abbiamo perso biodiversità animale e vegetale, suolo fertile per frane, smottamenti, terremoti, uragani, ma anche per l’espansione delle aree urbanizzate attorno alle città, ben oltre la reale necessità, che sottraggono terreni all’agricoltura. Inoltre produciamo energia per l’80% da fonti non rinnovabili con l’emissione incontrollata di gas serra che stanno cambiando il clima del pianeta. Metà delle zone umide del nord America e dell’Europa sono scomparse, la desertificazione avanza al ritmo di 12 milioni di ettari all’anno, alcuni fiumi non portano più acqua ai mari, ma i livelli dei mari crescono per lo scioglimento dei ghiacciai e sono già state inghiottite alcune piccole isole dell’arcipelago delle Salomone. Intanto masse crescenti di “migranti ambientali” si spostano in cerca di un luogo dove poter continuare a lavorare e vivere.
Dall’altro lato l’incremento della popolazione, accompagnato da nuove esigenze nutrizionali (carne) espresse dai paesi emergenti (Brasile, Russia, India, Cina), ha fatto sì che in questo decennio per la prima volta la domanda di alimenti crescesse con un trend più veloce dell’offerta. L’alternativa che ci troviamo davanti è o continuare su questa strada derubando le generazioni future della speranza di vivere in sicurezza, o cambiare in modo drastico le priorità politiche, sociali e umane progettando un modello di sviluppo diverso e un cambiamento di stili di vita.
I segnali che ci arrivano sono moderatamente positivi e dimostrano che si sta diffondendo la consapevolezza della gravità della situazione. Da un lato si registrano mutamenti significativi nelle scelte di modelli di vita da parte dei cittadini singoli e associazioni, e dall’altro si assiste a prese di posizione da parte delle massime autorità politiche e morali: l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha dedicato i nuovi obiettivi del Millennio, lanciati nel 2015, allo sviluppo sostenibile, (Agenda 2030), la COP21 di Parigi, dopo anni di incontri inconcludenti ha trovato un accordo su limiti precisi per il contenimento dei gas serra, con il coinvolgimento anche di USA e Cina; papa Francesco con l’Enciclica “Laudato sì” ha messo in evidenza con forza la condizione di deriva sociale e ambientale, richiamando l’umanità ad un impegno sulla difesa della “nostra casa comune” e della giustizia sociale, come mai prima d’ora aveva fatto la Chiesa.
Ci sono le premesse per un cambiamento di rotta; è però necessario non abbassare la guardia e lavorare per l’assunzione di responsabilità da parte di tutti: dai singoli alla società civile, dalle imprese alle istituzioni e ai governi.
A livello di sensibilità generale nel Paese sembra esserci un rinnovato interesse per l’agricoltura. Si parla molto di recupero della qualità del prodotto. Di turnazione delle colture. Dell’abbandono dei prodotti chimici nella filiera agricola. Questo ed altro viene condensato in un termine molto in voga: Bio. Per contro la manipolazione genetica delle colture (i famigerati OGM) è vista come un’applicazione demoniaca. Esiste un punto di equilibrio raggiungibile tra queste due filosofie?
In effetti sempre più persone in Italia e in Europa sono conquistate dai cibi biologici. Cresce infatti la consapevolezza dell’importanza che l’alimentazione ha nel conservare la salute, prevenire e addirittura curare diverse malattie. Il cibo biologico rappresenta per molti consumatori un modo per garantirsi una vita più sana. L’Incremento dei consumi ha determinato un’esplosione delle superfici coltivate bio che in Italia
A livello di sensibilità generale nel Paese sembra esserci un rinnovato interesse per l’agricoltura. Si parla molto di recupero della qualità del prodotto. Di turnazione delle colture. Dell’abbandono dei prodotti chimici nella filiera agricola. Questo ed altro viene condensato in un termine molto in voga: Bio. Per contro la manipolazione genetica delle colture (i famigerati OGM) è vista come un’applicazione demoniaca. Esiste un punto di equilibrio raggiungibile tra queste due filosofie?
In effetti sempre più persone in Italia e in Europa sono conquistate dai cibi biologici. Cresce infatti la consapevolezza dell’importanza che l’alimentazione ha nel conservare la salute, prevenire e addirittura curare diverse malattie. Il cibo biologico rappresenta per molti consumatori un modo per garantirsi una vita più sana. L’Incremento dei consumi ha determinato un’esplosione delle superfici coltivate bio che in Italia coprono quasi 1,5 milioni di ettari con un incremento del 37% dal 2011 al 2015. Riscuote interesse il fatto che non si usino composti chimici e che si adottino tecniche di coltivazioni ambientalmente più sostenibili (lotta biologica, rotazione delle colture, fertilizzanti organici ecc.) . Quanto agli alimenti da OGM, la maggioranza della popolazione italiana ed europea resta diffidente. Anche negli Stati Uniti cresce il desiderio di una informazione consapevole che si manifesta attraverso la richiesta di etichettatura, già approvata in alcuni stati e ora in discussione nelle camere federali. Le due ideologie possono convivere, avendo ogni cittadino la libertà di scegliere (per chi almeno ha le disponibilità economiche), ma difficilmente potranno trovare una mediazione, visto che si ispirano a logiche diverse.
Quando andiamo a fare la spesa siamo compiaciuti di acquistare almeno qualche prodotto proveniente da piccole aziende agricole nazionali. Talvolta andiamo anche a comprare qualcosa direttamente dai produttori, quasi una spesa a km zero. Poi però il 90% dei nostri acquisti si dirige, spesso in modo inconsapevole, su alimenti prodotti, lavorati e distribuiti dalle grandi multinazionali alimentari. Ci prendiamo in giro da soli?
Credo che questo dipenda da diversi fattori; anzitutto c’è un problema economico: i prezzi dei prodotti biologici sono più elevati in quanto la produttività è inferiore a quella delle coltivazioni convenzionali. In secondo luogo l’offerta che l’Italia è in grado di offrire è inferiore alla domanda. Quindi al di là delle intenzioni, l’offerta di prodotti bio nei supermercati è relegata solo su alcuni scaffali. Molti sono i consumatori biologici non integralisti che fanno scelte non ideologiche, di volta in volta ispirate a propri criteri pratici (es. se non trovano le zucchine bio, comprano le altre). Infine ci saranno sempre persone che preferiscono mantenere le proprie abitudini, acquistando prodotti da marche note (non bio) in cui ripongono fiducia da anni. Non va comunque dimenticato che anche questi cibi da agricoltura convenzionale provengono da filiere controllate, igienicamente sicure (in Italia più che altrove) e, anche se per legge residui di pesticidi sono accettati, i limiti di concentrazione vengono costantemente monitorati dalle autorità competenti.
Quali sono stati i più importanti passi in avanti fatti in questi anni dalla Scienza Agraria e quali, se ve ne sono stati, gli errori più rilevanti?
Di progressi negli ultimi decenni se ne sono fatti molti: vecchi pesticidi e diserbanti tossici sono stati via via sostituiti da nuovi principi attivi, ugualmente efficaci, ma appartenenti a classi di tossicità inferiori. Ha preso consistenza l’agricoltura di precisione che mira a migliorare la
produzione riducendo il dispendio di risorse e di energia, e che tra l’altro si avvale della robotica (es. droni) e delle tecnologie del remote- sensing anche allo scopo di poter fare previsioni sulle produttività . Inoltre, con le ricerche sul miglioramento genetico (non OGM) si sono ottenute varietà vegetali con minori esigenze idriche, altre con alta efficienza di assorbimento di nutrienti anche in suoli poveri; altre ancora con migliorata qualità nutrizionale. Sempre grazie alla genetica e alle tecniche di allevamento rispettose del benessere animale, oggi si producono carni e latte con meno grassi, e altre caratteristiche migliorate rispetto a qualche decennio fa e più funzionali ad una alimentazione sana. Anche nel campo dell’agricoltura convenzionale in Italia si stanno diffondendo pratiche che mirano alla riduzione degli impatti, per es. attraverso il contenimento dell’uso di prodotti chimici, l’uso più soft delle macchine di lavorazione del terreno ecc.(la c.d. Agricoltura blu).
Fra gli errori o i limiti, molti denunciano il fatto che la ricerca italiana sia stata bloccata dalla politica che ha scarsamente finanziato le ricerche sugli OGM e soprattutto che ha bloccato da molti anni la sperimentazione in campo.
Altri sostengono che non si sia sufficientemente finanziata la ricerca nel campo dell’agroecologia, del miglioramento genetico, della produzione di varietà di piante alimentari resilienti. Queste critiche sottendono due concezioni diverse dell’agricoltura attuale e futura.
Nel caso degli OGM si lavora modificando geneticamente le piante per un carattere in modo che la pianta acquisisca una specifica capacità (di resistere ad un parassita, o di aumentare il contenuto di molecole bioattive o altro). Quattro piante, modificate per resistere all’attacco di alcuni insetti parassiti e per acquisire la tolleranza nel confronti di alcuni erbicidi, hanno conquistato in 20 anni circa l’11% della superficie arabile del pianeta. Negli ultimi due anni però sono cominciati gli abbandoni di queste colture transgeniche, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi del nord e sud del Mondo. Fra le cause c’è anche il fatto che in alcuni paesi erbe infestanti e insetti parassiti hanno acquisito resistenza e non vengono più contrastati dal modello di coltura OGM.
Quanto al modello agroecologico, questo mira, a partire da sementi autoctone e con i supporto do mezzi biotecnologici avanzati, a ottenere piante geneticamente migliorate (non OGM) in grado di acquisire resilienza nei confronti di tutti gli agenti fisici, chimici e biologici avversi che i continui cambiamenti climatici e ambientali comportano e nello stesso tempo di migliorare la qualità della produzione. Questo seconda via è più lunga, ma certamente risponde ad una visione che guarda oltre il futuro immediato ed è più sostenibile sul piano ambientale.
Io penso che data l’importanza dell’agricoltura per il presente e il futuro dell’umanità, debba essere sostenuta la ricerca scientifica. Ritengo inoltre che non si dovrebbero porre limiti alla ricerca e alla sperimentazione condotta in sicurezza, se non quelli etici perché tutte le potenzialità possano essere dispiegate. Quanto a decidere su quali strategie puntare nella pratica, tocca alla politica decidere tenendo sulla base di considerazione non solo economiche, ma anche sociali e ambientali.
I giovani che oggi studiano Agraria alle superiori e nelle Università devono accontentarsi solo di studiare una materia che sentono affine alla propria sensibilità personale o possono ambire anche a percorrere domani una strada professionale di soddisfazione? Con l’agricoltura, intesa in senso lato, si può guadagnare o non ci si campa?
I giovani che decidono di dedicarsi all’agricoltura hanno davanti prospettive interessanti, in particolare se non si imitano a fare i coltivatori (o allevatori), ma se si organizzano per diventare veri e propri imprenditori. Questa è la tendenza in atto tra diplomati e laureati vincenti nei settori dell’agroalimentare che scelgono di tornare alla campagna nella vecchia azienda dei nonni o di andarci ex-novo. Che caratteristiche hanno questi giovani di successo? Come emerso da recenti indagini sono preparati e motivati, desiderano fare un’agricoltura di qualità (biologica o anche convenzionale); hanno capito che per stare sul mercato con una piccola azienda è necessario dare valore aggiunto alla loro produzione. Quindi trasformano le loro materie prime in prodotti finiti quali conserve alimentari (marmellate, sughi, cibi conservati sottolio o sottaceto ecc.), pasta, formaggi, salumi ecc. Dunque a tutti gli effetti maturano competenze imprenditoriali. Infine praticano la vendita diretta al pubblico. In altri termini realizzano filiere cortissime saltando la lunga intermediazione tra produttore e consumatore e stabilendo un contatto diretto tra i due estremi della filiera. Questa scelta offre il vantaggio di sottrarsi alla “morsa” della grande distribuzione organizzata che impone prezzi di acquisto e tempi di pagamento non certo favorevoli al piccolo produttore, di avere un immediato rientro di fondi e la possibilità di reinvestimenti rapidi. Inoltre in questo modo si creano legami stabili con quella fascia crescente di consumatori che desiderano sapere e vedere come si produce e si lavora il cibo. Si tratta di un rapporto che trascende a sfera economica, e che investe a sfera umana con il contatto diretto che porta conoscenza, fiducia e a volte anche amicizia. Infine questi giovani imprenditori spesso si avvalgono di start-up digitali gestite da altri giovani che mettono in contatto domanda e offerta di cibo di qualità a distanza ridotta.