Alessandro Trovati è un fotografo sportivo. Lo conosco e lo seguo da diverso tempo. Un po’ per interessi lavorativi, un po’ per passione personale, un po’ perché il venefico virus della fotografia sportiva è entrato prepotente anche nella mia famiglia.
Tutto ciò che andava detto su di lui lo abbiamo detto. Coloro che volessero conoscere qualcosa di più su AT potranno farlo leggendo l’intervista che mi concesse nel marzo dello scorso anno. Il link è al piedino di questo articolo, in fondo alla pagina.
Oggi parleremo delle fotografie di Alessandro e se qualcosa di lui dovesse trasparire, sia chiaro che la colpa è delle sue opere e non mia.
Questa sera ho assistito al vernissage della sua ultima mostra fotografica. Sino al 3 giugno le sue fotografie saranno visibili presso lo Spazio Tadini, storico spazio espositivo e museale di Milano.
Insieme ai suoi scatti sono esposte anche alcune foto di Stefano Rellandini, Luca Bruno, Marco Trovati e Giovanni Auletta (amici, colleghi, fratelli di Alessandro).
Nel corridoio che porta alla sala espositiva i visitatori possono ammirare alcune immagini storiche di Armando Trovati, pioniere e maestro della fotografia sportiva internazionale (padre di Alessandro e Marco), recentemente scomparso.
Attenta curatrice della mostra è Federicapaola Capecchi, giornalista ed artista.
La fotografia sportiva. Brutta bestia. E’ considerata meno nobile del ritratto puro, meno ardimentosa di un reportage dal fronte di guerra, meno disinteressata; è una fotografia che richiama connivenze commerciali. Si dice che non sia una fotografia iconica. Luoghi comuni.
Le fotografie di AT esposte ribaltano completamente questi pregiudizi e questi luoghi comuni. Sono tutti scatti eseguiti in diverse edizioni dei Giochi Olimpici e dello spirito olimpico sono piene. Vanno guardate non come si guarda un asettico reportage di una giornata di gara, vanno guardate come fossero dei dipinti.
A parte lo scatto di copertina, non riproduco nessuna delle foto esposte allo Spazio Tadini. Queste foto vanno ammirate da vicino, guardate negli occhi, posizionandosi di fronte alla stampa dello scatto. Vanno sfidate ad una ad una.
Accettando senza pregiudizio la reazione che ti procurano. Come sottolinea la curatrice dell’evento, AT non ha bisogno di ricorrere ad espedienti tecnici per catturare l’attenzione. Che sia padrone della tecnica è fuor di dubbio, qualche multi esposizione c’è; ma è più un vezzo da virtuoso piuttosto che un trucco del mestiere.
Il fotografo sportivo quando blocca il gesto di un atleta e lo consegna alla memoria condivisa comune, compie un furto con destrezza.
Il fotografo sportivo quando blocca il gesto di un atleta e lo consegna alla memoria condivisa comune, compie un furto con destrezza. Il ladro dietro la macchina fotografica ruba la tensione, la fatica, la speranza e la delusione a chi gareggia. La destrezza sta nell’essere capace di bloccare il tempo, trasfigurare il gesto atletico e cogliere l’attimo fuggente. In modo pulito ed irripetibile.
Quando si riesce a fotografare così non si è più cronisti dell’immagine, ma si diventa artisti.
Le fotografie esposte sono molte, meritano tutte attenzione ma, in particolare, due mi hanno colpito duro. Un ritratto di Yuri Chechi in posizione agli anelli, immobile, con tutti muscoli del corpo in tensione. Ricorda fortemente la pittura rinascimentale.
Ed uno scatto in bianco e nero di una sirena del nuoto sincronizzato. Metà del corpo appare al di fuori dell’acqua nitido e perfetto, metà si intravede sotto la superficie, distorto e martoriato dalle rifrazioni e dalle trasparenze dell’elemento liquido. Impressionante. Un unicum perfettamente diviso in due essenze contrapposte. Un pugno nello stomaco.
Caro AT, che a te piaccia o meno sentirtelo dire, temo che tu abbia passato il confine tra la fotografia sportiva convenzionale e l’arte figurativa. Buena suerte; ti sei incamminato su una strada impegnativa, ma hai la gamba per percorrerla degnamente. Un abbraccio.