Aldo Moro, lettere dalla prigionia.

Aldo Moro, lettere dalla prigionia.

Seconda tappa di avvicinamento ed approfondimento al caso Moro. Dopo la pubblicazione di un’intervista al collega Paolo Cucchiarelli (giornalista investigativo ed autore) analizziamo adesso il cosiddetto memoriale Moro e le lettere che lo statista scrisse durante la sua prigionia.

Lo facciamo con l’aiuto di Miguel Gotor, storico ed insigne studioso, che su questo tema ha scritto un testo considerato una tappa miliare della ricerca storiografica contemporanea.

Miguel Gotor è nato a Roma il 18 aprile 1971 ed insegna Storia moderna presso l’Università degli Studi di Torino.

Alle elezioni politiche del 2013 è stato eletto al Senato della Repubblica, candidato dal Partito Democratico. Alle politiche del 2018 si è candidato alla Camera dei Deputati nelle liste di Liberi e Uguali. Collabora inoltre alle pagine politiche e culturali di diverse pubblicazioni a diffusione nazionale.

Miguel Gotor

Come autore ha pubblicato “I beati del papa. Inquisizione, santità e obbedienza in età moderna” (Firenze, L. Olsckhi, 2002, Premio «Desiderio Pirovano» 2003 – “Chiesa e santità nell’Italia moderna” (Roma-Bari, Laterza, 2004) – “Santi stravaganti. Agiografia, ordini religiosi e censura ecclesiastica nella prima età moderna” (Roma, Aracne, 2012).

Nel 2008 cura il volume Aldo Moro, “Lettere dalla prigionia” (Torino, Einaudi, 2008, Premio «Viareggio-Repaci» 2008 per la saggistica) e scrive il libro “Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano (Torino, Einaudi, 2011) con cui vince i premi «Minturnae», «Città delle Rose», «Luigi Di Rosa», finalista al «Premio Napoli». Recentemente ha curato la raccolta di saggi di Enrico Berlinguer, “La passione non è finita” (Torino, Einaudi, 2013).

Moro venne rapito il 16 marzo del 1978 e dopo una prigionia di cinquantacinque giorni venne ritrovato senza vita in via Caetani a Roma. Nel corso di questo periodo di detenzione scrisse una serie di lettere, solo parzialmente recapitate. Come possiamo classificarle?

Nei sequestri di persona, che negli anni Settanta erano assai frequenti in Italia, accade spesso che l’ostaggio scriva delle lettere. L’attività epistolare serve a lui, sul piano psicologico, per tranquillizzare i suoi famigliari sulle proprie condizioni di salute e ai rapitori per dimostrare all’esterno due cose importanti: che sono effettivamente loro a detenere l’ostaggio e che sono interessati a portare avanti una trattativa per ottenere la sua liberazione in cambio di un riscatto. Di conseguenza le lettere hanno una funzione soprattutto pratico-utilitaristica, fermo restando che nel caso di Moro la loro qualità e funzione è condizionata dall’eccezionale rilievo dell’ostaggio e dal carattere politico del sequestro, che assume una torsione spionistico-informativa, funzionale a raccogliere informazioni sensibili e segreti relativi alla sicurezza nazionale e atlantica dell’Italia, sempre più rilevante nel corso dei 55 giorni.

Sulla copertina che copre il piatto posteriore del suo volume leggo che lei vuole ricostruire per il lettore un quadro storico “senza ipotesi fantasiose ma con una scansione di informazioni documentate, suggestive e inquietanti.” Però alcune tesi che fino poco tempo fa erano considerate fantasiose (in sede giudiziaria in particolare) oggi stanno trovando riscontri fattuali. Possiamo considerare il suo libro un testo di analisi ortodosso? 

Non saprei dirle, ma non credo che ortodossia ed eterodossia siano due categorie adatte a definire una ricerca di carattere storico che, per sua natura, è libera, si nutre dei contributi e delle critiche altrui e solo così riesce a progredire sul terreno della conoscenza con pazienza, metodo e umiltà.

Oggi sappiamo che Moro durante la prigionia scrisse almeno un centinaio di testi tra lettere, bigliettini e testamenti.

Per quale motivo le Brigate Rosse consentirono a Moro di scrivere delle lettere e con quali criteri decisero di non farne recapitare molte, senza farlo sapere al prigioniero?

Come detto, le lettere servono a certificare la loro prossimità all’ostaggio, ma sono anche utilizzate per destabilizzare il quadro politico e istituzionale italiano aprendo una doppia faglia: lo scontro tra fermezza e trattativa e quello sull’autenticità o no delle missive. Direi che i sequestratori abbiamo perfettamente raggiunto l’obiettivo della loro “propaganda armata”.

Sul piano della censura dei testi agirono su una pluralità di livelli: non recapitando molte lettere, facendo credere al prigioniero che lo avevano fatto, attribuendo all’esterno la responsabilità della divulgazione di alcune missive che in realtà era stata una loro scelta deliberata (penso, ad esempio, alla prima fondamentale lettera a Francesco Cossiga del 29 marzo che va letta insieme con quella inviata a Nicola Rana) e soprattutto alternando e gestendo i recapiti pubblici dei singoli scritti, quelli che contemplarono l’intervento dell’Ansa o di importanti quotidiani, e i recapiti riservati, ossia la cui consegna avvenne di nascosto.

Oggi sappiamo che Moro durante la prigionia scrisse almeno un centinaio di testi tra lettere, bigliettini e testamenti. I suoi sequestratori dalla prigione fecero uscire 35 lettere, ma la maggioranza di esse fu consegnata riservatamente. Soltanto tre missive distribuite in questo modo furono, subito dopo il recapito, divulgate per scelta dei destinatari e quindi fatte conoscere all’opinione pubblica (quella a Craxi, quella a Leone e quella alla Dc per decisione dei collaboratori di Moro che la ricevettero). Naturalmente, durante il sequestro, gli italiani poterono farsi un’idea di Moro prigioniero soltanto attraverso il pugno di lettere che i sequestratori vollero che uscissero pubblicamente e perciò le consegnarono direttamente ai giornali o alle agenzie saltando ogni intermediazione. Ma anche le missive riservate condizionarono il comportamento degli attori.

Moro è molto duro con la Dc che conosceva bene insieme con le asprezze e le miserie della lotta politica. 

Nel suo libro Lettere dalla prigionia a pag. 25/26 è riprodotta la lettera n.15 – Alla moglie Eleonora -. In un passaggio Moro scrive: “Si può fare qualche cosa presso: Partiti (specie la D.C., la più debole e cattiva)…”. Quale fu il ruolo del primo partito italiano e perché Moro definisce debole e cattivo il partito che presiedeva?

E’ vero, Moro è molto duro con la Dc che conosceva bene insieme con le asprezze e le miserie della lotta politica. Ma la questione principale, dentro una crisi come quella, riguardava soprattutto il governo. L’esecutivo, guidato da Andreotti, scelse da subito di adottare la linea della fermezza che si articolava su due punti: non autorizzare uno scambio di prigionieri ed evitare un riconoscimento politico alle Br.

Su questa linea tenne tutta la maggioranza, a partire dai comunisti, socialisti compresi. Ovviamente questa linea ufficiale e pubblica non impedì che si intraprendessero strade e iniziative riservate (come quella Craxi-Signorile di cui erano a conoscenza le massime autorità dello Stato e dei servizi di sicurezza) o segrete come quella portata avanti da Paolo VI o quella che aveva previsto la liberazione di alcuni militanti della Raf * prigionieri in Iugoslavia seguita dalla parte dei servizi segreti italiani rimasta legata a Moro.

All’interno della Dc vi erano una pluralità di posizioni che si espressero nelle riunioni politiche fatte: oltre agli amici di Moro e della sua corrente sappiamo che Paolo Emilio Taviani e Riccardo Misasi si espressero esplicitamente a favore di una trattativa pubblica. Anche la prima e la seconda carica dello Stato, entrambe occupate da due democristiani di lungo corso come Giovanni Leone e Amintore Fanfani erano sulla stessa posizione possibilista. In realtà in una riunione dei segretari dei partiti della maggioranza di governo che si tenne il 4 aprile il presidente del Consiglio Andreotti aprì in via riservata al pagamento di un riscatto ed Enrico Berlinguer disse “fatelo ma non ditecelo”.

* RAF Rote Armee Fraktion – formazione terroristica tedesca, inizialmente conosciuta come Banda Baader-Meinhof, rivendicò numerosi azioni terroristiche rendendosi responsabile di 34 morti e 296 attentati. (NDR).

Esiste un metodo di lettura in chiaro delle lettere ed una lettura alternativa che è possibile fare solo conoscendo a fondo il pensiero, lo stile e la storia personale e politica di Aldo Moro. A suo avviso, qualcuno tra i rapitori aveva la capacità di leggere tra le righe i messaggi nascosti che Moro cercava di trasmettere?

Direi di no, al di là delle forme più banali ed evidenti di comunicazione tra le righe. Ad esempio, in una lettera a Paolo VI e in un’altra alla moglie, Moro in un inciso scrive “bisogna ritentare” facendo riferimento a una trattativa che nel 1944 coinvolse l’allora monsignor Giovanni Battista Montini e Giuliano Vassalli, che attivava un secondo livello di lettura che poteva essere compreso da loro due e pochi altri (Eleonora Moro, Francesco Malfatti da Montetretto, Giuseppe Saragat, destinatari anch’essi di missive).

Certo fra di loro il sospetto dovette regnare sovrano dal momento che non fecero uscire dalla prigione gran parte delle lettere di Moro. In un solo caso, successivo al 1990, ossia dopo il secondo ritrovamento delle lettere di Moro, Prospero Gallinari ha ammesso in una intervista di non avere voluto recapitare una lettera del sequestrato al nipotino Luca perché dal testo si sarebbe potuto capire il luogo ove egli era tenuto prigioniero. In effetti se si legge questa lettera, in cui lo scrivente, parlando del nipote, evoca degli scenari marini, vi sono due passaggi in cui Moro chiaramente cerca di far capire di trovarsi fuori Roma (“ora il nonno e’ un po’ lontano ma non tanto” e poche righe dopo “ora il nonno che e’ un po’ fuori”).

A pagina 177 lei pubblica la lettera n. 96, indirizzata da Moro alla moglie Eleonora. Questa lettera si chiude con un’affermazione lapidaria: “ Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo.” Paolo VI si mosse invece con una certa premura, pubblicamente e riservatamente. 

Si è così, Paolo VI e la famiglia pontificia si mossero molto, forse persino troppo, voglio dire in modo potenzialmente controproducente. Non bisogna dimenticare mai che Moro era un prigioniero e ovviamente della realtà esterna poteva conoscere soltanto ciò’ che i suoi sequestratori ritenevano utile che sapesse.

Non è stato facile individuare i diversi livelli di censura e di autocensura coatta del prigioniero dispiegati dai sequestratori.

La prima metà del suo libro Lettere dalla prigionia è occupata dalla riproduzione delle lettere di Moro, corredate da brevi note chiarificatrici in calce. La seconda metà del volume contiene invece un suo saggio interpretativo. Lei scrive a pagina 225: “omissis… il ricercatore è costretto a muoversi incerto e persino imbarazzato fra una doppia censura che, come una densa coltre di nebbia, contribuisce a offuscare questa storia: …omissis”. Mi vuole descrivere questa nebbia?

Il procedere a tentoni nella nebbia cercando spazi e momenti di chiarezza è la condizione di ogni ricercatore e, in senso lato, di ogni essere umano che naviga nel mondo tra uno scoglio e l’altro. Non è stato facile individuare i diversi livelli di censura e di autocensura coatta del prigioniero dispiegati dai sequestratori. Così anche provare ad applicare a questi testi, in alcuni significativi passaggi, il metodo di “lettura tra le righe” teorizzato da Leo Strauss.

Credo di essere stato aiutato in questo dal mio essere uno studioso della censura ecclesiastica seicentesca applicata alle vite dei santi.

Pagina 216. “ L’impressione di chi scrive (Gotor ndr) è che Moro – omissis – allo scopo di recuperare uno o più documenti riservati, non si sarebbe mai servito di un familiare o di un suo collaboratore: per timore che fossero intercettati dalla polizia, per paura che potesse accadere loro qualcosa sul piano fisico. — L’unica possibilità perché ciò avvenisse era coinvolgere una o più persone insospettabili, vincolandoli ad un segreto assoluto perinde ac cadaver”. A suo avviso Moro vi riuscì?

Direi proprio di sì. Peraltro mantenere un segreto è più semplice di quanto non pensasse Alessandro Manzoni nel suo straordinario romanzo. Nel caso delle lettere di Moro qualche destinatario ci ha provato ma poi è rimasto spiazzato dal secondo ritrovamento delle lettere del 1990, quelle autografe, ma in fotocopia, che ha fatto tardivamente emergere delle lettere che aveva negato di avere ricevuto.

Senza dimenticare che è sufficiente che qualcuno abbia ricevuto una lettera e questa non sia stata fotocopiata dalle Br o non sia stata ritrovata nel 1990 perché questa missiva sia a tutt’oggi sconosciuta e, se avesse deciso di distruggerla (magari perché glielo chiedeva lo scrivente) sia scomparsa per sempre. Per questo ho sempre sottolineato il carattere di “opera aperta” sia delle lettere sia del memoriale di Moro.

Un buon analista, non è mai freddo, partecipa attivamente, sul piano emotivo e intellettuale, all’oggetto della propria ricerca.

Nell’analizzare le lettere di Moro con il piglio del ricercatore (che rimane pur sempre e comunque un uomo e non un freddo analista a circuiti) quali sentimenti ha provato?

Ma sa, un buon analista, non è mai freddo, partecipa attivamente, sul piano emotivo e intellettuale, all’oggetto della propria ricerca. Di recente ho assistito a uno spettacolo di Fabrizio Gifuni che ha letto e interpretato gran parte del memoriale. Quel testo non lo avevo mai letto ad alta voce e ascoltarlo in questa forma per la prima volta, è stata un’esperienza emozionante per la pluralità di toni e di registri linguistici utilizzati da Moro che ha affidato alla ricchezza della scrittura la tragica miseria della propria morte, riuscendo a battere il tempo.

Emerge chiaramente come per lui la dimensione della scrittura sia stata l’ultima forma di libertà e di resistenza all’oppressione che ha scelto di vivere e lo ha voluto e saputo fare sino in fondo.

Lettere dalla prigionia. Tre edizioni. 2008, 2009, 2018. Cosa cambia tra la prima e l’ultima?

Grazie all’aiuto di alcuni filologi, archivisti e grafologi con cui sono entrato in contatto in questi ultimi anni, penso, tra gli altri, a Michele Di Sivo, Antonella Padova, Riccardo Tesi e Stefano Twardzik, ho interpretato alcuni passi che non ero riuscito a decifrare e corretto dei refusi o degli errori di trascrizione. Ora il testo è più completo anche se, come è ovvio, ulteriormente migliorabile.

Il principale obiettivo, perseguito in modo autonomo e in assenza di una comune regia, fu quello di continuare a destabilizzare l’Italia 

Un’ultima domanda, anche se la lettura del testo me ne suggerirebbe altre diecimila. A suo avviso la scelta del bersaglio Moro fu operata solo dalle BR o queste ultime furono solo la parte visibile di un disegno criminale molto più articolato?

L’operazione Moro vide la convergenza di interessi, a livello internazionale, tra il blocco orientale e quello occidentale e, a livello nazionale, tra un fronte reazionario (legato all’oltranzismo atlantico, alla destra anticomunista e ad ambienti massonici legati alla P2) e i gruppi rivoluzionari del cosiddetto “partito armato”. Il principale obiettivo, perseguito in modo autonomo e in assenza di una comune regia, fu quello di continuare a destabilizzare l’Italia per stabilizzarla in senso centrista e moderato nell’ambito degli equilibri consolidati dalla guerra fredda stabiliti a Jalta che non potevano tollerare mutamenti di sorta.

A causa della convergenza di queste forze, che ribadisco agirono in maniera autonoma l’una dall’altra, l’operazione Moro può essere considerata il punto più drammatico raggiunto dalla strategia della tensione in Italia. Moro fu un bersaglio scelto dalle Brigate rosse, ma come è sempre avvenuto in ogni atto di terrorismo nella storia dell’umanità, furono poi in tanti a sedersi a tavola per sfruttare l’accaduto a proprio vantaggio e indirizzare gli autori del gesto dove ritenevano che fosse più utile per tutelare e promuovere i propri interessi. È sempre stato così e non c’è motivo di pensare che la vicenda Moro sfugga a questa regola.

Del resto studiare il terrorismo è interessante proprio per questa ragione: non basta soffermarsi sugli autori della singola operazione e comprendere le loro motivazioni e finalità, ma bisogna sempre analizzare anche tutta la costellazione di astri che si mette in movimento grazie a essa e dopo di essa. Una cosa è certa: se le Brigate rosse non avessero voluto rapire Moro lo avrebbero ucciso già il 16 marzo con gli uomini della scorta e perciò il momento del sequestro e quello dell’uccisione sono due momenti distinti che, seppure consequenziali, vanno analizzati nella loro autonomia di motivazioni, protagonisti e conseguenze.

L’operazione Moro non fu un semplice regicidio come avvenuto tante volte nella storia – da Giulio Cesare a Enrico IV a Kennedy, ma un evento assai più raro, ossia il rapimento e l’interrogatorio di un sovrano che solo poi viene ucciso forse perché ha visto e saputo troppo oppure perché è fallita la trattativa per liberarlo, magari all’ultimo momento. Da questa unicità scaturisce l’interesse della vicenda Moro sul piano storiografico e scientifico.

Grazie prof. Gotor, buon lavoro e buona vita. 

Da parte mia consigilio vivamente la lettura del testo citato, curato dal prof. Gotor; è la sintesi di un lavoro serio, approfondito ed onesto.

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