NON GUARDERO’ MILAN vs JUVE. Pecunia non olet.

NON GUARDERO’ MILAN vs JUVE. Pecunia non olet.

Sono milanista dalla nascita. La prima partita vista a san Siro fu un Inter – Milan che finì 1 a 1 con gol di Mario Corso per i biscioni e pareggio di Pierino Prati a due minuti dalla fine per il Diavolo. Era il 2 marzo del 1969, avevo quasi cinque anni. La partita non la ricordo, i gol si ed a volte li rivedo nella mia mente come se fossero stati segnati ieri. 

Da adolescente ho bazzicato a lungo il Meazza; per tantissimi anni sono stato abbonato a quelli che una volta erano i popolari. Due abbonamenti anche in serie B (con la vittoria della Mitropa Cup, mica pizza e fichi…) ed una quasi fuga dall’ospedale dopo un piccolo intervento alla schiena per vedere un Milan-Vicenza sotto il diluvio universale (ai tempi i popolari non erano coperti); se eravamo in mille eravamo tanti. Eccetera, eccetera, eccetera. Ancora oggi sono abbonato, secondo anello verde, nonostante non ci siano più nel Milan i grandi giocatori di una volta, quelli che a san Siro rifilarono al Real Madrid in Coppa Campioni un bel 5 a 0.

Ma il 16 gennaio Milan-Juventus (Finale di SuperCoppa Italiana 2018) non la guarderò. No tv (Rai1, la tv di Stato), no streaming, no diretta social.

La partita sarà giocata dalle due formazioni sul terreno del “King Abdullah Sports City Stadium” di Jeddah, Arabia Saudita. No, non sto scherzando, la partita sarà veramente giocata in Arabia Saudita. Lo conferma anche il comunicato ufficiale n. 95 del 5 dicembre 2018 della Lega di Serie A.

Arabia Saudita. Leggiamo insieme su Wikipedia. Monarchia assoluta (il parlamento laggiù non esiste e non esistono i partiti politici), 31 milioni di cittadini circa, secondo stato per estensione del mondo arabo. Detiene la più grande riserva di petrolio del pianeta ed è il nono paese al mondo per spesa militare. La legge applicata nel paese è la quella islamica, la Sharīʿa, che viene applicata dai tribunali coranici. Il sovrano è il capo di Stato del paese e la somma autorità religiosa, e detiene poteri pressoché assoluti. 

Ora lasciamo Wikipedia e passiamo ad altre fonti, decisamente affidabili e non condizionabili.

Rapporto Annuale 2017-2018 — Amnesty International.

REGNO DELL’ARABIA SAUDITA

Capo di stato e di governo: re Salman bin Abdul Aziz Al Saud.

Le autorità hanno duramente limitato le libertà d’espressione, associazione e riunione e hanno arrestato molti difensori dei diritti umani e altri che avevano espresso opinioni critiche, in alcuni casi condannandoli a lunghe pene carcerarie al termine di procedimenti iniqui. 

Sono state effettuate diverse esecuzioni di attivisti sciiti e molti altri sono stati condannati a morte al termine di processi gravemente iniqui, celebrati dalla corte penale specializzata (Specialized Criminal Court – Scc). La tortura e altri maltrattamenti ai danni dei detenuti sono rimasti una prassi comune. 

Nonostante alcune limitate riforme, le donne hanno subìto sistematiche discriminazioni nella legge e nella prassi e non sono state adeguatamente protette contro la violenza sessuale e di altro tipo. Le autorità hanno applicato in maniera estensiva la pena di morte, effettuando decine di esecuzioni. Le forze della coalizione a guida saudita nello Yemen hanno continuato a commettere gravi violazioni del diritto internazionale.

A maggio, il Relatore speciale delle Nazioni Unite su diritti umani e il controterrorismo ha concluso che la legislazione antiterrorismo dell’Arabia Saudita non era in linea con gli standard internazionali e ha esortato il governo a “porre fine al perseguimento giudiziario di persone come difensori dei diritti umani, scrittori e blogger, semplicemente a causa dell’espressione non violenta delle loro opinioni”.

La coalizione militare a guida saudita, a sostegno del governo internazionalmente riconosciuto dello Yemen, ha continuato a bombardare le aree controllate o contese dalle forze huthi e dai loro alleati, uccidendo e ferendo civili. Alcuni attacchi si sono configurati come crimini di guerra. Un rapporto delle Nazioni Unite, reso pubblico a settembre, ha rilevato che le operazioni della coalizione saudita continuavano a essere la principale causa della morte di civili nel conflitto. A ottobre, il Segretario generale delle Nazioni Unite ha inserito la coalizione a guida saudita nel suo rapporto annuale su minori e conflitto armato, creando una nuova categoria costruita appositamente per limitare la condanna nei confronti della coalizione.

TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI IN ARABIA SAUDITA

Episodi di tortura e altri maltrattamenti di detenuti sono rimasti un fenomeno comune e diffuso. I tribunali hanno continuato a giudicare gli imputati e a confermare condanne a morte sulla base di contestate “confessioni” preprocessuali. Agenti della sicurezza hanno continuato a torturare e altrimenti maltrattare i detenuti nell’assoluta impunità.

L’ultimo rapporto Reprieve (organizzazione britannica in prima linea per la difesa dei diritti umani) intitolato “Justice Crucified: The Death Penalty in Saudi Arabia” segnala che nei primi tre mesi del 2018 sono state 33 le condanne a morte eseguite e, secondo le previsioni, l’Arabia Saudita supererà le 200 entro la fine dell’anno.

DIRITTI DELLE DONNE IN ARABIA SAUDITA

Donne e ragazze hanno continuato a subire discriminazioni nella legge e nella prassi, malgrado le riforme promesse dal governo. La legge imponeva alle donne di ottenere il permesso di un “tutore” di sesso maschile, che fosse padre, marito, fratello o figlio, per poter frequentare corsi d’istruzione superiore, cercare un impiego, viaggiare o sposarsi. Le donne inoltre hanno continuato a non essere adeguatamente protette contro la violenza sessuale e altre forme di violenza.

Avete mai sentito parlare di Jamal Khashoggi? Era un giornalista saudita ( editorialista del Washington Post) molto critico nei confronti del regime monarchico saudita. Un giorno – il 2 ottobre 2018 – entrò nel consolato saudita di Istanbul per richiedere un documento indispensabile per potersi sposare. Non ne è mai uscito. Vivo…

Sono certo di si. Vi riporto un pezzo pubblicato da Repubblica un mesetto fa. Giusto per rinfrescarci la memoria.

ISTANBUL. Recep Tayyip Erdogan si rifiuta di incontrare il principe Mohammed bin Salman. E Ankara spicca mandato di cattura per due stretti collaboratori dell’erede al trono saudita. Sul caso Khashoggi è ormai scontro aperto fra Turchia e Arabia Saudita. Un confronto che, però, divide non solo il Medio Oriente, ma spacca addirittura le istituzioni americane: dove il Senato e la Cia si mostrano in netto contrasto con il presidente Donald Trump il quale, per salvare le commesse di armi a Riad, continua a difendere il principe MbS.

A Istanbul la procura generale ha spiccato ordini di arresto nei confronti di due funzionari accusati di aver ucciso Jamal Khashoggi, il giornalista saudita critico con il proprio governo, ucciso il 2 ottobre all’interno del proprio consolato nella metropoli turca. A ricevere il provvedimento sono due esponenti molti vicini all’erede al trono, ed entrambi parte dello ‘squadrone della morte’ di 15 elementi arrivato da Riad per sole 24 ore, per la missione omicida contro l’editorialista del Washington Post.

La Turchia, che vede nel caso anche un modo di emendarsi dalle accuse occidentali di non rispettare la libertà di stampa, di avvicinarsi a Europa e Stati Uniti, e contemporaneamente di rafforzare l’alleanza con il Qatar criticato dall’Arabia per la vicinanza ai Fratelli musulmani, sta giocando una partita a tutto campo. Il mandato d’arresto emesso dalla procura di Istanbul rafforza infatti il sospetto che il principe ereditario, protagonista a inizio anno di una poderosa campagna di immagine viaggiando fra Londra e Washington e aprendo ai diritti delle donne e alle sfilate di moda, abbia avuto in realtà un ruolo decisivo nel barbaro assassinio di Khashoggi.

Di recente bin Salman aveva chiesto di incontrare il presidente turco Erdogan in occasione del G20 di Buenos Aires. Ma il leader turco in un primo tempo aveva tergiversato, per poi rifiutare decisamente l’incontro. Oggi si capisce perché: la procura turca stava preparando i mandati di arresto per i suoi due collaboratori, e qualsiasi contatto istituzionale, sia pure a livello informale, avrebbe compromesso il passo della giustizia turca. A Riad, dopo settimane di grande imbarazzo, i sauditi hanno poi ammesso l’assassinio. Ma la Turchia e buona parte dell’Occidente sono convinti che se Riad non viene messa alle strette sul piano internazionale, difficilmente gli esecutori e i mandanti pagheranno un prezzo per il crimine commesso.

L’Arabia Saudita ha intanto subito rigettato la richiesta turca di estradizione dei due uomini vicini al principe. I due sono Saud al Qahtani, stretto consigliere ed ex responsabile della comunicazione sui social dell’erede al trono, e il generale Ahmed al Asiri, ex numero 2 dell’intelligence. Sono entrambi “fortemente sospettati” di essere stati tra i “pianificatori dell’omicidio”, tutti e due rimossi dal loro incarico, ma si trovano in patria e il Regno non ha alcuna intenzione di estradarli. Non c’è del resto alcun trattato di estradizione fra i due Paesi.

Una partita importante sul caso si gioca però pure a Washington, dove si è tenuta l’attesa relazione di Gina Haspel, direttore della Cia, ai senatori americani. Alla fine tutti, democratici e repubblicani, non hanno espresso dubbi: dopo la riunione si sono detti ancora più convinti che il principe saudita sia responsabile dell’uccisione di Jamal Khashoggi. Uno scenario che riporta la Cia e parte del Congresso contro Trump: la settimana scorsa il Senato americano aveva votato per portare avanti una misura volta a ritirare il sostegno degli Usa alla coalizione capitanata da Riad che sta combattendo la guerra nello Yemen. Il presidente americano aveva però di fatto salvato Mbs sminuendo le conclusioni della Cia (secondo cui il principe non poteva non sapere), e preferendo invece salvare gli accordi di vendita di armi a Riad. A Washington invece la questione ora si riapre.

A Istanbul gli inquirenti turchi continuano ad indagare, spinti direttamente dal capo dello Stato. I punti ancora oscuri restano l’identità dei contatti locali dei sauditi, dunque i loro collaboratori turchi, e l’ubicazione del corpo o di tracce biologiche del giornalista. Sulla base di quanto emerso fino ad ora, gli investigatori pensano che grazie alla presenza di un anatomopatologo tra i componenti del “commando della morte”, il corpo di Khashoggi sia stato fatto a pezzi e poi disciolto nell’acido. Tracce sono state trovate in proposito nella residenza del console saudita (poi riparato in patria), vicina al consolato, in una zona residenziale della città.

Il governo di Ankara lo vorrebbe, ma è molto improbabile che gli arabi si facciano processare dai turchi, come Erdogan chiede da tempo reclamando che il processo sul caso Khashoggi si tenga a Istanbul.

Qualora aveste voglia di approfondire, il web vi offre statistiche e reportage di ogni genere sulle pervicaci e continuate violazioni dei diritti umani che avvengono nella nazione saudita

Torniamo a Milan – Juve da giocarsi a Jeddah ed a mio avviso, da NON GUARDARE IN TV.

Scrive Vittorio Di Trapani su articolo21.org (*).

(*) Articolo 21, è un’associazione nata il 27 febbraio 2002 che riunisce esponenti del mondo della comunicazione, della cultura e dello spettacolo; giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero (oggetto dell’Articolo 21 della Costituzione italiana da cui il nome). NDR.

omissis… 

“Negli ultimi giorni, in particolare dopo i fatti di San Siro in occasione di Inter-Napoli, abbiamo sentito ripetere continuamente alcune frasi: No alla violenza, No al razzismo, Basta con le parole, Bisogna agire. 

E poi abbiamo letto una valanga di comunicati, di tweet, di post su facebook, anche da parte di società di calcio e di grandi campioni per esprimere vicinanza e solidarietà al difensore del Napoli Koulibaly.
Benissimo. Se cresce il fronte antirazzista è una vittoria di tutti coloro che credono nei valori della Costituzione italiana. 

Ma. C’è un grande “ma”. Un “ma” che è cresciuto in queste ore. Ma allora perché la Lega Calcio di Serie A ha scelto di andare il 16 gennaio a giocare la finale di Supercoppa italiana in Arabia Saudita? … omissis

“Non possiamo un giorno indignarci per i cori razzisti nei nostri stadi e poi il giorno dopo andare a giocare in un Paese dove sono quotidianamente violati i diritti umani”.

Vero, allora perché andiamo laggiù anziché declinare l’invito e giocare altrove?

Per 7 milioni di euro per 3 anni: più di 20 milioni di euro in totale. Pecunia, dinero, soldi, moneta, quattrini, geld, money, profumatissimi petrodollari (in questo caso petroleuro).

Non vi sembra che questa cifra somigli tanto ai trenta denari di antica memoria elargiti duemila anni fa per tradire? Perché anche in questo caso di tradimento si tratta. Un tradimento eseguito chiudendo gli occhi davanti alle violazioni dei diritti umani, perpetrate anche grazie alle armi vendute dalle aziende italiane alla monarchia saudita che vengono utilizzate nella guerra contro lo Yemen, anche per colpire civili.

Tutto il movimento del calcio prenda posizione. Le istituzioni scendano in campo.
Vittorio Di Trapani

Mi associo a quanto chiede Vittorio Di Trapani nella sua lettera aperta inviata a Milan e Juventus, le squadre che dovranno scendere in campo.

“… in Arabia non si può e non si deve andare. La Lega Calcio ci ripensi. La Juventus e il Milan facciano sentire la propria voce. Tutto il movimento del calcio prenda posizione.
Le istituzioni scendano in campo. Intanto noi giornaliste e giornalisti continuiamo a dire no alla Supercoppa in Arabia Saudita, continuiamo a raccontare cosa avviene in quel Paese.”

Fine del predicozzo. Io Milan – Juve giocato a Jeddah non lo guarderò su Rai1. Ciascuno si regoli poi come meglio crede, in coscienza.

A presto e Buon 2019 a tutti.

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