Lo scorso anno ho passato una parte dell’estate in Abruzzo, in una piccola località affacciata sul mare. Non essendo un tipo da spiaggia ed annoiandomi tremendamente a rosolare al sole, spesso e volentieri mi sono spostato anche verso l’interno, scoprendo luoghi che non conoscevo.
Mi sarebbe piaciuto scrivere qualcosa di quanto avevo visto, ma ho messo nel cassetto l’idea a causa di una mia manifesta impreparazione; o meglio chiamiamola proprio con il suo nome, ignoranza semi totale di luoghi, tradizioni e storie.
Il fato ha voluto farmi conoscere (prima attraverso i suoi scritti e successivamente di persona) una bella donna appassionata della sua terra, una bravissima giornalista, ‘na femmeni abruzzesi.
La sua succintissima autobiografia ci dice “nata in Abruzzo, vivo a Milano (città che amo) da molti anni. Lavoro al Corriere della Sera, dove mi occupo di temi culturali, prevalentemente di arte, abito in una casa di ringhiera piena di libri, guardo un numero sconsiderato di film, mi piace viaggiare per l’Europa in auto, da sola”.
Eccola, radiosa e sorridente come può esserlo solo chi ha vinto il derby per l’ennesima volta. Ma gli abruzzesi non dovrebbero tifare per il Pescara? Ed io, povero diavolo, davanti al suo sorriso neroazzurro…soffro.
Roberta Scorranese mi accompagni alla scoperta del tuo Abruzzo? Prima di rispondermi sappi però che vestirò a tratti i panni dell’Advocatus diaboli*…
Ma certo, partiamo!
*Advocatus diaboli è una locuzione latina che si traduce in italiano con avvocato del diavolo. ll promotore della fede (in latino promotor fidei), chiamato informalmente avvocato del diavolo, fino al 1983 era una persona – incaricata dalla Chiesa cattolica romana – di apportare argomenti che mettessero in discussione le virtù e i miracoli dei candidati alla canonizzazione, durante il processo d’indagine. Insomma un rompiscatole che cerca la magagna anche laddove non c’è.
Partiamo dalle basi. Mettiamo alcuni picchetti e tracciamo il perimetro di questa regione Abruzzo, o forse dovrei dire gli Abruzzi. Una regione che “è legata storicamente, culturalmente, linguisticamente ed economicamente all’Italia meridionale, pur potendo essere considerata centrale dal punto di vista geografico”. Lo dice Wikipedia, quindi deve essere proprio vero.
Io sono nata in Abruzzo ed ho la lasciato la mia regione quando avevo diciannove anni, come molte altre persone dell’Italia centrale e meridionale. Siamo a tutti gli effetti l’Abruzzo e non più gli Abruzzi; lo eravamo una volta, assieme al Molise.
Allora è vero che esiste il Molise…
Eccome, esiste ed è anche molto bello.
L’Abruzzo è geograficamente posizionato nella fascia centrale dell’Italia ma ha comunque una serie di caratteristiche culturali “borboniche” che lo inseriscono di diritto anche tra le regioni meridionali. E’ stato l’avamposto finale del Regno delle Due Sicilie, con la fortezza di Civitella del Tronto che fungeva da punta estrema del regno del sud. Morfologicamente e da un punto di vista artistico siamo molto simili a certe zone della Toscana e dell’Umbria, con tante nostre chiese che ricordano quelle umbro-toscane. Come cultura, come sensibilità e come modo di essere siamo sicuramente una regione dell’Italia centrale, pur conservando alcune matrici della cultura meridionale. Con le Marche invece… quello che ci unisce è una certa rivalità! Lo dico sorridendo, il campanilismo effettivamente esiste, ma sono anche tante le situazioni che uniscono queste due regioni.
Poco meno di 11.000 kmq (a spanne una mezza Lombardia) e solo 1.300.000 abitanti; meno della città di Milano. Siete 4 gatti… ma gatti in gamba. Leggo che l’Abruzzo è una delle regioni italiane con più basso tasso di mortalità per tumori, con minori emissioni di gas serra per abitante, con maggiori consumi di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabilie con minore diseguaglianza nella distribuzione dei redditi. Mica male…
Interessante. Ciò che mi ha colpita maggiormente è il discorso relativo alla minor diseguaglianza nella distribuzione dei redditi. Non so se sia davvero così, è un dato che andrebbe verificato con attenzione. Come altre regioni dell’Italia centrale anche l’Abruzzo ha subito degli scossoni sociali enormi, soprattutto legati al fenomeno del terremoto. Sono passati dieci anni dal terremoto di L’Aquila; nel momento in cui intervengono fenomeni di questo tipo inevitabilmente si creano delle disuguaglianze. La storia della nostra regione va studiata ed analizzata con attenzione.
L’Abruzzo da sempre ha nel proprio dna il senso della rivendicazione sociale, basti ripensare a Fontamara di Ignazio Silone, dove il concetto della equa distribuzione dell’acqua e delle terre è centrale.
Ora chiudo Wikipedia ed apro un’altra fonte di ricerca e conoscenza. Si tratta di un bel racconto scritto da una donna abruzzese, ed è ambientato nella sua terra. Mi pare che l’autrice si chiami Roberta Scorranese ed il libro, se non erro, lo ha intitolato “Portami dove sei nata. Un ritorno in Abruzzo, terra di crolli e miracoli”, pubblicato da Bompiani. Roberta perché quando leggo il tuo libro mi sembra di percepire il profumo dell’erba appena tagliata, del pane fatto in casa e l’afrore del mosto e dei vignaioli?
Perché hai colto perfettamente il senso del libro. Portami dove sei nata, il titolo del libro, vuole essere proprio un viaggio di ritorno in Abruzzo. Io sono andata via dopo il liceo classico, ho studiato a Roma, ho studiato a Perugia, ho lavorato a Roma in Rai. Ho lavorato a lungo anche in altre radio (ne cito una soltanto, Radio24) e sono approdata al Corriere della Sera nel 2003. Prima con delle semplici collaborazioni, poi dei contratti a termine e infine con la stabilizzazione e una qualifica. Un lungo precariato, quella che si chiama in gergo comune la gavetta, una gavetta anche abbastanza dura e difficile. Perché nel leggere il mio libro percepisci proprio quei profumi?
Nel 2017, quando una fortissima scossa di terremoto ha distrutto parte dell’Italia centrale, colpendo anche il teramano che è la mia zona d’origine, il terremoto, molto probabilmente, si è portato via anche mio papà. Lui era cardiopatico e non è riuscito a resistere ad una serie di fatti che lo hanno fortemente provato. La mia stessa casa, quella grande casa di quattro piani di cui si parla nel libro, è tuttora per metà puntellata. La perdita di papà ed il terremoto mi hanno causato una specie di choc; ho iniziato a parlar nuovamente in abruzzese ed i miei contatti con la mia terra si sono intensificati (anche per necessità oggettive che mi hanno portata ad andare in Abruzzo più spesso). Mi sono accorta che si parla poco di quello che si perde quando si lascia il proprio luogo d’origine, vuoi per lavoro, vuoi perchè si è coinvolti da quel fenomeno che è conosciuto come “cervelli in fuga”.
Quando si va via non si acquisiscono solo vantaggi, ma si perde molto.
Si perde quel proprio personalissimo campo di forza, quella struttura mentale, fisica e sinestetica (i profumi, gli odori) che rappresentano una forte componente del proprio io. Si perde anche il contatto sottile con gli aromi e le fragranze della propria cucina di casa. Me lo chiedo spesso, ma perchè io non so cucinare? Eppure mia mamma è bravissima in cucina. Probabilmente è stata proprio la mancanza di una esperienza continua con lei che mi ha impedito di crescere con le mie capacità culinarie. Lo sradicamento dalla propria terra, dalla propria casa porta a doversi inventare un proprio modo nuovo di fare le cose; ma i profumi, i ricordi della giovinezza rimangono chiari dentro. Esperienze vissute del passato che continuano a vivere dentro le persone che se ne sono andate da casa, esperienze non invecchiate ma intrappolate, come in una conserva fatta in casa. Sono contenta che tu le abbia percepite ed “annusate” tra le mie pagine.
Tradizioni antiche, un misto di fede dottrinale e di animismo. Profonda conoscenza della natura e della superstizione. La società contadina abruzzese che hai descritto nel tuo libro, partendo dal 1942, nonostante regole di condotta molto severe, è capace di non chiudersi davanti alla sofferenza dell’uomo, persino quando si porta dentro un “peccato grosso”.
E’ vero. Nel libro tutto parte a questo peccato grosso quello di un uomo che mise incinta una donna che poi non poté sposare. Lui era il primo di undici fratelli e non avrebbe potuto dare, proprio lui, il cattivo esempio. Pur essendo innamorato di questa donna si dovette sposare con mia nonna, da cui ha avuto successivamente mio papà. Con il fratello mio papà si è incontrato solamente in tarda età, quando aveva poco meno di settanta anni. Noi abruzzesi (lo dico a pieno titolo anche se ormai sono milanese da tanto tempo) abbiamo un rapporto molto particolare con il peccato.
Siamo portati a dare al peccato un’origine “altra”; una sorta di castigo divino, oppure il frutto dello sguardo cattivo degli altri, l’ammidia. Il senso del peccato è sempre dentro di noi e noi facciamo di tutto per esorcizzarlo. Fa parte di un quadro generale molto ampio, dove ogni componente naturale ha la propria forza. Nella società rurale raccontata nel libro a volte le famiglie più povere dormivano con gli animali, e quasi tutti dipendevano per la propria sussistenza dalla natura e dall’ambiente. Si viveva in comunione con molti elementi e si tendeva a spalmare anche su di questi il senso del peccato. Si credeva anche che senza potersi liberare dal peccato grosso non si potesse nemmeno morire e lasciar volare via la propria anima. Allora si praticava un foro nel soffitto, o si lasciavano le finestre aperte affinchè l’anima trovasse magari un aiuto esterno esterno (chissà magari un soffio di vento) per farsi leggera e volare via. Portarsi via in un’altra città un retaggio così antico e forte è impegnativo, ma ti aiuta nel lavoro perchè ti insegna come maneggiare con estrema attenzione argomenti e temi anche molto difficili e delicati.
“dove si mangia in due si mangia pure in quattro”
Questa tolleranza, sia pur severa, andrebbe ritrovata anche nell’Italia del 2019.
Un mondo rurale come il mio, ma credo che questo sia comune a molte civiltà contadine, è molto conservatore. Non è di certo un mondo progressista, tanto che la sinistra ha fatto molta fatica a compenetrarlo, se non tramite scenari storici particolari come quello della Resistenza. Esiste nelle campagne un modo di dire: “dove si mangia in due si mangia pure in quattro”. La solidarietà e la tolleranza del diverso dono valori fondanti della civiltà contadina. Nelle campagne difficilmente troverai gesti di intolleranza legati al colore della pelle oppure al possedere o meno qualcosa, al proprio grado di povertà. Nelle campagne si è tutti un po’ diversi e ciascuno ha il proprio ruolo. Nel libro non ne ho parlato, ma nel micromondo di Valle c’era anche una prostituta,
pienamente accettata, che faceva il suo lavoro e la domenica andava in chiesa. In quel mondo ogni diversità si incastonava in un quadro generale e funzionava benissimo. Se stai al tuo posto e rispetti il tuo ruolo, nessuno esclude nessuno. I problemi nascono quando si tende ad uscire dal proprio ambito; quando il povero vuole diventare ricco, ad esempio. Maggiore solidarietà e tolleranza nei nostri tempi? Certo, direi proprio di si, direi che si tratta di una esigenza storica.
Torniamo all’Abruzzo di oggi. Stesso mare, ma quando si pensa allo scatenato divertimento estivo tutti pensano a Rimini e pochi a Roseto degli Abruzzi. Stessa profonda spiritualità, ma quando si pensa agli antichi luoghi carichi di santità il pensiero va ad Assisi, all’Umbria di Chiara e Francesco. Molti non sanno nemmeno che le reliquie di san Tommaso, l’apostolo che seguiva Cristo, sono ospitate ad Ortona. Siete particolarmente riservati o non sapete vendervi al meglio?
Non vorrei fare la sociologa della domenica, perchè non è il mio mestiere, ma temo che non ci sia ancora uno spirito imprenditoriale maturo. Effettivamente a noi manca quella voglia di fare impresa che si può trovare in Toscana, nelle Marche, non parliamo poi dell’Emilia Romagna. E per certi versi in Umbria. Retaggio forse della nostra storia, in quanto siamo sempre stati legati al super potere papalino prima e politico romano poi e non abbiamo mai considerato particolarmente importante il saperci vendere. Le nostre priorità sono sempre state altre, le priorità di una terra a forte matrice rurale e contadina; noi pensavamo all’acqua, al lavoro dei campi. Le nostre chiese erano posti dove pregare e dormire; abbiamo tante chiesette tratturali dove i pastori che praticavano la transumanza arrivavano, pregavano, mangiavano e dormivano. E poi via.
La nostra spiritualità è sempre stata molto pragmatica, e questo nel libro appare. Il miracolo non è un fenomeno intellettuale, riprodotto con enfasi tra pareti affrescate piene di angeli con l’aureola. Il nostro miracolo è più diretto: “san Gabriè… io non c’ho l’acqua, dai fa il miracolo!!” I nostri santuari non erano e non sono pensati in chiave turistica, sono pragmatici come noi. “San Gabriè l’acqua mi serve. Dimmi subito cosa ti devo potrà che te lo porto… non perdiamo tempo!” E’ anche il nostro bello se posso dirlo; le tracce di questa nostra spiritualità un po’ particolare sono sparse in tutto l’Abruzzo e sono bellissime da rintracciare.
Roberta, chi hai portato con te laggiu’ dove sei nata?
Ho portato una persona molto bella che mi sta vicino da tanto tempo, a cui devo il titolo. Una persona che mi dice sempre “portami dove sei nata”. Vorrei aggiungere che scrivere questo libro è stato per me l’inizio di una restituzione, la restituzione di quanto di importante ho ricevuto dalla mia famiglia e dalla mia terra.
Nel tuo romanzo hai inserito un personaggio che ho invidiato sino dalla sua prima apparizione tra le pagine. Zì ’Ntonio un uomo talmente libero da avere il privilegio di passare buona parte del proprio tempo chiuso in una baracca a fabbricare una misteriosa “bomba”. In un mondo social come il nostro, dove si vive in perenne modalità “visione pubblica”, avere una baracca tutta tua ed una bomba da fabbricare pare quasi un miraggio.
Il libro è una raccolta di storie liberamente ispirate a vite vere, ovviamente ricostruite in maniera fantasiosa, romanzesca. Zì ’Ntonio era veramente come lo racconto nel libro, aveva una grande passione per la polvere da sparo e gli esplosivi e passava il suo tempo a contatto con elementi pericolosissimi.
Ma era una cosa normale per lui, seguiva solo la sua passione. Un po’ come le ragazze del paese che ricamavano il vestito che usavano per andare a messa, lui con la stessa naturalezza trafficava con le polveri. Lo faceva con grande libertà e con grande carisma. La bomba alla fine riuscì a preparala, ma nessuno sa dove l’abbia messa. Non sappiamo dove sia, magari è esplosa, magari è sotto casa, potrebbe essere piccola piccola come un petardo, oppure enorme. Un giorno salterà fuori. Il suo mistero faceva comunque parte del gioco; in una società in cui avevi un ruolo (lo strano, l’eccentrico, il bombarolo) all’interno del tuo perimetro potevi fare liberamente ciò che volevi. Solo ed esclusivamente all’interno di quel ruolo.
In quel tipo di società si arrivava ad accettare tutti, la santa come il peccatore, perché esisteva una grande uguaglianza di fondo, dettata da questa equiparazione dei ruoli.
Il terremoto, o meglio, la tritticata. Perché un sostantivo femminile per una calamità così drammaticamente legata alla tua terra?
Perché la tritticata è qualcosa di estremamente vitale. Per noi è qualcosa di più di un avvenimento tellurico. E’ qualcosa di sempre vivo e nascosto, inattivo magari a lungo ma sempre presente. Un po’ come l’Etna per i siciliani. Speriamo che non arrivi, speriamo che se deve proprio arrivare almeno arrivi di giorno, per lasciarti scappare e per non farti cogliere nel sonno. E’ un’ombra che sta li, un’ombra che può trasformare cose e persone, un’ombra che ha quel potere che gli antichi attribuivano all’elemento femminile.
Roberta Scorranese, in anno domini 2019, temi l’ammidia?
Si. Forse dovrei dire di no, invece si, ci credo. Come diceva anche papà, non credo al rituale scaramantico e superstizioso, quello che con acqua e olio scaccia lo sguardo cattivo. Credo però allo sguardo cattivo e lo temo.
Lo temo perché sono una persona poco propensa alla battaglia ed al litigio. Io non sono una persona che litiga, a dire il vero non so nemmeno litigare davvero. Non sono ambiziosa, non ammazzerei per ottenere qualcosa e sono decisamente ligia alle regole; diciamo che sono una donna mite. Ed a noi persone miti lo sguardo cattivo può fare paura, può scombussolare l’equilibrio di chi ama la pace, la tranquillità.
Valle San Giovanni, 300 abitanti. Ora che ne ha divulgato al mondo vita, morte e miracoli, Roberta della famiglia degli Scorranese, sarà vista come una celebrità o come una brava scrittrice con la lingua un po’ troppo lunga?
No, ti fermo. Roberta è, e sempre sarà, soltanto una giornalista. Il mio mestiere è quello della giornalista, un mestiere che se viene fatto bene ha una grande dignità. Una professione che insegna ad utilizzare una buona scrittura, disciplinata. Il nostro è un lavoro importante, un lavoro che va fatto bene. Ed io ogni giorno mi pongo la domanda “ma saprò farlo bene?”
Grazie Roberta. Buon lavoro e buona vita.