Proporre una biografia di Alessia Glaviano è complicato e, per quanto si possa cercare di essere esaustivi, si corre seriamente il rischio di dimenticare sempre qualcosa. Un tratto caratteriale, un’esperienza professionale, un’intuizione che ha caratterizzato la sua vita. Quindi utilizzerò una comoda via di fuga, la sintesi estrema.
Alessia è Brand Visual Director di Vogue Italia e di L’Uomo Vogue, nonché direttrice del Photo Vogue Festival e del canale Instagram della testata. Fotografa, giornalista professionista, già componente della Giuria del più famoso contest fotografico al mondo ( World Press Photo), docente.
Ma non sono queste sue importanti credenziali che mi hanno spinto ad incontrarla bensì il piacere di conoscere una donna che, a mio avviso, ha la rarissima capacità di vedere i segni di cambiamento della società in grande anticipo rispetto alla maggioranza delle persone. Una dote rara che le invidio fortemente.
Mi accoglie nel proprio ufficio di Milano presso la sede di Vogue. Un caffè, per lei amaro, ed iniziamo a parlare.
Alessia aiutami a presentarti ai lettori, dimmi qualcosa di te.
Sono nata in una famiglia di artisti, e questa è stata una fortuna che mi ha molto aiutata in quello che successivamente è diventato il mio lavoro.
Pur avendo studiato in un ambito diverso (mi sono laureata alla Bocconi di Milano in Economia politica con indirizzo matematica) ho sempre nutrito una grande passione per l’arte in generale e per la fotografia. La mia cultura artistica non è cresciuta in una scuola ma sul campo, conoscendo e frequentando tante persone legate in diversi modi al mondo dell’arte.
Ho viaggiato tanto sino da piccola, cosa naturale avendo un padre che vive a New York, e sino da piccola sono rimasta esposta ad un ambiente e ad una serie di eventi che di certo hanno plasmato la mia crescita e condizionato la mia visione della vita.
Gli studi di Economia li ho fatti perché interessavano molto a me stessa, nonostante il fatto che in famiglia mi guardassero con una certa meraviglia. L’economia mi interessava davvero ed avevo la velleità di andare a lavorare per i Paesi del terzo mondo o per qualche ente internazionale che li sosteneva, invece una volta laureata ho iniziato a lavorare un po’ in ambito universitario. Successivamente sono tornata a New York, dove avevo già vissuto tanti anni, e nel 2001 mi sono trasferita in Italia ed ho iniziato a lavorare qui a Vogue.
A New York avevo già avuto alcune esperienze professionali in ambito fotografico e piano piano si era consolidata dentro di me la consapevolezza di cosa avrei voluto fare davvero nella vita. La fotografia, una professione, una passione ed uno stile di vita.
Il mio lavoro è cresciuto giorno dopo giorno
Vorrei che illustrassi ai nostri lettori in cosa consiste la professione di Brand Visual Director e Photo Editor.
E’ una professione che cambia a seconda del magazine per cui lavori. Gli ambiti creativi sono molto diversi a seconda delle diverse realtà editoriali presenti sul territorio. Quando sono arrivata in Italia e sono entrata qui, la figura del photo editor ancora non esisteva, ed io semplicemente lavoravo con le immagini.
Ho iniziato la mia carriera con il nostro direttore di allora, Franca Sozzani, che
è stata qui tanti anni, ed abbiamo fatto click sino dall’inizio; lei ha apprezzato subito le mie scelte estetiche e mi ha dato molto spazio. Il mio lavoro è cresciuto giorno dopo giorno, e sino dai primi tempi si è sviluppato in un ambito molto più ampio della semplice ricerca iconografica delle immagini.
In sintesi estrema Brand Visual Director significa che oggi tutto quello che riguarda l’estetica del mondo di Vogue Italia dovrebbe passare da me. Dal centrotavola delle nostre cene (ti diro’ che seguire la direzione artistica dei nostri eventi è una cosa che mi diverte moltissimo), alla scelta dei fotografi da utilizzare, dalle scelte legate al mondo web ai nostri canali social. Quello che faccio oggi a Vogue Italia in realtà ha poco a che fare con il lavoro specifico del photo editor, è più un lavoro legato alla totalità dell’estetica del brand.
Guardo le tue fotografie e mi viene in mente un termine che mi sembra legarle l’una all’altra: provocazione. Non tanto la provocazione intesa come atto di sfida, quanto lo stimolo intellettuale, l’invito a riflettere.
Io stessa ho notato nel tempo un cambiamento riguardo a ciò che posto su Instagram, direi che è una cosa abbastanza logica dato che in tutti noi avvengono dei cambiamenti con il passare degli anni. La società è cambiata molto negli ultimi anni e per certi versi è mutata positivamente. Penso ad esempio al MeToo Movement e ad una consapevolezza diversa rispetto all’oggettivazione del corpo della donna.
In un certo modo questi avvenimenti hanno limato determinati aspetti di quella che tu chiami provocazione. Penso che ci sia comunque ancora molta falsa pruderie su questi temi; se le donne fossero davvero consapevoli dell’immagine del proprio corpo potrebbero giocarci e farne veramente ciò che vogliono. Quando sono gli uomini a produrre foto di donne, tutto diventa più complicato.
Oggi non è semplice fare una sorta di pulizia intellettuale, ovvero scrivere riguardo a quella che è la storia dell’immagine della donna e dell’oggettivazione del corpo femminile. Sarebbe bene ripartire da zero, capendo compiutamente cosa si sta facendo ed avendo la piena consapevolezza che l’esposizione del proprio corpo è un atto di forza, non un gesto passivo da subire.
Quello che guida le mie scelte (non solo su internet o sul giornale, ma ovunque io metta mano) è il non fare più distinzioni nette, del tipo “ se mi occupo di moda… non mi occupo di temi sociali”. Quello che spero di essere riuscita a fare nella mia carriera è essere stata capace di legare mondi diversi, dal sociale alla moda, dal reportage all’ambiente.
Nel tuo profilo Instagram ci sono circa 8000 fotografie. Nemmeno una fotografia sportiva in action, solo qualche rarissimo ritratto di atleta. Cosa non ti attrae nel gesto sportivo?
Hai ragione, non mi interessano le immagini dello sport. Iniziano ad interessarmi un po’ di più oggi ma solo perché esistono sportivi che si legano fortemente al sociale. A me interessa la società nella quale viviamo e possibilmente (lo dico davvero senza arroganza) vorrei riuscire a fare la differenza per categorie di persone che sono poco rappresentate.
Vista la mia posizione se riesco a contribuire a fare un minimo di differenza, a fare stare meglio queste persone, sono contenta. Se riesco a toccare determinati temi sociali, utilizzando sempre la forza dell’estetica dell’immagine, sono soddisfatta. Per parlare di etica non è necessario dovere rinunciare all’estetica, anzi molte volte un valore rafforza l’altro.
Quasi sempre dietro ad un’immagine che pubblico esiste un secondo messaggio, che non è puramente estetico. E’ una cosa che mi porto dietro sino da bambina; mi interessano gli esseri umani e provo per molte persone una forte empatia. Io non credo in dio, credo in me stessa. Il senso della vita non esiste se non siamo noi stessi a crearlo, con le nostre forze, il nostro vivere, la nostra bellezza.
La tua definizione di selfie. Forse non è proprio assimilabile all’autoritratto di anni fa.
Non credo che ci sia una grande differenza tra il selfie di oggi ed il self portrait di anni fa. Quella che è cambiata è la società ed il selfie è semplicemente lo specchio della nostra società. Una società connotata da un livello elevatissimo di narcisismo.
Anni fa tutto ciò che accadeva era conservato in un ambiente sociale decisamente più privato. Oggi, con i social ed una diversa forza dei mezzi di comunicazione, il selfie è il mirror della società. Tanto che il celebre messaggio di Warhol (“Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti”) oggi è stato addirittura stravolto e superato.
Attualmente tutti pensano di avere qualcosa da dire e da comunicare ed il selfie è la metafora di questa tendenza sociale. Il problema, e lo dico senza volere essere melanconica, è che la società è andata in una direzione dalla quale difficilmente si tornerà indietro.
Tre elementi archetipali: saggezza, forza, bellezza. Si possono ingabbiare in una singola immagine fotografica?
Certamente, è ovvio. Assolutamente si. Come ti dicevo prima, questo accade quando etica ed estetica si incontrano. Certo non si tratta di una cosa semplice, ma esistono persone che hanno talento e possono farlo. Non tutti abbiamo questo talento, altrimenti saremmo tutti grandi artisti o grandi fotografi.
Non esistono trucchi o formule magiche. La fotografia è qualcosa che va studiata. Oggi esistono telefoni e macchine fotografiche che danno l’impressione di potere fare tutto da soli, ma se tu non hai studiato la storia della fotografia, se non sei consapevole di quanto accade intorno a te, non fai molta strada. Puoi anche avere un talento, un talento grezzo, ma questo va incanalato e ben indirizzato. Nulla accade senza un grande studio ed una grande applicazione.
Una decina di anni fa un celebre fotografo mi sussurrò all’orecchio “con photoshop non vale”. Il foto ritocco è una normale pratica della fotografia digitale oppure la pennellata postuma all’opera di un pittore non eccelso?
Sono tutte stupidaggini. Anche ai tempi di Avendon e della pellicola si facevano i ritocchi. Io conoscevo Bishop, un pittore, che faceva i ritocchi a mano con il pennellino sulle stampe. Il ritocco è sempre esistito.
Il problema è sempre il buongusto. Anche mio padre* ha capito di avere forse esagerato ai primi tempi con la post produzione, ma ora è diverso. Io detesto vedere i corpi ritoccati tanto da sembrare non veri, così come rimango davvero infastidita quando viene cambiato radicalmente l’aspetto della pelle.
La bellezza è ovunque ed i cosiddetti canoni li abbiamo inventati noi. La bellezza non è unica e standardizzata e quindi non ha senso cercare di alterare la realtà. Photoshop può essere utilissimo se vuoi dare fantasia al tuo scatto, ma non certo per cambiare i connotati fisici.
*Marco Glaviano è un fotografo italiano, che ha lavorato per le principali riviste e case di moda tra l’Europa e gli Stati uniti, collaborando con molte delle modelle più conosciute al mondo. È un pioniere della fotografia digitale, essendo stato il primo a pubblicare una foto digitale su American Vogue nel 1982. Le sue foto di moda, di celebrità, di paesaggi e jazz sono state esposte in numerosi musei e sono rinomate nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo. È cofondatore dei Pier 59 Studios di New York City.
Alessia Glaviano, giornalista professionista. Così come quasi ogni possessore di macchina fotografica ama definirsi un fotografo, oggi il web consente a chiunque di prendere carta e penna virtuale, scrivere e credersi un cronista. Ma essere giornalisti è altro. Mi piacerebbe sentire il tuo pensiero sull’attualità e sul futuro della nostra professione.
Penso che siano tempi parecchio duri per tutti noi. Quello che più mi dispiace è vedere che la gente pensa di potere leggere nel web tutto gratuitamente. Questo è un grosso ostacolo. Forse anche da noi, prima o poi, le persone inizieranno a capire che è necessario pagare coloro che fanno un’inchiesta, che scrivono un pezzo, che verificano le fonti.
Vedere che il New York Times sta iniziando a riscuotere profitti lavorando nel web mi da una certa speranza. Sono dispiaciuta anche da quel senso di svilimento di tutto ciò che è colto ed è cultura. Questo svilimento lo dobbiamo anche ai signori che ci stanno governando in Italia, come lo si deve a Bolsonaro in Brasile oppure a Trump in America.
Purtroppo sembra sdoganata la colpevolizzazione della cultura, dello studio, della figura dell’intellettuale o di chi si informa ed impegna il proprio tempo per scrivere correttamente un pezzo. Voglio cercare di essere positiva, perché so che nella nostra professione esistono ancora grandi figure, e mi auguro che con il passare del tempo la gente si inizi a rompere le scatole di avere a propria disposizione prodotti editoriali superficiali, anche se gratuiti.
Europa. Tu alzi un muro da brava nazionalista o costruisce un ponte per scavalcare i confini alla ricerca di una matrice culturale comune?
Sono per i ponti e sono per l’accoglienza. Un’accoglienza gestita con competenza, non quella “ it’s ok, venite tutti qui”. Credo che sia stata una colpa enorme quella della sinistra italiana il non avere avuto la forza di affrontare certi temi, lasciando alla destra lo spazio per farlo come lo sta facendo.
Sono temi che nel percepito hanno un peso specifico importante rispetto alla realtà ed andavano affrontati in un certo modo. Andavano studiate politiche serie dell’immigrazione, ed invece è stato lasciato spazio a chi oggi lancia proclami che fanno pensare di essere soggetti ad un’invasione che in realtà non esiste. Si tratta di persone che non stimo e delle quali non condivido le idee, persone che hanno disegnato scenari di paura e terrore nella gente, creando un finto problema.
In un mondo dove l’informazione è diventata globale è assurdo pensare di potere avere disparità sociali ed economiche così forti tra i diversi Paesi. L’umanità si muove – si è sempre mossa – e chi sta male cerca di spostarsi dal disagio alla ricerca di condizioni di vita migliori. Viene fatto oggi esattamente quello che è stato fatto dagli italiani anni fa.
Regoliamo questi flussi migratori, ma non perdiamo la nostra umanità. Purtroppo ho la convinzione che tutto sia complicato anche dal fatto che gli attuali migranti abbiamo un colore della pelle diverso dal nostro; la pelle nera li porta ad essere maggiormente percepiti come dei “diversi” e questa cosa non la capisco, non la accetto e trovo che sia mostruosa. Siamo davanti ad un olocausto. Siamo davanti ad una rappresentazione sbagliata del fenomeno e ad una sovraesposizione mediatica della figura del migrante. Il migrante viene spersonalizzato, viene ripreso nel suo disagio assoluto, spaventato e schiacciato in un barcone, lo si raffigura quasi come si raffigura un animale.
Io vorrei che venisse individuato diversamente, con il suo nome ed il suo cognome, la sua storia ed il suo trascorso, la sua speranza per il futuro, la sua capacità di diventare un cittadino nella nostra società. Dico no all’immagine da carro bestiame; queste sono persone, come me e te. Sono come noi ed è necessario non solo comprenderli, ma cercare di farli entrare in empatia con noi. Quindi basta riprenderli come se si trattasse di masse informi di individui pronti ad invaderci. Questa rappresentazione forzata crea imbarazzo, crea disagio e diffidenza. Sono uomini, sono donne, sono bambini, non animali al transito.
Purtroppo viviamo in un’epoca in cui le azioni compiute non sono più oggetto di una precisa responsabilità personale; nel mondo anglosassone questa rispondenza diretta viene definita con il termine accountable, che trovo molto preciso e rispondente. In America Trump ed i nostri governanti in Italia, qualsiasi cosa facciano trovano pronte schiere di seguaci e di simpatizzanti pronti a giustificarli, su qualsiasi tema, su ogni cosa decidano. Non va bene, questo è uno svilimento ed un impoverimento della propria responsabilità politica. Bisogna iniziare a renderli personalmente responsabili di ciò che dicono e di ciò che fanno.
Dobbiamo anche continuare a sperare ed a credere nella libera informazione e nella cultura, che possono togliere il detonatore da quella bomba sociale che oggi è l’odio verso il diverso. Ovviamente con politiche di accoglienza intelligenti e funzionali che non risultino d’impatto con le comunità di cittadini italiani, e qui torno a ripetermi, la sinistra ha sbagliato. Nel 2019 non si può vivere in una società permeata dall’odio per il diverso, dalla paura e dal razzismo.
Dobbiamo rimboccarci le maniche e cercare di colmare le enormi differenze che esistono ancora tra i diversi Paesi.
Ha mai cambiato opinione nella vita semplicemente guardando, magari a tradimento e senza preavviso, una fotografia?
Si, ma non guardandola e basta. Mi è capitato a volte di vedere una fotografia particolare che è stata un trigger, uno stimolo che mi ha spinta ad informarmi maggiormente e ad approfondire. Per poi cambiare idea.
Ci sono fotografie che riescono ad incidere nella psiche e nella sensibilità delle perone in modo deflagrante. La foto del piccolo Aylan deceduto in mare ed abbandonato dalle onde su una spiaggia è una di queste.
Quello è stato un caso eclatante e la reazione è stata così forte anche perché quel povero bambino poteva essere un qualsiasi bambino occidentale. Non era nero ed era vestito come un qualsiasi bambino europeo e questo ha creato una specie di cortocircuito in noi che vedevamo quelle immagini.
Oggigiorno, tutti i giorni, vediamo foto di bambini che soffrono e nessuno fa niente. Vediamo le foto dei carceri libici e nessuno fa niente. Ci sono state in passato tragedie come i massacri del Ruanda o le pulizie etniche della ex Jugoslavia che oggi sono soggette al giudizio della storia. Tra cento anni anche noi saremo giudicati dalla storia per quanto sta accadendo adesso, e temo che il giudizio sarà giusto e molto duro.
Sino all’Alto Medioevo il termine “arte” era sinonimo di mestiere, professione. Poi venne coniata la definizione di arte liberale, ovvero l’attività che richiedeva un lavoro prettamente intellettuale e rigorosamente non materiale. Siamo certi di poter definire davvero la fotografia un’arte liberale?
Si e no. Quello che dici è vero; Duchamp è stato un genio però ha anche aperto la porta a tante vaccate proposte con l’etichetta del “concettuale”. Oggi siamo ad una terza fase, quella dell’esperienza. Dalla manualità siamo passati al concetto ed oggi siamo approdati all’esperienza. Direi che una performance come quella di Marina Abramović con The Artist is Present possa rappresentare bene questa fase.
La fotografia, come tutte le arti, dipende da chi la fa. Può essere solo manualità e non avere un’anima, oppure essere solo anima senza avere un’adeguata tecnica, oppure – in casi più rari – avere entrambe le componenti ed essere quindi un’arte realizzata.
Quanto, in uno scatto commerciale, conta la tecnica e quanto la fantasia?
Dipende dalla libertà che ti lascia il cliente ed il brand. Ad esempio come Vogue Italia facciamo delle cose fantastiche per Gucci, perché loro hanno dei valori che sono molto simili ai miei e mi lasciano fare quello che voglio.
C’è stato un periodo nella storia della fotografia della moda (che coincide con gli anni ’90) in cui la fotografia pubblicitaria è stata molto più radical di quella odierna. Pensa ad esempio alle immagini di Mario Testino per Gucci dove il simbolo del brand era ricavato dalla tonsura del pelo pubico; erano cose pazzesche, oggi non si farebbero mai cose così. Un tempo il budget della pubblicità consentiva anche di sperimentare, oggi la pubblicità è più istituzionale, anche se comunque esistono ancora dei brand che ti consentono di mettere in gioco la tua creatività.
Una mia curiosità. Perché utilizzi con Costantino della Gherardesca un tono così autoritario? Mi sembra un uomo così cortese e disponibile, perché tanta foga?
Ma no… non è che io parli con lui diversamente da come parlo con le altre persone. Il fatto è che io ho un tono di voce molto perentorio e tutti i miei amici lo sanno. Non posso farci molto, sono fatta così. Costa è il mio migliore amico, è la persona che vedo di più e che frequento di più e con maggior piacere visto che non ho un compagno. Stiamo molto bene insieme e condividiamo tantissime cose.
Costa è l’uomo perfetto per me.
Il tempo vola ma gli impegni restano e lo squillare continuo del cellulare ci consiglia di giungere ai saluti.
E’ stato un vero piacere Alessia, buon lavoro e buona vita.