Non basta indignarsi, occorre lavorare.

Non basta indignarsi, occorre lavorare.

La pandemia Covid19, le sue “vittime”, le conseguenze che questo periodo ha prodotto nelle vite familiari e nelle relazioni affettive. Come è cambiata la nostra società. Come ripartire.

Ne parlo con la dottoressa Elisabetta Mancini, dirigente della Polizia di Stato.

Elisabetta Mancini, dirigente della Polizia di Stato, oggi a capo dello staff del Prefetto Vittorio Rizzi, Vice Capo della Polizia e Direttore centrale della Polizia Criminale.

Ha vissuto buona parte del suo percorso professionale nelle fila della Polizia Stradale come responsabile della comunicazione, dove ha diretto anche la Sezione di Roma, con 10 Reparti e più di 600 operatori. 

Per due anni ha lavorato a Firenze come vice dirigente del Compartimento Polizia Ferroviaria e, prima dell’attuale incarico, ha diretto l’Ufficio Affari Generali della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato, articolazione che si occupa della prevenzione, del contrasto e dell’analisi dei fenomeni criminali e delle scienze forensi.


La “Fase 1” del lockdown dovuta al Covid19 ha visto realizzarsi qualcosa che sino a qualche mese fa ci saremmo potuti immaginare solo dopo qualche bicchierino di troppo. Tutti chiusi in casa per mesi, ogni attività sociale sospesa, libertà personali fortemente compresse, paura, città silenziose, strade deserte. Le Forze dell’Ordine, incaricate di verificare il rispetto delle disposizioni di legge, non sono mai state guardate con ostilità, ma sempre con rispetto e considerazione. Se lo aspettava?

Nessuno si aspettava quello che siamo stati costretti a vivere, né tantomeno ci saremmo mai interrogati su quello che sarebbe stato il sentiment nei confronti delle forze di polizia in una situazione inimmaginabile di lockdown. Ogni anno, però, l’Eurispes offre una fotografia dell’Italia che ci incoraggia e ci responsabilizza perché la fiducia dei cittadini nei confronti delle forze di polizia è molto alta, mediamente 7 italiani su 10 credono nel nostro lavoro.  

E’ una reputazione costruita giorno per giorno, nel rapporto quotidiano con la gente. Il cittadino è attento a quello che facciamo e non bastano arresti, sia pur brillanti, per guadagnare la sua fiducia. Occorre un ascolto continuo del suo bisogno di sicurezza, delle sue paure, spesso legate ai pericoli della quotidianità. 

Più che della criminalità organizzata o del terrorismo, il cittadino ha paura dello spaccio di droga per i propri figli, della sicurezza della propria casa, degli incidenti stradali, della clonazione della carta di credito, delle truffe alle persone più fragili. Quella che in gergo tecnico chiamiamo microcriminalità ma che sembra poco rilevante solo per chi non ne rimane vittima. Sono reati odiosi che vanno ad incidere sulla serenità quotidiana di ciascuno di noi.

Nel periodo lockdown la gente ha capito che dal rispetto delle regole dipendeva la nostra stessa vita e ha visto le forze di polizia esposte in prima linea a garanzia di tutti. Il richiamo del Capo della Polizia Gabrielli ad interpretare il nostro lavoro con rigore ma anche con umanità ha rappresentato la cifra del nostro impegno, in uno scenario in cui ci siamo reinventati per fronteggiare un pericolo invisibile e inimmaginabile.

Flessibilità a rispondere e rispondere rapidamente alle nuove istanze di sicurezza: forse è davvero questa la caratteristica più importante di un operatore di polizia. 


Un rapporto del Ministero dell’Interno, pubblicato all’inizio del mese di maggio, evidenzia come il lockdown legato alla pandemia covid19 abbia drasticamente ridotto il numero dei delitti nel Paese. Con un’unica eccezione, rappresentata dai maltrattamenti a familiari e conviventi. Le vittime non sono tutte uguali.

Ci siamo subito resi conto che il lockdown poteva portare a delle situazioni gravissime in quei contesti familiari difficili, e magari già compromessi, in cui la convivenza forzata e prolungata poteva esporre donne e bambini a fenomeni di violenza domestica. E anche in questo ambito il Capo della Polizia ha subito richiamato l’attenzione di tutte le forze di polizia al massimo rispetto delle procedure di primo intervento a tutela delle donne vittime di violenza.

Esistono quelli che chiamiamo reati spia che rappresentano gli indici di un rapporto uomo-donna malato, come i maltrattamenti in famiglia, gli atti persecutori, la violenza sessuale: anche rispetto a questi reati si è registrata una riduzione nel periodo di lockdown (rispetto allo stesso periodo del 2019), anche se la flessione è stata meno significativa di altri fenomeni criminali e che si è andata attenuando nell’ultimo periodo. 

E’ molto probabile che questi dati siano stati, però, falsati dalla difficoltà di denuciare delle vittime, costrette come erano a vivere sotto lo stesso tetto del partner violento. 

Circostanza che spiega l’impennata delle telefonate al numero antiviolenza 1522 messo a disposizione dal Dipartimento per le Pari Opportunità, l’helpline che ha raccolto le richieste di aiuto di tante donne per superare momenti di sofferenza, solitudine e smarrimento connessi anche alla difficoltà di rivolgersi alle forze di polizia.

Le conseguenze della pandemia non si dovranno allora, probabilmente, misurare solo a livello di recessione economica e di pericolo di infiltrazione della criminalità organizzata nelle attività produttive, ma anche per le conseguenze che questo periodo ha prodotto nelle vite familiari e nelle relazioni affettive.


Quali sono le cause che scatenano abitualmente la violenza di genere in Italia?

Le cause sono, purtroppo, culturali e questo non semplifica il problema.

Nel nostro ordinamento, solo 40 anni fa (fu abolito nel 1981), trovava ancora cittadinanza il matrimonio riparatore, che estingueva la violenza carnale se l’autore dello stupro sposava la vittima, salvando l’onore della famiglia. Così come fino al 1981 era previsto il delitto d’onore, che prevedeva una pena molto più lieve per chi uccideva una moglie, una figlia o una sorella che avesse infangato l’onore della famiglia con una relazione illegittima. E ancora, fino a cinquant’anni fa il codice penale incriminava l’adulterio solo se commesso da una donna, mentre non era punita l’infedeltà del marito a meno che avesse tenuto l’amante nella casa coniugale.

Ci sembrano realtà ormai distanti anni luce ma sono passate poche decine di anni e le “scorie” culturali devono ancora essere smaltite dalla nostra società. 

Il vaccino del virus della discriminazione non può allora che essere la cultura, l’informazione, l’ascolto della sofferenza delle vittime per costruire modelli di comportamento diversi. La formazione continua ad essere un aspetto fondamentale per le forze di polizia anche in questo settore. 

All’inizio non è stato facile far capire all’operatore di polizia che in caso di lite domestica non era un suo compito quello di provare a riappacificare gli animi, come farebbe in una lite di condominio, in base peraltro ad un suo preciso compito fissato dalla legge. Oggi sa che all’interno delle mura domestiche deve, invece, subito intercettare i segni di una violenza che potrebbe degenerare e che va subito interrotta.

La vittimologia è diventata una materia di tutti i nostri corsi di base e di specializzazione: la psicologia ci ha aiutato ad andare oltre a quello che la donna dice o denuncia perché la vergogna, il senso di colpa, la paura, l’isolamento, la dipendenza economica non la rendono libera. 

Tranne la violenza carnale di uno sconosciuto (che in termini assoluti non è un reato fortunatamente così frequente), la donna che subisce stalking o maltrattamenti è di norma legata al suo persecutore da un legame affettivo, presente o passato, spesso ci sono dei figli da tutelare e questo innesca una dinamica vittima-autore assolutamente diversa da tutti gli altri reati.


Chi lavora per la sicurezza è per definizione un ottimista. Si deve pensare positivo, senza ingenuità, ma con sano realismo, volontà e determinazione


L’azione di polizia e l’azione giudiziaria possono incidere sugli effetti della violenza di genere. L’istruzione e la cultura dovrebbero sterilizzarne le cause. Possiamo sperare in un’Italia diversa da quella odierna?

Chi lavora per la sicurezza è per definizione un ottimista. Si deve pensare positivo, senza ingenuità, ma con sano realismo, volontà e determinazione per costruire un’effettiva parità di genere. E serve l’aiuto di tutti, come sottolineava lei stesso nella domanda. 

Dobbiamo essere sempre di più una rete attiva, pronta ad intercettare subito i segni di un amore che diventa ossessione, il possesso morboso spacciato per gelosia, anche tra i più giovani.

E un ruolo importante lo giocano gli uomini: non basta indignarsi, giudicare il violento, pensare di essere diversi. Occorre lavorare insieme in modo attivo perché scompaiano pregiudizi e stereotipi su cui attecchiscono violenza e sopraffazione.


Lei ha una notevole esperienza legata al tema della mobilità e dei trasporti. Ritiene che in qualche misura l’esperienza del lockdown possa rappresentare uno stimolo per migliorare anche la sicurezza delle nostre strade?

Mi piacerebbe che il rispetto dimostrato dagli italiani nei confronti delle misure di lockdown fosse lo stesso anche per le regole della strada: ma i gravissimi incidenti mortali che si sono verificati subito dopo l’apertura non ci fanno bene sperare.

Anche qui il problema è culturale: conosciamo tutti le regole ma riteniamo di poter dominare il pericolo.  La Polizia Stradale da più di vent’anni comunica e organizza campagne di sicurezza stradale per far capire i pericoli della strada di cui ci rendiamo conto spesso solo quando qualche disgrazia ci colpisce da vicino. 

Per non morire sulla strada non serve né mascherina né distanziamento, basta rispettare poche ed elementari regole.    


Il coronavirus ha mietuto vittime in modo trasversale. Non ha guardato al credo religioso di nessuno, non si è fatto influenzare dal censo, dalla razza, dal pensiero politico di chi attaccava. La reazione della popolazione italiana è stata magnifica, ci siamo sentiti solo italiani ed abbiamo gettato tutti insieme il cuore oltre l’ostacolo.  Temo che passata l’emergenza possa tornare in Italia l’epoca dei “distinguo”. So che lei si è spesa molto nel contrasto ai cosiddetti reati d’odio. Condivide la mia preoccupazione?

“I can’t breathe!” è un mantra che rimbomba dentro le nostre teste da giorni. Vediamo e sentiamo notizie terribili sul razzismo negli USA e ancor più doloroso è che gli autori di tali crimini siano le stesse forze di polizia. Sono convinta che la nostra cultura sia però diversa ma non siamo immuni dal pericolo dell’odio in tutte le sue forme.

Ne sono esempi l’apologia del nazismo e i continui attacchi antisemiti, i cori razziali nelle curve degli stadi, gli atti di bullismo contro i disabili, le vigliacche discriminazioni contro le comunità gay. Crimini che vanno a riempire anche le nostre cronache, tutti fatti legati dal filo rosso dell’odio contro chi è diverso per razza, religione, orientamento sessuale.

Alle minacce del mondo reale si affiancano, poi, i pericoli dell’odio on line con potenzialità devastanti sulle vittime, a fronte di strumenti di contrasto che non hanno ancora quella tempestività che imporrebbe la velocità diffamante del web. 

E allora l’antidoto più potente non può essere ancora che la cultura per combattere l’ignoranza e la paura del diverso; dove le forze di polizia hanno un ruolo fondamentale nel frenare il rischio di escalation, nel bloccare ogni forma di intolleranza prima che degeneri in sofferenza, distruzione e morte.

Spendo molto tempo della mia giornata lavorativa a trattare questi temi nell’ambito dell’OSCAD, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, un ufficio dove lavorano insieme Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri e che quest’anno compie dieci anni. 

L’OSCAD rappresenta una best practice italiana che viene imitata a livello internazionale che in dieci anni ha formato più di 22.000 operatori di polizia, in stretto collegamento con le Agenzie internazionali che si occupano di discriminazione e con il mondo delle associazioni. Rete quest’ultima che rappresenta una parte fondamentale della società civile nell’emersione delle discriminazioni fenomeno e nella tutela delle vittime, spesso spaventate nel denunciare le sofferenze subite.


Le nostre divise devono rappresentare un aiuto concreto


Per rimettere in moto un Paese che è rimasto in stato di choc a lungo, che ha prospettive di ripresa economica molto incerte, che deve ritrovare se stesso il prima possibile, bisognerà attivare anche dei meccanismi di sostegno psicologico. Quale potrebbe essere il ruolo delle Forze dell’Ordine in questo frangente?

Le forze di polizia devono continuare ad essere un solido punto di riferimento per il cittadino. Le nostre divise devono rappresentare un aiuto concreto, i lampeggianti delle nostre macchine devono trasmettere tranquillità. E perché questo avvenga non possiamo fermarci, dobbiamo studiare e muoverci insieme ai ritmi frenetici di una società in corsa, che richiede forze di polizia allineate alla contemporaneità e preparate alle tante nuove sfide che ci aspettano. 

Related Posts