Quando parliamo di riciclo dei rifiuti spesso tendiamo a visualizzare nella nostra mente i grandi centri di stoccaggio ed i vasti complessi industriali che trattano la carta, il vetro, il rifiuto organico umido, l’inerte.
Oppure le lunghe ciminiere che segnalano la presenza degli inceneritori o le discariche che accumulano tutti i materiali classificati come “non riutilizzabili”.
Esistono però anche delle nicchie di mercato che si occupano della raccolta e del riutilizzo di materiali meno convenzionali, materiali che vengono riportati nella filiera del consumo sotto forme a volte imprevedibili.
Nel gennaio del 2020 avevamo già trattato il tema della raccolta differenziata con un imprenditore specializzato nel recupero dei prodotti cartacei (https://www.linkiesta.it/blog/2020/01/raccolta-differenziata-siamo-al-de-profundis/).
Oggi torniamo a parlare di riciclo incontrando un uomo che ha avuto la capacità di abbinare il business alla cultura dell’ambiente ed alla solidarietà, operando in un mercato particolare ed inventando di sana pianta un nuovo metodo di utilizzo del rifiuto speciale.
Ci troviamo in Lombardia, in un comune della cintura metropolitana di Milano, in pieno Parco Agricolo Sud Milano.
Nicolas Meletiou le lascio il compito di presentarsi.
Volentieri. La prendo un po’ alla lontana se non le spiace, in modo da poterle raccontare anche qualcosa delle mie origini, alle quali tengo molto.
Sono Nicolas Meletiou, figlio di Teodoro Meletiou.
Mio padre è stato il Console Generale di Grecia in Italia, un Paese che ha amato molto. Mio padre non è stato solo un diplomatico, è stato anche un imprenditore.
Durante la seconda guerra mondiale fu preso prigioniero e destinato in un campo di detenzione nei pressi di Poppi, in Toscana, dal quale fuggì dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Accolto da una famiglia di mezzadri, con il loro consenso si finse “Mario Certini”. Entrò a far parte di un neo-costituito comitato di azione antifascista, esercitando un’intensa attività partigiana, aiutando numerosi prigionieri greci in fuga, salvando molte persone dalla fucilazione. Alla fine del ’43 si trasferì a Roma dove divenne vice-capo di un’organizzazione clandestina messa in piedi dall’amico Evanghelos Averoff, in seguito ministro degli esteri della Grecia.
La Regione Toscana gli ha dedicato un bellissimo libro che racconta la sua storia. Come detto fu anche un imprenditore, nel 1947 fondò tre aziende tra Palazzolo sull’Oglio e Bergamo: una d’importazione di madreperla, una per la fabbricazione di materie plastiche per bottoni e un’azienda di costruzioni a Bergamo. Fondò anche una piccola cittadina vicino a Monfalcone. Il suo rapporto con l’Italia era molto profondo, per tre volte fu fatto prigioniero e per tre volte fuggì dagli italiani, quando l’Italia era schierata “dalla parte sbagliata”. Nonostante tutto ciò amava molto l’Italia. Morì nel 1964 in un incidente stradale.
Mi madre era in macchina con lui al momento dell’incidente e rimase gravemente ferita, rimanendo ricoverata in ospedale per un lungo periodo.
Avevo cinque anni e fui indirizzato al Collegio dei Barnabiti di Lodi, parlando quasi solo greco e trovandomi di punto in bianco in un mondo nuovo.
Sopravvive ai Barnabiti…
Si, sopravvivo ai Barnabiti, cresco e vivo quasi vent’anni lavorando in giro per il mondo per una grande multinazionale, rientrando ad un certo punto in Italia, per la precisione a Bologna.
Un bel giorno vengo invitato ad una cena a casa di Cristina Busi, la moglie di Arturo Ferruzzi e qui conosco il neo amministratore delegato di un’azienda della nuova galassia dell’ecologia che si occupava della gestione dei rifiuti.
“Ma ti pare che chi ha lavorato una vita in un’azienda multinazionale di prodotti di largo consumo può di colpo amministrare un’azienda che tratta i rifiuti?” La sua perplessità era grande, io invece vedevo la sfida e pensavo che ci si potesse provare. Abbiamo scommesso un caffè (la posta massima ed unica delle mie scommesse) e mi sono ritrovato ad Opera, in provincia di Milano, a gestire una delle più “cattive e malfamate” realtà imprenditoriali del milanese.
Metto piede ad Opera il 4 settembre del 1997 ed entro nello stabilimento della famigerata “Jelly Wax”.
Conosco bene la Jelly Wax, in quegli anni nominarla equivaleva quasi a fare il nome di Satana in chiesa. Era al centro delle cronache ambientali del tempo, pareva la causa di tutti i mali.
Esatto, la Jelly Wax, successivamente rinominata in SVR, Sistema Valorizzazione Rifiuti, controllata dal gruppo per il quale lavoravo, il gruppo Sistema appunto.
Per me era una grande sfida, volevo far fruttare le mie esperienze manageriali, maturate in diversi ambiti professionali in giro per il mondo, in qualcosa che potesse portare beneficio all’ambiente, all’uomo ed al territorio.
Entro in questo impianto, che perdeva un sacco di soldi, e trovo un ambiente fortemente demotivato. Ho sospeso l’attività per due settimane e per prima cosa ho fatto riverniciare tutta la proprietà, da capo a piedi.
Stiamo parlando del più grande impianto di smaltimento di rifiuti tossico-nocivi della Lombardia, il secondo in Italia. Là dentro giravano 400.000 tonnellate di rifiuti ogni anno e finivano anche in posti che io non ritenevo idonei.
Abbiamo iniziato lavorare nel rispetto assoluto e tassativo di tutte le regole, ho ribaltato tutto ed in tre anni è diventata un’azienda gioiello.
Sono tornati gli utili, si è ottimizzata la nostra presenza sul territorio ed il nostro nome è divenuto simbolo di eccellenza, non più di disgusto e paura.
Un giorno ricevetti una richiesta da un nostro importante cliente. “Ci smaltite una quantità impressionante di materiale, perchè non ci smaltire anche i toner, i computer, le pile, le lampadine, non sappiamo come fare…”.
Eravamo troppo grandi come struttura per avviare la micro raccolta e lo smaltimento di quantità tutto sommato contenute di rifiuti di nicchia. Ma nella mia testa il tarlo iniziava a lavorare ed il 23 marzo 1999 ho fondato la mia azienda, che oggi è specializzata proprio nel trattamento di rifiuti speciali.
Quando mi capita di parlare con gli addetti ai lavori del comparto “trattamento rifiuti” sono abituato a sentire gli imprenditori focalizzarsi principalmente sul proprio business. Si parla di costi, ricavi, prospettive economiche e solo parzialmente dell’impatto del loro lavoro sulla società. Ho la sensazione che il suo approccio sia un po’ diverso.
Dopo tre anni trascorsi come amministratore delegato di una società pesante che trattava il “tossico nocivo” io parto con la mia avventura imprenditoriale nel novembre del 1997 con una mentalità fortemente orientata alla tutela dell’ambiente.
Nel 1997 era uscito il decreto Ronchi, il primo decreto che di fatto regolamentava la gestione e il trattamento dei rifiuti in Italia. Un decreto che per la prima volta cercava di mettere fine a quella sorta di smaltimento selvaggio che caratterizzava il nostro Paese.
Si iniziava a sentire parlare di “ciclo del riciclo” e devo dire che questa sfida imprenditoriale mi solleticava parecchio.
Ovviamente anche la mia attività era caratterizzata dalla ricerca di un utile ma il perseguimento di questo obiettivo doveva seguire regole certe e compatibili con la salvaguardia del bene ambientale pubblico.
Quando lavori in un’azienda devi sempre perseguire la ricerca del profitto, ma nel medesimo tempo devi anche chiederti cosa stai combinando e quali possono essere le conseguenze del tuo lavoro per la società e per gli altri.
Se fare profitto significa sporcare l’ambiente è ovvio che il tuo lavoro non è fatto nel modo giusto e bisogna immediatamente iniziare a percorrere strade diverse.
Siamo giunti, seguendo questo principio, in 22 anni di lavoro a portare la nostra azienda a diventare una “società benefit”, con tutte le caratteristiche che questo genere di scelta imprenditoriale impone. Nel 1999 parlare di “ciclo del riciclo” e di economia circolare portava i tuoi potenziali clienti a guardarti di sottecchi, con diffidenza, in quanto non capivano di cosa stessimo parlando.
Quando cercavo di spiegare loro che un toner esausto non poteva essere gettato nel sacco nero del rifiuto generico, ma andava stoccato in un esobox e trattato nel rispetto dell’ambiente ti guardavano come se fossi un mezzo matto. Oggi nessuno mai si sognerebbe di gettare la propria cartuccia nell’indifferenziata a cuor leggero. Sono molto orgoglioso di avere contribuito con il mio lavoro a questo cambio di mentalità.
Sono d’accordo sul fatto che nelle aziende ed in ambito professionale il riciclo dei materiali esausti sia naturalmente indirizzato verso società come la tua. In ambito privato c’è ancora una certa resistenza, forse perché non tutti coloro che si dovrebbero occupare di riciclo operano in modo limpido e trasparente.
E’ possibile, non lo escludo, nell’ambito privato c’è ancora margine di miglioramento.
Noi siamo siamo partner dei principali gruppi bancari italiani, di importanti catene di grande distribuzione e di information technology, di aziende di piccole, medie e grandi dimensioni su tutto il territorio nazionale. Quando abbiamo iniziato tanti anni fa il nostro lavoro non avevamo concorrenti sul territorio, oggi esistono anche altre aziende che si occupano del medesimo business. Devo dire che nel nostro mestiere è necessario comportarsi sempre in maniera esemplare e corretta perché l’eventuale scelta di “strade facili”, ma borderline rispetto alle normative vigenti, può causare alla salute pubblica gravi danni.
Purtroppo nel grande mondo del riciclo di rifiuti ci si imbatte spesso in concorrenti che operano in maniera sleale creando un’alterazione degli equilibri di mercato e soprattutto consistenti danni ambientali.
Se un imprenditore vende 12 capi di abbigliamento, otto in nero e quattro con regolare emissione di scontrino fiscale, ha fatto un danno all’erario ed al massimo potrà ricevere il biasimo e la sanzione delle autorità tributarie.
Quando invece si ritirano 12 quintali di rifiuto tossico e se ne smaltiscono 8 al di fuori delle regole il danno è enormemente più grave e ricade sulla salute pubblica dell’intera collettività.
Su cosa si deve lavorare ancora per cambiare la mentalità dell’intera comunità, quali sono i punti deboli che ancora rendono precario il circolo virtuoso del recupero differenziato e del riciclo?
Il cittadino italiano è tutt’altro che sordo riguardo alle esigenze ambientali ed è portato a smaltire correttamente i rifiuti speciali quando si trova in condizioni di poterlo fare con una certa comodità.
Porto l’esempio dello smaltimento delle pile esauste, che viene effettuato tranquillamente e sistematicamente perché ormai in ogni grande magazzino, in ogni supermercato ed in ogni ambiente pubblico di una certa dimensione si possono trovare i box di raccolta. Questo non vale per tanti altri generi di rifiuto speciale.
Esiste una legge, la legge 166, che consente ai titolari dei supermercati di installare un box di raccolta per pile esauste l’interno dei propri locali. Se tu invece volessi predisporre negli stessi spazi un raccoglitore di toner usato non potresti farlo, perché la normativa non te lo consente.
Mancano i supporti legislativi che possono consentire di ampliare la raccolta. Io sono stato in diverse occasioni seduto ai tavoli del Ministero dell’Ambiente e tante volte mi sono sentito dire: “la sua idea è davvero molto bella però purtroppo non possiamo attuarla perché manca la norma legislativa che consente di applicarla nel nostro Paese”.
“Per renderla operativa dovremmo fare una lunga serie di modifiche alla legislazione attuale, i tempi sarebbero talmente lunghi da rendere la cosa praticamente impossibile, non si può fare, ci dispiace”.
Nulla di nuovo sotto il sole. A livello di legislazione locale invece c’è margine per migliorare lo stato attuale dell’arte?
Certamente, abbiamo avuto numerosi esempi di norme emesse a livello regionale, provinciale o comunale che hanno avuto ricadute positive sul nostro lavoro. Il problema è che, spesso e volentieri, queste norme vanno poi a scontrarsi con la legislazione nazionale che, per un gioco di forza tra le parti, impedisce alla legislazione locale di trovare applicazione.
La grande burocrazia romana è un deterrente formidabile allo sviluppo del nostro settore.
Non solo business, nella tua vita c’è anche lo sport.
Si lo sport fa parte integrante della mia vita, è molto importante per me. Io nella vita ho avuto due momenti particolarmente difficili, posso tranquillamente definirli due disastri.
Quando sono arrivato tanti anni fa in SVR JellyWax mi sono innamorato di una collega, un tecnico commerciale. Per i primi mesi sono stato odiato in quell’azienda e devo dire che, almeno per i primi sei mesi, ogni volta che mi offriva un caffè io temevo che ci mettesse dentro il cianuro.
Con il passare del tempo i risultati hanno dimostrato che quello che stavo facendo in quell’azienda aveva un senso, tutto iniziava a funzionare e piano piano quell’odio si è trasformato in stima da parte dei miei collaboratori.
Ci siamo innamorati e ci siamo scambiati proprio qui nel comune in cui siamo adesso il nostro primo bacio, lei si chiamava Betty.
Nel 2009 ci telefona un nostro caro amico, Marco Marchei*, e ci fa una strana domanda.
“Senti Nicolas, io ho qui un gran numero di scarpe con cui ho corso gare importanti in giro per tutto il mondo; non so come smaltirle e dove buttarle, ma mia moglie se non le faccio sparire mi mette le valigie fuori dall’uscio di casa. Ma non il cuore di buttarle nella spazzatura, mi puoi aiutare?”
Con la mia Betty nel 2009 abbiamo iniziato il “progetto Esosport”.
Abbiamo preso queste scarpe, le abbiamo triturate e ne abbiamo ricavato dei gommini di piccole dimensioni che poi abbiamo riassemblato creando dei tappetini in gomma.
Quelli che oggi si vedono abitualmente nei parchi gioco sotto alle altalene per bambini?
Sì e no, perché la maggior parte di quelli che si vedono nei giochi per bambini sono prodotti riciclando della gomma che proviene ad esempio dallo smaltimento degli pneumatici, ed è un materiale cosiddetto “sporco “ mentre i nostri tappetini provengono invece da una materia prima differente.
Il materiale sporco è paragonabile ad una piccola utilitaria, il nostro ad una fuoriserie. E così abbiamo iniziato a produrre materiale per giardini e piste di atletica.
Nel frattempo mi sono arrivati addosso due disastri. Nel 2007 ho avuto un infarto. Pesavo 94 kg e fumavo. un giorno ho sentito un forte dolore al petto e ho iniziato ad avere una tosse insistente che mi procurava un fastidio molto forte, quindi sono andato all’Humanitas per farmi visitare al pronto soccorso.
Spengo la mia ultima sigaretta nel parcheggio dell’ospedale, entro al triage e chiedo di poter avere qualcosa per farmi passare il dolore, erano le 4:30 del mattino. L’infermiera mi misura la pressione arteriosa, poi si allontanava alza il telefono e sento che dice a qualcuno dall’altra parte del filo… “codice rosso”.
A quel punto le dico “guardi se siete in attesa di un codice rosso io mi metto qui in sala d’aspetto tranquillo tranquillo, quando potrete mi visiterete”. Immaginavo l’arrivo imminente di qualche ferito grave. “Caro signore, il codice rosso è lei”.
Ne esco vivo, anche se i primi mesi sono stati molto complicati, e mi rendo conto che a 48 anni il senso di invincibilità e di immortalità che percepivo era invece una mera illusione.
Decido di cambiare marcia, di cambiare vita ed un bel giorno, a settembre del 2007, vado in un grande magazzino specializzato in articoli sportivi. Qui incontro una gentile signorina di nome Cristina e le chiedo di consigliarmi la migliore attrezzatura per iniziare a correre. Lei, vedendomi bello piazzato con i miei evidenti 94 kg, sorride ironica; ma io sono testardo e comincio comunque a correre.
Non mi sono più fermato ed oggi ho corso 22 maratone internazionali in tutto il mondo.
Tutto ciò all’interno di un’altra terribile situazione che riguardava Betty. Infatti nel 1998 scopriamo una grave patologia ai linfonodi che si concluderà solamente nel 2011 con la sua scomparsa.
Sono stati gli anni più belli della mia vita ma anche più impegnativi perché rimanere accanto ad una persona così malata, facendo andare avanti un’attività aziendale e crescendo due ragazzi è stata una cosa veramente molto impegnativa.
Betty ci lascia con il progetto Esosport in partenza ed io prometto a me stesso che lo avrei portato avanti con il titolo “I giardini di Betty” facendone un’attività puramente solidale e totalmente lontana da ogni prospettiva di guadagno e di ritorno economico.
In dieci anni abbiamo sostenuto l’apertura di ventitré Giardini di Betty e tra questi uno anche a Milano presso l’ospedale San Carlo.
Per me è un progetto molto importante perché oltre a ricordare la figura di Betty contribuisce alla crescita culturale delle giovani generazioni.
Ad esempio a Cesano Boscone abbiamo fatto, in collaborazione con i bambini delle elementari, una raccolta di scarpe che ci ha portato poi ad impiantare in Piazza della Costituzione un “Giardino di Betty” di circa 300 m quadri.
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*Marco Marchei è stato un maratoneta e mezzofondista di livello internazionale. Ha partecipato a Campionati del Mondo, Olimpiadi, Universiadi, Giochi del Mediterraneo ed alle più importanti maratone in tutto in mondo. Nella propria carriera giornalistica ha diretto testate specialistiche come Correre, Il Nuovo Calcio, Triathlete e Runner’s World. E’ il papà di Valentina Marchei, stella del pattinaggio su ghiaccio della Nazionale Italiana.
Nasce successivamente un’altra iniziativa, “la Pista di Pietro”.
Un bel giorno mi sono trovato a fare il relatore ad un convegno dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana) a Roma. Insieme a me relazionava il pubblico anche l’assessore allo Sport del Comune di Roma. Abbiamo ascoltato reciprocamente i nostri interventi ed a margine del convegno abbiamo poi scambiato qualche parola.
Lui è rimasto molto colpito dalla mia iniziativa riguardante le piste di atletica e mi ha proposto di mettermi in contatto con la moglie di Pietro Mennea, Manuela Olivieri.
Forse perché entrambi vedovi o forse perché abbiamo una visione comune dell’importanza dello sport, si è creato subito tra di noi un buon feeling ed abbiamo quindi deciso di dare vita alla prima “Pista di Pietro”.
La prima pista l’abbiamo presentata nel 2019 al Foro Italico di Roma, sovvenzionata dalla Commissione Europea per il Credito Sportivo e dalla Vibram, in occasione della Giornata Europea per lo Sport.
Su questa nostra pista a tre corsie un importante numero di atleti cercava di battere il record sulla distanza di Pietro Mennea (Genova 1976) ricevendo al termine della propria prova un diploma con il tempo realizzato.
E qui ci fermiamo, vero?
Ma no si figuri, non ci si ferma mai nella vita. Un giorno chiudendo la maratona di Copenhagen in 3 ore e 53 minuti mi faccio male ad un tendine.
Mi faccio visitare dal caro amico Sergio Migliorini, responsabile medico della nazionale olimpica di triathlon, il quale mi dice “caro Nicolas fermati subito, basta correre altrimenti ti spacchi il tendine”.
Doccia fredda, io senza sport non riesco a stare. “Vai in bicicletta, quello lo puoi fare”.
Torno sempre nel medesimo grande magazzino sportivo, prendo una bicicletta ed inizio a pedalare. Dopo qualche tempo torno dal mio amico Sergio perchè inizio a sentire un certo mal di schiena. Sergio mi chiede lumi riguardo il mio chilometraggio settimanale. Quando viene a sapere che viaggio intorno ai 500 km a settimana mi solleva di peso e mi costringe a prendere una bicicletta con tutti i santi crismi, facendomi mettere da parte quella che avevo comprato, una bici da amatore.
Inizio a pedalare, ogni mattina percorro una cinquantina di chilometri per dare il via alla mia giornata, fino a quando una certa mattina buco. Mi fermo a bordo strada per cambiare la camera d’aria e mi ritrovo a dover buttare via la camera guasta, non riparabile.
Torno al solito grande magazzino cercando di consegnare loro la camera da buttare, ma vengo cortesemente rimbalzato in quanto la struttura non è organizzata per ricevere questo genere di scarto. “Il Comune ci fa mille problemi per lo smaltimento, per carità se la porti via!”.
Mi si accende la lampadina; così come ritiro le scarpe sportive usate inizierò a ritirare anche le camere d’aria delle biciclette. Nasce Esosport Bike e tutti i negozi di questa grande catena internazionale di distribuzione sportiva oggi sono nostri clienti, sull’intero territorio nazionale. Le camere d’aria, adeguatamente trattate, sono ottime per la costruzione dei nostri Giardini.
Un giorno a venire, lontano nel tempo, anche lei dovrà mettere fine alla sua avventura imprenditoriale e sportiva. L’età non fa sconti a nessuno. Cosa rimarrà della sua esperienza?
So perfettamente che è un giorno mi dovrò fermare e per questo ho iniziato a guardare al futuro lanciando un progetto dal nome EsoSport Recycling.
Si tratta di una start-up nella quale sono state investite risorse importanti, ha sede a Tolentino, si occupa del riciclo di tutti i materiali sportivi (compreso ad esempio le palline da tennis) e di tutti i materiali di protezione individuale come le scarpe da lavoro.
Questo progetto, che si sosterrà in parte con una campagna di crowdfunding, ci porterà ad aprire in tutta Italia undici piattaforme di smaltimento, dando lavoro ad oltre un centinaio di giovani interessati allo sviluppo di queste pratiche di riciclo sostenibile.
A questi giovani lascerò l’onore di continuare a sensibilizzare sul tema della green economy i loro coetanei e la possibilità di lavorare attivamente, rendendo sempre più importante la professione dell’esperto di eco riciclo.
L’onda lunga di Greta Thunberg ha risvegliato la sensibilità ecologista, in particolare tra i giovani. Poi è giunta implacabile una certa risacca negazionista. “Sono tutte sciocchezze, il pianeta si autoregola da solo, non servono tutte queste manovre per il contenimento della temperatura terrestre…”. Stupidità, business, mancanza di alternative praticabili su larga scala?
Torniamo nuovamente al concetto distorto di “business”. Faccio un esempio, io quest’estate sono stato in vacanza in Norvegia, un paese bellissimo che sino alla fine del della prima guerra mondiale era poverissimo. Poi ha scoperto il petrolio ed è diventato un paese ricchissimo; pensa che il governo norvegese ha accantonato un fondo per il futuro dei propri cittadini tale da consentire loro, se mai volessero riscattarlo, di ottenere un sussidio di circa 400.000 euro a testa.
La Norvegia esporta circa il 70% della propria produzione e recentemente si è svolta una campagna elettorale per le elezioni politiche che ha visto contrapposti due schieramenti. Uno schieramento “verde” che spingeva per la sospensione dell’estrazione di prodotti petroliferi, ed uno schieramento che invece intendeva proseguire con le estrazioni e la vendita di idrocarburi.
Noi abbiamo l’idea che tutti i danni ambientali siano addebitabili ai grandi produttori, come la Cina e l’India, ed invece la pensano nello stesso modo anche stati a noi più vicini, stati che tutto sommato non hanno nemmeno la necessità di sostenere economicamente una popolazione sterminata come quella cinese e indiana.
Quando c’è di mezzo il denaro ed il business è facile perdere la bussola e farsi condizionare dalla brama di denaro. L’unico modo per mettere un fermo a questa folle deriva è quello di riprendere in mano la legislazione vigente e di riformarla in base a principi solidi di compatibilità ambientale.
Dovrebbe verificarsi un effetto domino; comincia uno Stato, poi due, poi dieci, poi cento, poi l’intero pianeta.
Non dico che sia un’utopia, ma sono abbastanza pessimista al riguardo.
Guardi, prendiamo l’esempio della Cina. Rispetto a qualche decennio fa la situazione sta velocemente cambiando e la Cina sta facendo investimenti molto pesanti sulla sostenibilità ambientale.
Sul fatto che lo faccia per convinzione ambientalista si possono anche sollevare dei dubbi; probabilmente anche i governanti cinesi si rendono conto che l’esaurimento delle materie prime è un problema reale e pertanto iniziano a cambiare prospettiva per garantire i propri affari nei decenni futuri.
In ogni caso il processo di adeguamento delle produzioni industriali è in corso.
Il problema del petrolio si risolverà da solo entro dieci o vent’anni in quanto l’estrazione si riduce costantemente e prima o poi terminerà. Ci sono paesi come la Danimarca che nel 2025 saranno totalmente indipendenti dalla produzione di energia attraverso l’utilizzo di idrocarburi. Anche in Cina si stanno costruendo impianti che producono energia alternativa, solo che la Cina è talmente enorme che per arrivare a risultati definitivi come quelli danesi saranno necessari tempi molto più lunghi. L’importante è che la via da percorrere sia stata individuata.
Chiedo all’imprenditore green: è favorevole o contrario al ritorno del nucleare? Lo chiedo a lei che è un riciclatore perchè ho ben presente tutta la tematica legata allo stoccaggio delle scorie.
Esistono problemi tecnici non indifferenti. Sta parlando con uno che qualche anno fa si era steso in mezzo alla strada insieme ad Emma Bonino per bloccare i lavori della centrale nucleare di Caorso. In ogni caso ritengo che oggi il nucleare potrebbe rappresentare una fonte energetica da prendere seriamente in considerazione, una fonte che potrebbe risolvere diversi problemi.
Riguardo le scorie dovremmo iniziare ad ipotizzare uno stoccaggio al di fuori del pianeta Terra. Al posto di questi nuovi “missili turistici” che portano i ricconi a spasso nello spazio, e che inquinano tanto quanto un milione e mezzo di persone in un anno intero, sarebbe il caso di iniziare a progettare navette capaci di trasportare le scorie nucleari su asteroidi o satelliti lontani dal nostro pianeta. Credo che non esistano altre soluzioni per uno stoccaggio sicuro sul nostro pianeta.
Allora tra qualche anno vedremo gli esoshuttle decollare…
Caro Claudio non credo che arriveremo a vederli con i nostri occhi, però sono convinto che i problemi derivanti dalle emissioni di CO2 si possono risolvere attraverso l’utilizzo di un nucleare sicuro.
Se ho ragione lo diranno i nostri nipoti. Svolte di questo genere possono giungere solo attraverso una forte coesione politica dell’intera Europa. E’ importante che di questi temi si inizi a parlare a livello comunitario, per trovare tutti insieme la tecnologia vincente ed un’unica volontà politica.
La tutela ambientale potrebbe rivelarsi anche una valida soluzione occupazionale.
Certo, provi a cercare oggi un valido ingegnere ambientale, non lo si trova nemmeno a pagarlo oro.
Se deve essere il business a tirare il carretto della tutela ambientale, che lo sia. L’importante è che il carretto viaggi nella direzione giusta.