Vorrei evitare sintesi acrobatiche del suo corposo curriculum professionale, con il rischio di cadere in imprecisioni ed omissioni. Me lo dica direttamente lei, chi è Aldo Morrone?
Sono un medico. Capisco che come sintesi possa sembrare estrema, ma essenzialmente questo è quello che sono, un medico.
Mi occupo da tanti anni di salute, da un punto di vista clinico e scientifico, in Italia ed in diverse parti del mondo, con una particolare attenzione ai paesi più impoveriti ed alle fasce più deboli della popolazione italiana.
Per meglio presentare il nostro ospite ritengo comunque opportuno fornire qualche breve indicazione aggiuntiva.
Il professor Aldo Morrone, classe 1954, è il direttore scientifico dell’Istituto San Gallicano di Roma (IRCCS) un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico specializzato nel campo della dermatologia e venerologia.
Infettivologo di fama mondiale, ha messo a disposizione la sua grande esperienza, maturata in ogni angolo del mondo, anche durante la pandemia covid19. La sua storia parte da lontano e ci racconta di un’incessante opera prestata per quasi quarant’anni in aiuto di poveri, migranti, persone in difficoltà.
Aldo Morrone non ha raccolto strada facendo solo riconoscimenti, incarichi, attestati e benemerenze. Ha raccolto anche molta gratitudine e molto affetto, spesso donato da coloro che non disponevano di null’altro da donare.
Lei è il direttore scientifico di un’istituzione che dal 1725 si occupa della cura di chi giunge nella Città Eterna da lontano e si ammala. Un tempo erano i pellegrini, oggi oltre ai cittadini italiani ed ai residenti stranieri ci sono i migranti. Qualcuno malignamente sussurra che non siano proprio la stessa cosa.
L’osservazione è corretta. Il valore delle parole ormai si è in gran parte perduto, il lessico andrebbe ricostruito. Migrante e straniero non sono la stessa cosa, gli stranieri non sono tutti poveri e spesso non hanno alcuna necessità di aiuto. Pensiamo ad esempio ai calciatori stranieri che giocano nei nostri campionati, di sicuro non vengono nelle strutture pubbliche a farsi curare.
Invece vengono a farsi curare i pensionati a reddito minimo, i lavoratori precari, i disoccupati. I confini che una volta separavano gli italiani e gli stranieri sono in certa parte caduti.
Noi abbiamo un servizio sanitario pubblico straordinario che opera ormai da tantissimi anni. Quando mi sono laureato nel 1979 della riforma del servizio sanitario si discuteva tantissimo, era appena stata varata grazie alla legge 23 dicembre 1978, n. 833.
Lo scopo della riforma era quello di permettere anche alle fasce di popolazione che non disponevano di una cassa mutua di ottenere la pubblica assistenza sanitaria. E’ stata una grande riforma, una grande legge che ha voluto mettere le fasce più fragili al centro di un servizio sanitario che doveva essere garantito a tutti, in forza dei principi di gratuità, solidarietà ed universalità.
Nel rispetto del dettato dell’articolo 32 della Costituzione e realizzando i voleri dei padri e della madri costituenti.
Sul fatto che poi tutto ciò abbia avuto piena ed assoluta realizzazione…diciamo che la discussione è ancora aperta.
Nelle sue apparizioni televisive lei usa sempre toni controllati e modi pacati, anche quando prende posizione con forza. Non le capita mai la tentazione di alzare l’asticella e di usare toni più diretti e più bruschi nei confronti di coloro che parlano a sproposito e non ascoltano?
Io ho una grande fortuna ed un grande privilegio; fare il medico. Un medico che ha l’opportunità di fare ricerca scientifica e nel medesimo tempo di potere vivere accanto alle persone malate. Questo mi ha permesso di sviluppare la cosiddetta arte dell’ascolto, la capacità di ascoltare le persone e la possibilità di provare ad entrare in sintonia con loro.
E questo anche con le persone che a volte rifiutano le terapie oppure disconoscono la serietà dei metodi diagnostici e terapeutici, metodi determinati dalla ricerca scientifica.
Ci sono dei momenti nei quali alzerei l’asticella, ma non nei confronti delle persone con cui mi confronto e dibatto in ospedale. La alzerei nei confronti dei rappresentanti istituzionali che non si rendono conto del danno che è stato prodotto nel Paese a causa dei mancati investimenti nell’attività sanitaria e, soprattutto, nella ricerca scientifica.
Un Paese nel quale i ricercatori sono stati perennemente posti in una situazione di umiliazione, basti pensare ad esempio all’ultima bocciatura da parte del Governo della proposta di stabilizzazione dei precari impegnati nella ricerca all’interno degli istituti profilattici.
Stiamo parlando di 3-4000 persone, sono coloro che lavorano sul sequenziamento dei virus, laureati in biologia, tecnici di laboratorio, insomma la base portante della nostra ricerca.
Molti di loro sono di fatto costretti ad emigrare e questo è il segnale di una forte disattenzione, o meglio di una forte sciatteria, delle istituzioni nei confronti della ricerca biomedica in particolare e più in generale della ricerca scientifica. Che nel nostro Paese, incredibilmente, non è molto apprezzata.
Le epidemie e le pandemie sono facilmente tracciabili guardando alla storia della nostra civiltà. La peste del Manzoni è celeberrima, ma possiamo andare molto più indietro sino alla peste Antonina che sterminò un terzo della popolazione europea ai tempi di Marco Aurelio. Ha senso dire che sono sempre esistite e che sempre esisteranno?
E’ un po’ come dire che il razzismo è sempre esistito e sempre esisterà, che la povertà è sempre esistita e sempre esisterà.
Non sono d’accordo sulla visione del futuro. Sono d’accordo sul fatto che sono sempre esistite, ma non è detto che debbano esistere per sempre.
Potremmo partire dall’analisi attenta di questa pandemia, che poi è meglio definibile come sindemia, in quanto gli effetti pandemici hanno influenzato l’ambito sociale, economico, culturale, sanitario, relazionale, affettivo.
L’analisi e lo studio dei modelli sentinella epidemiologici e dei modelli scientifici ci possono aiutare moltissimo, se presi seriamente in considerazione, e possono divenire formidabili strumenti di prevenzione.
Siamo riusciti a prevedere i terremoti ed alcune delle catastrofi naturali che da sempre affliggono la Terra, grazie a studi mirati sostenuti da investimenti seri, nel rispetto della dignità degli esseri umani e dell’integrità del territorio. Possiamo fare lo stesso anche con le pandemie e guardare ad un futuro più sereno.
Cosa rappresentano la morte e la sofferenza per uomo di fede che nel medesimo tempo è anche un uomo di scienza? C’è sempre quella vecchia storia che racconta come i carismi della fede ed i meriti della scienza viaggino su due rette parallele che si guardano da vicino senza mai incontrarsi. Una specie di convergenze parallele di democristiana memoria.
La sofferenza, il dolore e la morte rimangono un mistero, un mistero che non riesco a capire ed a comprendere, un mistero con cui sono costretto a confrontarmi ogni giorno.
Un mistero che si è manifestato nelle mie esperienze personali ed in quelle delle persone che incontro. La religione, le religioni in genere, possono provare a trovare un significato per aiutarci a convivere con la sofferenza e la morte.
Io spero che nel futuro la sofferenza si possa sempre più ridurre e che non riuscendo, almeno nei prossimi secoli, ad eliminare la morte la sofferenza stessa possa rendere la morte un mistero un po’ particolare.
Provo a spiegarle la particolarità di questo mistero. Ho sempre pensato che ciascuno di noi rappresenti una parte di stella. La vita sul nostro pianeta è nata attraverso l’esplosione di una stella avvenuta circa cinque miliardi di anni fa. Dall’esplosione di una supernova si creò un frammento di stella, che noi oggi chiamiamo Sole.
Una serie di materiali entrati in orbita intorno al Sole hanno prodotto i diversi corpi celesti ed i pianeti del sistema solare, essi stessi frammenti infinitesimali dell’Universo. Solo sulla Terra abbiamo coscienza del fatto che ci sia la vita, sviluppatasi per una serie di fortuite combinazioni di idrogeno, ossigeno e carbonio.
Ogni elemento rappresenta un frammento di stella, ogni essere umano rappresenta un frammento di stella, e non è detto che un giorno questo frammento di stella non possa tornare a far parte dell’energia primigenia che lo ha generato. Guardare le stelle in cielo, nelle notti più buie, può aiutarci a comprendere come la vita sia nata molto prima di noi e può aiutarci a riflettere sul fatto che tutta questa straordinaria bellezza deve avere un senso più profondo di quanto riusciamo a percepire e comprendere nel corso della sola vita terrena.
La Vita, che è un attimo infinitesimale del disegno complessivo.
E’ Dio che salva o è la scienza?
La scienza è una protagonista fondamentale del miglioramento della qualità della vita.
Spesso rifletto su quanto dicevano gli antichi: “credo di credere”. Vorrei essere aiutato a credere, perchè dinanzi alla sofferenza ingiusta, alla malattia ed alla morte dei bambini, credere diventa molto, molto difficile.
Deve esserci qualcosa che a noi scienziati e ricercatori sfugge e mi auguro che questa tessera mancante possa un giorno essere compresa meglio.
Deve esserci un legame tra la fine della vita terrena per come la conosciamo e l’inizio di qualcosa di diverso. Il medico ha possibilità e la fortuna di esercitare una serie di atteggiamenti che lasciano intuire questa possibilità.
Il medico che incontra il malato nel corso di un momento di fragilità ha una responsabilità ed un privilegio. Il privilegio consiste nel fatto che gli viene offerta l’occasione di praticare l’attenzione, la disponibilità piena, la tenerezza, la carezza e quindi di sfiorare meglio di chiunque altro il senso della vita e della morte.
E’ possibile tracciare una mappa pandemica dei nostri tempi per macro aree?
Sono d’accordo con lei sul fatto che esistono aree separate da confini. Molto prima della pandemia covid esisteva già un confine drammatico, rappresentato dall’impoverimento di ampi strati di popolazione.
Le faccio un esempio. Se lei va a guardare il tasso di mortalità materno-infantile si accorgerà che il tasso più elevato è in Africa, in particolare nell’Africa sub-sahariana. Potrà anche osservare che un indicatore della ricchezza di un Paese è il costo dell’acqua potabile; più si è ricchi meno costa l’acqua potabile.
Un metro cubo di acqua potabile a New York costa meno di un dollaro, in Colombia o in Ghana costa dai cinque ai sei dollari al mc.
Non dobbiamo pensare alla pandemia esclusivamente come diffusione di una malattia, individuata e contabilizzata. In Africa non è che manchino ad esempio i tumori, ma sfuggono alle statistiche perchè non vengono curati e pertanto inseriti negli indici statistici.
Le pandemie sono tante, una delle peggiori è la pandemia della fame. Ogni anno la FAO ci ricorda che 821 milioni di persone soffrono la fame, e l’anno a seguire ci ricorda ancora che il risultato è identico. C’è da chiedersi a cosa servano le grandi agenzie internazionali se i numeri sono sempre gli stessi.
Al centro della nostra attenzione c’è sempre il modello europeo, il modello occidentale, come in occasione di questa pandemia covid. Stiamo giustamente preoccupandoci di coprire l’intera popolazione con una terza dose, ma fino a quando non vaccineremo anche il resto del mondo con due dosi nessuno di noi potrà stare tranquillo e sentirsi al sicuro.
C’è, anche in campo medico, una mancanza di visione globale a livello mondiale. Esiste una parte del mondo che è considerata marginale, quasi ininfluente. Lasciamo perdere per un attimo l’ambito sanitario, osserviamo ad esempio il mondo della comunicazione e dei giornali.
I grandi giornali hanno corrispondenti in tutte le nazioni più importanti, spesso in ogni grande città o capitale. In Africa invece a volte c’è un unico corrispondente che deve monitorare gli accadimenti di un intero continente. Questo modo di guardare al mondo è parte integrante della nostra cultura, una cultura che in determinate direzioni guarda con un occhio solo.
Lei ha una robusta esperienza di lavoro missionario in alcune delle zone più sofferenti del pianeta. Immagino che la frase “aiutiamoli a casa loro” alle sue orecchie suoni in modo diverso da come suona alle orecchie di chi ama più i muri dei ponti.
In effetti io non ho mai pensato “aiutiamoli a casa loro” con l’idea di tenere determinate persone lontane da “casa mia”. Tutt’altro, io dico “aiutiamoli a casa loro” perchè lì abbiamo moltissimo da imparare.
Possiamo imparare a capire per quale motivo la gente fugge e fuggendo corre il concreto rischio di morire, piuttosto che rimanere in determinate aree del mondo dove è complicato rimanere in vita e soprattutto conservare la propria dignità di uomo e di donna.
Come medico penso di avere il compito di occuparmi non solo della salute ma anche della dignità delle persone.
L’esperienza in determinate aree del mondo è un’esperienza che non ti deprime ma ti arricchisce; con investimenti estremamente ridotti in termini strutturali ed economici si possono realizzare delle opere che alzano la qualità della vita dei pazienti e degli operatori in modo sostanziale. Stiamo parlando di persone che hanno voglia di vivere e di rimanere nel proprio Paese conservando la propria dignità, lavorando, studiando, crescendo, impegnandosi per la propria terra.
A volte si può osservare come in Europa si sia sviluppata la cultura dell’abbandono, della rapina, del disinteresse mentre in zone del mondo definite depresse è forte la cultura della conservazione, della condivisione, del sapere guardare con ottimismo e desiderio al futuro.
La particolarità del mio lavoro in zone disagiate del pianeta non è consistito tanto nel portare un contributo tecnico-operativo, ma quello di avere percepito una forte “voglia di vita” ed avere osservato come è considerato il valore della vita. E stiamo parlando di ambienti sociali dove manca tutto, acqua, cibo, medicinali.
Le confesso che spesso mi sono indignato davanti al fatto che con sforzi economici decisamente contenuti e pochissimi medicinali si sarebbero potute salvare le vite di migliaia di persone che soffrono, ma la totale stupidità di un’Europa che crede ciecamente alla logica del profitto, non lo ha permesso.
La logica della condivisone, anziché del profitto ad ogni costo, l’ho vista ovunque, nei campi di rifugiati siriani, in Libano, in Egitto, in Etiopia, in Eritrea, in America centrale, in sudamerica.
Dovremmo riuscire a recuperare questo senso della vita, ma è tremendamente difficile per noi. Non è vero che tutto tornerà come prima dopo il covid, non è giusto che tutto torni come prima, perchè se tu non provi ad interpretare e ad analizzare quanto è accaduto per rivedere il tuo stile di vita, corri il rischio di dimenticare tutto molto in fretta.
La forte impressione dei primi mesi di pandemia si sta progressivamente trasformando in una sorta di abitudine, con le statistiche dei decessi che iniziano ad essere un elemento scontato della quotidianità, un elemento anche un po’ fastidioso e ripetitivo.
Accade un po’ quello che è accaduto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Inizialmente c’è stata una grande volontà di ricostruzione, volontà che poi nel tempo è sfumata in atteggiamenti di intolleranza, manifestati in altre forme ed in altri sistemi.
Io penso ad esempio ai beni sequestrati agli ebrei in Italia, mai restituiti. Nessuno si è mai preoccupato di restituire ciò che era stato sequestrato grazie a leggi speciali che rendevano questi atti formalmente legali.
E non parliamo della pressoché totale mancanza di analisi del fenomeno migratorio italiano nel mondo; se lei vuole vedere l’Italia immigrata deve andare in Argentina, in Brasile, in Australia. Ma in Italia lei non troverà una riflessione seria ed approfondita su questo fenomeno. E questo è grave.
Nello studio del greco mi ha sempre colpito la μετανοέω, la metànoia, la conversione. La conversione non è solo dire “mi dispiace, ti chiedo scusa perchè ti ho offeso”. Convertirsi significa cambiare atteggiamento rispetto a quello che avevi prima, e per far ciò bisogna cambiare idea e prassi di comportamento.
Se chiedo scusa per una legge iniqua devo poi trovare il modo di riparare ai danni fatti sotto la copertura di quella norma, con azioni concrete.
In questi ultimi mesi stiamo facendo un lavoro di analisi e di riflessione tra gli IRCCS italiani (istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) riguardo l’efficacia della vaccinazione sui malati oncologici, dermatologici eccetera e sul numero delle prestazioni sanitarie perdute a causa del covid.
Dopo avere condiviso il fatto che c’è stato indiscutibilmente un calo delle prestazioni prestate, un calo anche significativo, ho posto una domanda: “ Quante di queste prestazioni non erano appropriate? E’ vero che ante pandemia eseguivamo una serie di prestazioni e di prescrizioni di medicinali inappropriate? Ed in quale misura?”
“La pandemia ci sta insegnando a razionalizzare il nostro intervento oppure continuiamo a prescrivere indagini e terapie non effettivamente necessarie?”
I paesi impoveriti ci potrebbero insegnare molto riguardo al fatto che ci sono delle prestazioni e dei farmaci assolutamente inutili, inutili ed inefficaci.
In particolare nella sua fase iniziale, che ha rappresentato un momento di grande confusione quando ancora non si capiva come agisse questo virus, la pandemia ci ha messo di fronte a talune scelte legate alla scelta dei farmaci da utilizzare. Possiamo trarre dall’analisi e dal ricordo di quel momento una lezione, ovvero quella di creare una medicina più attenta alle persone malate, più attenta alla ricerca scientifica, e se mi consente dirlo, meno attenta alla logica del profitto.
Caro professore non voglio dirle che mi sembra un’utopia, diciamo che è un bellissimo sogno.
Le ripeto quanto le ho detto prima. Il fatto che una cosa vada in un certo modo non la rende immutabile. C’è sempre uno spazio ed un tempo per migliorare.
Grazie professore, buon lavoro e buona vita.