Elena Basile è Ministro Plenipotenziario presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Ha vissuto per motivi di lavoro in Madagascar, Canada, Ungheria e Portogallo. È stata Ambasciatrice d’Italia in Svezia (dal 2013 al 2017) e in Belgio (dal 2017 al 2021).
Vorrei che lei si presentasse ai nostri lettori.
Sono una donna innanzitutto, una donna abbastanza idealista. Ho intrapreso la carriera diplomatica ma non ho mai abbandonato le mie passioni per la cultura umanistica, per la filosofia e la letteratura.
Ho nutrito la scrittura come spazio di interazione con me stessa, come difesa da una certa superficialità inevitabilmente inerente alle relazioni pubbliche, uno spazio quindi di autenticità.
Credo in una diplomazia di Commis d’Etat, di funzionari pubblici interpreti dei più alti valori della Costituzione e garanti di una politica estera che persegua gli interessi nazionali, riferendosi al pilastro euroatlantico e alla nostra vocazione mediterranea.
Auspico quindi una diplomazia che dialoga ed influisce sulla politica. Non mi entusiasmano i silenti esecutori che si appiattiscono sui colori di un determinato governo o peggio prenotano gli aerei del potente di turno.
Cosa significa essere oggi un ambasciatore? O meglio, un’ambasciatrice.
E’ necessario declinare al femminile il titolo, a meno che non si voglia avere un’idea anacronistica della diplomazia. L’Ambasciatrice un tempo era la moglie dell’Ambasciatore, che si dedicava alla carriera del consorte svolgendo un ruolo impagabile nell’attività di rappresentanza e di proiezione esterna dell’Ambasciata.
All’epoca le donne Capo Missione non esistevano. Un tempo le donne non lavoravano e si dedicavano alla carriera del marito.
Oggi la situazione è differente. Le donne sono in diplomazia e sebbene le percentuali siano esigue, speriamo che una politica di genere illuminata del Ministero degli Esteri possa accrescerne il numero. Il consorte della donna Capo Missione non ha un titolo e quindi è normale che anche la consorte del Capo Missione uomo non sia chiamata Ambasciatrice, appellativo da riservare alle donne Capo Missione.
Il ruolo di un diplomatico ed in particolare di un Capo Missione è molteplice e si modula sul paese di accreditamento.
Innanzitutto un diplomatico deve essere in grado di esporre nei contesti pubblici le posizioni del proprio Paese. L’ Ambasciatore deve sapere parlare bene in pubblico. Balbettare o leggere foglietti tremanti non aiuta la carriera.
Deve inoltre avere un ruolo di mediazione: analisi oggettiva della situazione e degli interessi in gioco per individuare un punto di incontro. Il Capo Missione deve infine dedicarsi alla promozione economica e culturale del Paese ed assistere le comunità italiane all’estero.
Che tipo di presenza hanno le donne all’interno del corpo diplomatico italiano? Qual è il loro peso specifico e quali sono le loro effettive possibilità di carriera?
Come dicevo le donne sono una minoranza. Quando sono entrata in carriera, nel mio concorso ad esempio eravamo due donne su ventotto diplomatici. A mano a mano la situazione è migliorata. Ci sono stati concorsi nei quali il numero delle donne è cresciuto.
Le donne Capo Missione all’estero o Ambasciatori di Grado sono tuttavia una minoranza evidente, in Italia forse più che in altri Paesi europei.
In Svezia, ad esempio, dove ho servito, l’obiettivo del 40% di donne Capo Missione era perseguito con grande efficacia. Purtroppo in Italia abbiamo ancora un grande cammino da fare. Credo di essere l’unica diplomatica con il grado di Ministro Plenipotenziario che ha rappresentato l’Italia in due Paesi europei. Un’eccezione. Non va bene. Ci dovrebbero essere molte più donne Capo Missione, in Europa come altrove.
Lei ha rappresentato il nostro Paese come ambasciatrice in Svezia ed in Belgio. Qual è l’immagine attuale dell’Italia vista da oltre confine?
Nell’immaginario collettivo delle società civili europee l’Italia è ancora il Paese del caos politico, della gastronomia e dei paesaggi naturali, delle bellezze architettoniche.
Naturalmente i diplomatici, i politici stranieri ma anche molti imprenditori conoscono le contraddizioni del nostro Paese, una nazione che unisce l’eccellenza ad alcune debolezze strutturali.
Sia in Svezia sia a Bruxelles per me è stato essenziale fare riconoscere le giuste richieste italiane in Europa in un sistema, quello di Maastricht, che aiuta la divergenza economica e non la convergenza. Inoltre la promozione del Paese, in particolare delle sue eccellenze scientifiche, tecnologiche ed industriali, è stata una priorità per smantellare i luoghi comuni ancora imperanti.
L’intera Europa, sia pur con la parziale reticenza di alcuni Paesi, si è schierata in modo compatto con l’Ucraina, stato sovrano vittima della feroce aggressione russa. Ritiene che i provvedimenti decisi sino ad oggi, sanzioni economiche ed invio di attrezzature militari, potranno fermare questo conflitto?
La diplomazia in questo caso si limiterà a ratificare i risultati sanciti sul campo dalle armi o può ancora fare la differenza nella ricerca di una pace condivisa ?
Premetto che io esprimo soltanto pareri personali. Non intervengo come Ambasciatrice e come diplomatico, ma come un comune cittadino.
Credo che sia essenziale una diplomazia europea in grado di temperare una certa hybris che potrebbe causare danni importanti. E’ fondamentale una iniziativa diplomatica che cerchi l’equilibrio tra interessi geopolitici contrapposti.
Come Sergio Romano, Kissinger, John Mearsheimer, un analista statunitense realista, e tante voci razionali nel mondo cattolico, di sinistra e del centro destra, voci che attraversano il panorama politico italiano, avrei voluto un ruolo più attivo dell’Europa che non lasciasse la situazione incancrenirsi in Ucraina e che prevenisse la carneficina attuale.
Mi piace l’ Europa di Bismark non quella Guglielmina. La diplomazia e le classi dirigenti europee devono porsi il problema di una mediazione credibile, per il bene del popolo ucraino e dei popoli europei.
Neutralità e processo di candidatura di Kiev all’Europa sono già due pilastri sui quali può essere costruito un percorso di pace.
Ovviamente i negoziati nei dettagli sono molto più difficili, a cominciare da quale tipo di neutralità per finire al Donbass ed agli altri territori contesi.
L’importante tuttavia è la volontà politica e la determinazione con la quale la mediazione va costruita.
Oltre ad esercitare la sua funzione di ambasciatrice lei ha trovato il modo ed il tempo di esprimersi attraverso la scrittura.
E’ appena uscita la sua ultima opera, un romanzo dal titolo “In famiglia” pubblicato per i tipi de La Nave di Teseo.
In trasparenza si vedono brillare la determinazione e la centralità di una serie di figure femminili. Possiamo parlare di una narrativa volutamente femminista?
Credo che oggi le donne abbiano un ruolo da protagoniste nel particolare momento storico ed esistenziale che viviamo. La letteratura ha sempre un aggancio con l’attualità.
E’ vero, le figure femminili sono predominanti nella storia di una famiglia in cui la vicinanza affettiva si coniuga con le ombre, con fobie e sentimenti negativi che nascono nell’infanzia e che non sappiamo quale fondamento reale abbiano.
La storia della famiglia si svolge in scenari tranquilli, in riunioni familiari borghesi nelle quali per contrasto aleggia un presentimento vago, una minaccia inafferrabile.
Ad essa si affianca la versione dei singoli personaggi. Giovanna e Emanuela raccontano la loro versione, la loro storia, come sono cresciute ed hanno vissuto gli affetti. Anche il padre Mario ed il figlio Alfredo descrivono il loro mondo.
In fondo per dare un po’ di ragione agli eruditi che da tempo parlano della morte del romanzo, ho voluto dimostrare che la realtà non è traducibile in un’unica storia ma nei diversi film che ciascuno di noi gira con una telecamera nascosta nella psicologia individuale, come Pirandello aveva ben intuito.
Alle donne che nonostante batoste e delusioni, nutrono gli affetti, si oppongono padre e figlio, personaggi teneri e tragici, che battono in ritirata, che non sono capaci di vivere.
Qual è la svolta narrativa che ha voluto dare a questo romanzo rispetto ai due precedenti, “Una vita altrove” e “Miraggi”?
Ho scritto pochi libri. Cinque in tutto, compreso quello che uscirà nel 2023 con la casa editrice La Lepre. La scrittura ha acquisito sempre maggiore spazio per me. “In Famiglia” è, per dimensioni e per struttura, il libro più complesso, a me particolarmente caro, che sono felice sia stato pubblicato da un’eccellente casa editrice come La Nave di Teseo.
“Miraggi” è una raccolta di racconti, ora minimalisti, ora realisti, ora misticheggianti, ambientati nei vari paesi in cui sono vissuta, dall’Africa al Canada, dal Portogallo all’Ungheria e alla Svezia. Sono ritratti di donne.
Non mi piace il termine femminista ma certo la sensibilità femminile mi sembra oggi più articolata e da esplorare nei suoi mille contraddittori meandri rispetto a quella maschile.
“Una vita altrove” è la storia di un’amicizia tra due donne. L’Africa è presente in una corrispondenza epistolare mentre Roma e i suoi microcosmi borghesi hanno la meglio in una storia che si svolge al presente.
Per ragioni di salute. Per onestà intellettuale. Sono stata in esilio.
E’ veramente possibile esiliarsi in un mondo che ha fatto della comunicazione, social e non solo, la propria cifra distintiva? Ci si può davvero rendere invisibili con l’aiuto della scrittura e della letteratura?
Non si può scrivere se non astraendosi dagli affanni contingenti. Bisogna forse portarli con se ma guardarli con lenti differenti che aiutano il distacco, la riflessione.
Non è stato per me un periodo facile quello più recente. Senza potermi dedicare ogni mattino almeno cinque ore alla scrittura, in compagnia dei miei amici migliori, il pastore tedesco e tigrotto, il mio gatto, non sarei sopravvissuta.