L’offerta turistica del nostro Paese è davvero sterminata. Abbiamo mari e monti, città d’arte, musei che ospitano capolavori a non finire. Locations conosciute ed ammirate in tutto il mondo, meta di un turismo organizzato che muove risorse economiche di rilievo. Chi non conosce Roma, Venezia, Firenze? Chi non desidera passare qualche giorno sulle nevi delle Dolomiti o lungo le spiagge salentine o sarde? Alzi la mano colui che entrando agli Uffizi o attraversando i Musei Vaticani non rimane stordito dalla moltitudine di opere uniche che lo attendono.
Ma oltre a queste notissime attrazioni naturalistiche ed artistiche l’Italia nasconde un patrimonio vastissimo e discreto, silente, materiale ed immateriale, spesso coperto dalla polvere dei secoli e dall’indifferenza del turista abituato alla vacanza tradizionale: partenza -hotel – spiaggia – pista da sci – rientro, tutto perfettamente schedulato al pc e calibrato al decimo di secondo.
Così facendo si rischia però di trascurare le innumerevoli località che si trovano seminascoste ad un passo dal proprio uscio, quelle che sono raggiungibili in un un’oretta di macchina, quelle che si possono scoprire con un panino nello zaino, quelle che non richiedono vaccinazioni e transfert in sette lingue.
Si sa, ogni buco in Italia ha da mostrare una manciata di vecchie pietre lasciate lì da secoli, di vecchiume ne abbiamo da vendere a peso, non potremo mica inseguire ogni muricciolo ed ogni pieve cadente che incontriamo. Anche solo sapere che esistono ci costerebbe un’immane fatica.
Eppure viste con un briciolo di attenzione e soprattutto con curiosità queste pietre antiche sono ancora capaci di trasmettere qualcosa. Proviamo a prenderne una località a campione.
Ad una manciata di chilometri da Milano, un’ora di macchina o poco più, esiste un paesino che conoscono in quattro gatti.
Siamo sulle sponde del Lago Maggiore, provincia di Varese, a metà strada tra le cittadine di Luino e Laveno, in Valtravaglia. La Valtravaglia è una valle della provincia di Varese, percorsa dal torrente Margorabbia. La valle inizia a Grantola, dove il Margorabbia, proveniente dalla Valganna, si unisce al torrente Rancina, proveniente dalla Valcuvia e termina a Germignaga, dove il Margorabbia confluisce nel fiume Tresa.
Sul lago si affaccia Porto Valtravaglia, località turistica che comprende sette frazioni: Ticinallo, Muceno, Musadino, Ligurno, Torre, Domo, San Michele.
Una di queste, appoggiata sulla collina a poche centinaia di metri sul livello del mare ed immersa nel verde dei boschi, conserva da oltre mille anni un capolavoro dell’arte sacra italiana ed europea.
Benvenuti a Domo, piccolissimo centro il cui etimo ci riporta a bomba a tempi molto antichi, anni durante i quali si parlava in latino e ci si salutava con un “ave”.
Nel centro della frazione possiamo ancora trovare tre edifici molto antichi e fortemente simbolici, un complesso che replicava, in modi semplici, gli schemi adottati nei centri maggiori che prevedevano, un battistero, una chiesa grande in funzione di chiesa estiva e una chiesa più piccola, per le funzioni invernali. Anche la dedicazione degli edifici sacri seguiva una tradizione ben radicata corrispondente a quelle dei centri religiosi maggiori, con una chiesa dedicata alla Madonna e una ad un martire, mentre il Battistero era sempre dedicato a S. Giovanni Battista.
Ed ecco quindi la Chiesa madre di Santa Maria Assunta, la piccola Chiesa di Santo Stefano ed il battistero di San Giovanni Battista.
Proviamo a dare un riferimento cronologico a questi tre edifici sacri che hanno sfidato il tempo, attraversando i secoli. Possiamo partire dal campanile della Chiesa madre, che è quanto rimane di un possibile presidio militare esistente nel luogo, probabilmente risalente all’VIII° secolo.
Il basamento, infatti, è stato riconosciuto come quello di una torre militare, conservatasi sino alla rilevante altezza di circa 11 metri. Ha dimensioni in pianta di 6 m x 6, 50 m e è alto complessivamente 33 m circa. Le murature hanno spessore di 1,5 m alla base. Al di sopra del basamento, si eleva un fusto corrispondente ad una prima fase di trasformazione in campanile vero e proprio, operata in età romanica. La parte sommitale, con la cella campanaria, invece, è frutto di un ulteriore rialzo eseguito in epoca moderna (dopo il 1686). E’ tuttora perfettamente visibile ad occhio nudo la linea in pietra che separa il torrazzo militare dal fusto campanario che vi è stato elevato sopra; sacro e profano.
Nel Medioevo Domo, al centro di un versante boschivo, era sede di una pieve, che fu in seguito (1137) trasferita nella vicina Brezzo di Bedero. La presenza di ben due chiese e del Battistero attesta l’importanza di Domo nell’antichità. . Le origini della pieve di Val Travaglia, con centro a Domo, sorta in ambito curtense o di canonica regolare, sono da fare risalire probabilmente all’epoca in cui la rocca di Travaglia venne in mano dell’arcivescovo di Milano.
La possibilità di retrocedere almeno al X sec. la fondazione della parrocchiale di Domo è consentita dalla sopravvivenza, di fronte alla chiesa stessa, dell’edificio ad uso di fonte battesimale, conservatosi ancora leggibile nelle caratteristiche riferibili ad età protoromanica.
Bisognerebbe ora fare un ulteriore passo con la fantasia, chiudere gli occhi e lasciare che l’immagine contemporanea del luogo sparisca per qualche minuto. Voliamo al X° secolo con l’immaginazione. Siamo a mezza costa su un colle fitto di boschi, in un silenzio interrotto solo dal vociare delle persone e dal rumore del bestiame in transito.
Il X secolo è il secolo che inizia nell’anno 901 e termina nell’anno 1000 incluso. Stiamo per scavallare l’anno Mille, un momento di particolare tensione mistica per le comunità cristiane dell’intera Europa. Nascono in Francia i primi ordini cavallereschi, Ottone I riunisce l’ex impero carolingio, creando il Sacro Romano Impero di Germania, Nasce il culto di Carlo Magno, che sarà canonizzato in seguito sotto Federico Barbarossa. Stiamo passando dall’alto al basso medioevo.
Viene scoperta l’utilità della rotazione triennale delle colture, si inventano l’aratro con il giogo da spalla e nuovi tipi di macchine da irrigazione. A Baghdad nasce la prima università di medicina mentre nella penisola italiana crescono a dismisura castelli, fortilizi, castellazzi e torri di guardia fortificate.
La prima fase edilizia documentabile della chiesa di S. Maria a Domo risale al XI-XII sec. Tracce romaniche, infatti, presentano sia il campanile (già torre militare databile all’VIII° secolo), sia alcuni settori della parete laterale sud della medesima chiesa, parete dove sono incorporate alcune porte ora murate. Non è chiaro se la tipologia di chiesa a navata unica, con presbiterio rettangolare e tetto a vista sorretto da archi trasversi, così come descritta nelle visite pastorali cinquecentesche, sia da riferire a questo primitivo impianto o ad una riforma attuata tra XIV e XV sec.
I confini della pieve della Valtravaglia alla fine del XIII secolo sono ricavabili dal Liber notitiae sanctorum Mediolani. La pieve comprendeva oltre all’attuale Valtravaglia fino a Caldé, il versante sinistro della Valveddasca, l’area compresa tra il lago e l’attuale confine di stato, le valli di Tresa e Margorabbia sino a Biviglione Grantola e Mesenzana.
Le prime opere di riforma documentate risalgono al XVII sec. Sul corpo della chiesa medievale furono innestate due cappelle affrontate in posizione quasi mediana, nei modi di un vero e proprio transetto. Le due cappelle, pur frutto di fasi edilizie separate, presentavano e ancora presentano una comune terminazione poligonale. Il termine ante quem per questi lavori è fissato nel 1684, anno in cui fu ultimata la cappella laterale destra, dedicata in origine a S. Antonio Abate. “Antiquissima”, la chiesa di S. Maria Assunta fu sottoposta a radicale rifacimento a partire dal 1786, secondo i disegni redatti da due periti del luogo (Francesco e Silvestro Giorgetti) e recentemente pubblicati. Ne furono stravolti interno ed esterno della chiesa, pur nel rispetto delle dimensioni originarie dell’invaso. Le cappelle laterali seicentesche, invece, furono risparmiate e incorporate nel disegno complessivo del nuovo edificio.
La chiesa si sviluppa in un’unica navata con altare maggiore rivolto a est. A metà circa della navata si aprono due cappelle laterali, una per parte, a terminazione poligonale; la cappella di sinistra è dedicata alla Madonna del Rosario; quella destra è intitolata al Sacro Cuore di Gesù.
L’organo è uno strumento pregevole, con materiale fonico in parte risalente alla fine del XVI sec.; proveniente dalla Collegiata di Castiglione Olona, fu trasportato a Domo nel 1872 e, unitamente alla bella cassa lignea intagliata, installato sulla cantoria in controfacciata.
S. Stefano , risalente probabilmente anch’essa almeno al X° secolo, era una chiesa più piccola, utilizzata per le funzioni invernali. I caratteri attuali dell’edificio e la mancanza di studi approfonditi non aiutano a determinare se, nelle forme attuali, la chiesa sia frutto di una fase costruttiva di rilevante antichità o, invece, di una risalente alla fine del XIV sec. o all’inizio del secolo successivo. La presenza di un solido abside quadrangolare, innestato su un’aula fedeli rettangolare, infatti, è elemento che induce tanto a pensare ad una ricostruzione tre o quattrocentesca, tanto a moduli diffusi tra alto e basso medioevo. Sembra deporre a favore di una datazione più recente la bella porta d’ingresso, coronata da un attico classico, che parrebbe lavoro quattrocentesco eseguito in contemporanea con importanti lavori interni (inserimento di volte a crociera sul presbiterio) e di rilevanti cicli affrescati .
Il presbiterio, oggi l’unico settore della chiesa ancora dedicato a funzioni sacre, presenta una ricca decorazione affrescata eseguita nei primi decenni del XVI sec. e, oggi, per buona parte, attribuita all’intervento della bottega di frescanti locali diretta da Guglielmo Jotti da Montegrino.
A partire dalla metà del XVII sec., l’oratorio venne adibito ad uso di cappella per le sepolture, in appendice al cimitero che si estendeva tra il medesimo, la plebana di S. Maria Assunta e il battistero. Ciò determinò la progressiva decadenza, sino a che, nel 1849, fu soppresso e la metà corrispondente all’aula fedeli trasformata in casa coadiutorale. In tal modo, furono occultati e danneggiati alcuni cicli di affreschi presenti sulle pareti laterali dell’aula fedeli e sopra l’arco trionfale.
I lavori per l’adattamento a casa coadiutorale risparmiarono la cappella maggiore che, nel 1894, fu riaperta al culto sotto il titolo di S. Luigi. Purtroppo, fu questa l’occasione per maldestri adattamenti, tra cui lo scialbo di tutte le pareti del presbiterio sulle quali si erano sino ad allora conservati estese porzioni dei cicli affrescati cinquecenteschi.
Le murature sono in pietrame misto, legato con malta, a sezione normalizzata. Ad eccezione del muro orientale del presbiterio, tutte le facciata della chiesa (compreso il corpo adibito a casa coadiutorale) sono intonacate. La copertura si sviluppa in due falde ed è sorretta da un ordito ligneo principale e da uno secondario. Il manto di copertura è in tegole marsigliesi.
I cicli affrescati interni costituiscono l’elemento di maggiore interesse della piccola chiesa. Un tempo estese a tutto lo spazio sacro, le raffigurazioni sono oggi visibili nel solo presbiterio che, nonostante gli scialbi ottocenteschi, rappresenta il complesso di affreschi di maggior interesse dell’intero Alto Verbano Lombardo. Vi sono rappresentati: una Crocifissione sulla parete di fondo; i Padri della chiesa latina e gli Evangelisti sulla volta; una Discesa al Limbo sulla parete laterale meridionale; un Martirio di S. Stefano sulla parete laterale settentrionale, nonché, nei registri inferiori delle due pareti laterali, una teoria di Apostoli. Per buona parte, si tratterebbe, secondo recenti studi, di lavori dei primi decenni del XVI sec. della bottega locale di frescanti, diretta da Guglielmo Jotti da Montegrino.
Rimane il cruccio di non poterla comunque visitare.
Il Battistero
È “uno dei monumenti più importanti della Lombardia”: questa fu la conclusione di Maria Clotilde Magni, al termine di uno tra i primi approfonditi studi sul battistero di Domo, nel 1969. Questa è la conclusione valida ancora oggi, soprattutto dopo che il monumento ha rivelato, ad un’indagine scientifica condotta sotto la supervisione delle Soprintendenze nel 1975, ulteriori tracce della sua antichità e della sua eccezionalità, per non dire unicità, quale raro esempio di transizione tra il linguaggio architettonico carolingio e la stagione di preludio al romanico. Il battistero di Domo, infatti, presenta ancora oggi, per buona parte leggibili, caratteristiche che ne permettono una datazione approssimativa attorno al 925. L’edificio si eleva su una pianta ottagonale (ancorché impostata con qualche incertezza) con diametro esterno di poco inferiore agli otto metri. Ogni faccia dell’ottagono era arricchita da una coppia di grandi archeggiature (ne sopravvivono su cinque lati) sopra le quali l’ottagono di base è ricondotto ad una sagoma sub-circolare. Forse già in origine esisteva, presso la porta principale (verso la chiesa parrocchiale) un’absidiola, così da restituire al battistero una complessità planimetrica (e liturgica) che trova paralleli in casi che rimontano, persino, al V sec. (Castelseprio; Grado). Anche le piccole finestrelle con unico strombo rappresenterebbero un retaggio dei decenni avanti il X sec. Di contro, è proprio la appariscente serie di arcate decorative esterne a restituire al battistero di Domo il suo valore di unicum; queste, infatti, pur impostate secondo una cadenza ereditata dalla grande età di riforma carolingia, furono realizzate in rilievo rispetto al piano della muratura; inoltre, a Domo, fu soppressa, alternativamente, una delle lesene di sostegno alla teoria di archi, così da conferire al ritmo una frequenza quasi accoppiata. Quest’ultimo dettaglio rappresentava una sorta di anticipazione delle teorie di archetti pensili che tanta fortuna ebbero nella stagione del romanico, avviata “dopo il Mille” e diffusa in tutta Europa, evoluzione che si affermò dapprima sopprimendo del tutto la lesena tronca intermedia (come nel S. Pietro di Gemonio), ma lasciando sopravvivere l’accoppiamento dei voltini sotto la gronda delle absidi, quindi moltiplicando all’infinito la successione degli archetti tra ridotti salienti (S. Giorgio a Sarigo: S. Vittore a Bedero). La scelta di porre in rilievo quest’archeggiatura rispetto alle superfici delle specchiature esterne, invece, non ha ancora trovato un paragone e continua a rappresentare una sfida avvincente nella ricostruzione delle vicende e delle trasformazioni del battistero di Domo in oltre 1100 anni di storia.
Solo un mucchio di vecchie pietre che resistono da oltre un millennio per raccontarci la nostra storia e le origini della nostra civiltà? O qualcosa di più?
Fonti:
Domo antica sede plebana di Travaglia e il suo battistero, in “Rivista della Società storica varesina” fascicolo XII, marzo 1975, Pierangelo Frigerio, Sandro Mazza, Piergiacomo Pisoni
Domo e l’antica pieve di Travaglia, ottobre 1968, Pierangelo Frigerio, Sandro Mazza, Piergiacomo Pisoni
Riflessioni archeologiche sulla chiesa di Bedero Valtravaglia e sul battistero di Domo, in “Memorie storiche della Diocesi di Milano”, vol. XII, 1965, M.L. Floris – L. Martegani
La Valtravaglia, Milano 1927, Carlo Massimo Rota
La Pieve della Valtravaglia, Novara 1953, A. Astori
http://parrocchiaportodomo.it
Architettura romanica nel territorio di Varese, Milano 1966, Anna Finocchi
Consuetudini e condizioni vigenti nella castellanza di Valtravaglia nel 1283, Carate Brianza 1917, R. Beretta
Il restauro della chiesa di S. Giorgio a Sarigo, AA.VV., 1994
L’Eco del varesotto, articoli vari a firma Tripè, 1974
L’organo vecchio di Castiglione Olona a Domo Valtravaglia, nel periodico della Società. Storica Comense, vol. LI, 1984-85, Maurizio Isabella
Loci Travaliae, Biblioteca comunale di Porto Valtravaglia, fasc. VII, Le visite pastorali a Domo Valtravaglia, Filippo Colombo, 1998