Stefano Bruno Galli, classe 1966, insegna Storia delle Dottrine e delle Istituzioni Politiche nell’università degli studi di Milano. Consigliere regionale e presidente del gruppo consiliare della lista civica “Lombardia in testa-Maroni presidente” nel corso della decima legislatura, dal 29 marzo 2018 ricopre l’incarico di Assessore regionale all’Autonomia e Cultura di Regione Lombardia. In passato ha insegnato all’Università degli Studi dell’Insubria, all’Università “Luigi Bocconi” di Milano e all’Università degli Studi di Siena. Studioso e autore di numerosi testi di approfondimento, Stefano Bruno Galli è considerato tra i massimi esperti in tema di autonomia e regionalismo, federalismo e costituzionalismo.
Professor Galli per potere partire da un’interpretazione condivisa del termine vorrei che lei ci fornisse, da docente e non da politico, una definizione di secessione, federalismo e autonomia.
La secessione non può prescindere dal diritto, pre-politico e riconosciuto alle comunità, di stare dove si vuole e con chi si vuole. Alle singole comunità deve essere garantita la prerogativa di decidere liberamente dove e come vivere. È importante sottolineare che il diritto alla secessione è un diritto naturale, una facoltà primaria che preesiste rispetto alle istituzioni politiche, riconoscibile solo in un secondo momento dalle istituzioni politiche.
Il federalismo e l’autonomia sono dei percorsi, o meglio delle prospettive, che invece devono essere inquadrate in un ordinamento statuale. Autonomia e federalismo sono prerogative che vengono riconosciute alle comunità che sono inquadrate in un preciso ordinamento politico e statale.
Non esiste un confine che separi in modo netto l’autonomia e il federalismo. Da studioso colloco il federalismo in un percorso di continuità che nasce dall’autonomia, ben sapendo che il confine tra i due termini è assai labile. Non esiste alcun meccanismo che possa portaci a dire “sino qui è autonomia, da qui in poi è federalismo”. Possiamo sintetizzare dicendo che l’autonomia è la premessa per il raggiungimento di un ordine politico federale compiuto e maturo.
In Italia l’autonomia ha delle proprie definizioni istituzionali che sono indicate nel terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, noi possiamo semplificare dicendo che è una forma di minore dipendenza dallo Stato centrale.
Applicare questo principio riconosciuto dalla Costituzione è un atto di responsabilità e di efficienza; porta ad assumersi competenze ed oneri precedentemente gestiti dallo Stato centrale e stimola la ricerca della qualità abbinata all’ottimizzazione delle risorse. Responsabilità ed efficienza sono le due “parole d’ordine” dell’autonomia.
Al politico Galli chiedo di collocare i concetti di secessione, autonomia e federalismo nel corso della storia politica della Lega.
Partiamo dalla “secessione” così contribuiamo a sgombrare il campo dalle ricorrenti mistificazioni che vengono fatte su questo argomento. Se ne è parlato per tre soli anni: 1996-1999. Punto.
Tre soli anni all’interno della storia della Lega che va dal 1978 ad oggi, è un periodo quasi infinitesimale se paragonato all’intero percorso del movimento leghista.
Si trattò di una provocazione fatta per potere alzare l’asticella delle rivendicazioni. La Lega nacque come sindacato di territorio, un sindacato che voleva rivendicare le proprie idee, interpretando quella che ai tempi era la “questione settentrionale”.
A partire dalla fine degli anni ottanta, inizio anni novanta, in Italia il debito pubblico supera il 100% del PIL, la pressione fiscale si inasprisce e va ad abbattersi principalmente sui ceti produttivi del nord, sul popolo delle partite IVA che lavorano, producono e soprattutto pagano le tasse. In altre parti del Paese l’evasione fiscale è molto più accentuata. Questo alimenta il malessere, il risentimento e il rancore del nord rispetto a Roma. Questa situazione è l’elemento scatenante che consente alla Lega di raccogliere un consenso significativo nel nord Italia che lavora e produce. E paga le tasse.
La “questione settentrionale” non è comunque un tema che nasce dal nulla a fine anni ottanta. Possiamo dire che in quel periodo ha trovato terreno fertile ma le sue origini sono più lontane.
Certamente, concordo, su questo e l’ho anche scritto un libro.
(NdR: – Il Grande Nord. Cultura e destino della Questione settentrionale. 2012 – Guerini e associati editori)
La “questione settentrionale” è una costante della storia repubblicana, nasce con la Repubblica ed è ben presente anche nell’ambito dell’Assemblea Costituente.
Potrei ricordare l’esperienza de “Il Cisalpino”, un settimanale federalista che veniva pubblicato da un docente dell’università Bocconi, Tommaso Zerbi *. Insieme al giovane Gianfranco Miglio, a Peppino Malvestiti, Antonio Amorth e a una serie di vive intelligenze della Democrazia Cristiana lombarda e neoguelfa. Sulle pagine de “Il Cisalpino” si parlava apertamente del nord come di “una monumentale vacca da mungere”e di Roma come del “centro di una burocrazia parassitaria”.
Il 27 aprile aprile del 1945, mentre Mussolini è ospite della prefettura di Como e cerca di scappare in Svizzera, sul primo numero del giornale viene pubblicato un editoriale dal titolo “Cantoni, non Regioni”.
Alla base di questo editoriale troviamo l’idea dei cisalpini di dividere l’Italia in tre macro-regioni, il Cantone nord – il Cantone centro – il Cantone sud – inquadrate in un ordine federale ispirato dalla vicina Svizzera.
Questa proposta non ha diritto di cittadinanza all’interno dei lavori dell’Assemblea Costituente. Nessuno può togliermi la convinzione che il regionalismo che troviamo nella nostra Costituzione sia nato per scongiurare l’ipotesi dei macro-cantoni e la prospettiva federale che giungeva da una parte del nord Italia. Il regionalismo repubblicano è nato senza dubbio in funzione antifederalista.
* Ndr:
Tommaso Zerbi (Cermenate, 27 marzo 1908 – Milano, 14 marzo 2001) è stato un economista e politico italiano. Allievo di Gino Zappa, fu docente di ragioneria prima presso l’Università commerciale Luigi Bocconi e poi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nella sua attività politica, fu membro prima del Partito Popolare di don Luigi Sturzo e, dopo la sua partecipazione alla resistenza, dal 1945 segretario provinciale dello stesso Partito popolare e poi membro della Democrazia Cristiana. Tommaso Zerbi venne eletto all’Assemblea Costituente nelle file della stessa Democrazia Cristiana nel Collegio IV di Milano e fece parte della Terza commissione per l’Esame dei Disegni di Legge, della quale il 4 dicembre 1946 venne nominato vicepresidente. Fece inoltre parte del Governo De Gasperi VII quale sottosegretario al bilancio, con il ministro Giuseppe Pella. E’ considerato il padre della moderna ragioneria.
Argomento chiuso quindi. Di un’Italia federale non sentiremo più parlare.
Assolutamente no. Dopo la promulgazione della Carta Costituzionale il tema della questione settentrionale si inabissa per poi tornare alla pubblica attenzione nel 1970-1975. Nel 1970 vengono eletti i primi Consigli regionali e nel 1975 si chiude la prima legislatura delle Regioni. Al termine di questa prima esperienza nasce un vivo dibattito e ci si interroga: “allora visti questi primi cinque anni, le regioni servono o non servono? Quale ruolo possono avere nell’articolazione istituzionale della Repubblica?”.
Il primo presidente della Regione Emilia-Romagna, Guido Fanti, esponente del Pci, davanti all’invadenza continua dello Stato nelle prerogative delle neonate Regioni, lancia l’idea di fondare una “Lega del Po”.
Elabora un proprio progetto denominato “Padania” (tenete bene a mente che sto parlando di Guido Fanti, comunista) sostenendo che Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto avrebbero dovuto far fronte comune e avviare delle politiche coordinate in ordine all’ambiente, alle infrastrutture e ai trasporti, costituendo una rete operativa chiamata “Lega del Po”. Organizza una mostra itinerante che parte nel 1975 da Torino e passa per tutte le grandi città del nord bagnate dal Po. Ottiene una certa visibilità. Gianfranco Miglio non si fa scappare l’occasione per sostenere l’iniziativa e scrive sulle pagine del Corriere della Sera un pezzo titolato “La Padania e le grandi Regioni” nel quale sostiene l’idea di Fanti e puntualizza che le macro-regioni potrebbero avere un maggior potere negoziale nei confronti del centralismo romano.
Fanti non fece una gran carriera all’interno del PCI, ma oggi possiamo ricordarlo sicuramente come un precursore.
Ma nemmeno in questa occasione il federalismo “sfonda”.
Esatto, il sottomarino federale si inabissa ancora per poi tornare a galla nei primi anni novanta.
Il politologo della Harvard University Robert Putnam pubblica nel 1992 un libro, “La tradizione civica nelle regioni italiane”, nel quale parla di quella parte della penisola italica che nel XII e XIII secolo ha vissuto l’esperienza dei Comuni, ovvero il nord Italia.
L’esperienza dei Comuni, caratterizzata da un grande impulso verso la gestione autonoma del territorio, della politica, dell’economia, della fiscalità e del commercio, ha contribuito a creare nel nord Italia un particolare tasso di civicness, cioè di virtù civiche, diverso da quello di altre italiche realtà. Non sostiene che sia migliore o peggiore, superiore o inferiore, ma fa notare come questo tasso di civicness sia comunque “diverso”.
Potrei aggiungere come un elemento importante che differenzia questi territori sia anche rappresentato dal cosiddetto “boom economico”. Uno sviluppo importante dell’economia che parte dalla valle dell’Olona per poi espandersi nel varesotto e poi lungo tutta la fascia pedemontana, prima di dilagare nell’intero bacino della Pianura Padana e in tutto il nord.
Simultaneamente a Putnam (1993) anche Miglio esce con il suo “Decalogo di Assago” che riprende le idee di Fanti del 1975 e de Il Cisalpino del 1945.
Questo è filone che la Lega intercetta facendosi sindacato di territorio.
Quindi la “secessione”, tanto amata da numerosi militanti leghisti della prima ora, è un espediente per tenere alta la tensione politica e le rivendicazioni del nord?
Assolutamente no. Guardi che, a mio avviso, ad attirare il consenso verso la Lega non è stata la suggestione della secessione, ma quel sentimento di disagio verso lo Stato centrale e quel diffuso sentimento antipolitico che molti cittadini covavano in seno.
Quell’atavico mal di pancia di cui gli italiani soffrono periodicamente e che nel tempo è servito ad alimentare movimenti di protesta come ad esempio i 5 Stelle?
No, non proprio. Perché nel caso della Lega l’insofferenza non è cresciuta in tutto il Paese, ma principalmente al nord. Il lombardo, il veneto, il piemontese che lavorava, produceva, pagava le sue tasse, aveva la sua fabbrichetta, il suo capannone con attaccata la villetta tirata su con mille sacrifici…
Mi sembra di vedere apparire all’orizzonte il personaggio del Pojana di Andrea Pennacchi…
Si, non vede male, molto caratterizzato, ma somigliante. Quel tipo di piccolo imprenditore che ha contribuito a costituire il nerbo dell’economia del nord, molto impegnato nel proprio lavoro, ha sempre staccato un assegno in bianco alla Democrazia Cristiana perché tutelasse e rappresentasse i suoi interessi.
All’inizio degli anni novanta il piccolo imprenditore si rende conto che la D.C. non ha ben tutelato né rappresentato i suoi interessi e questo alimenta un fortissimo sentimento antipolitico e anti-Stato. Aumenta la pressione fiscale, lo Stato è percepito sempre più come ingordo e predatore e la delega in bianco concessa alla Democrazia Cristiana viene bruscamente revocata.
Sono gli anni del famoso slogan leghista “Roma ladrona”. Come ha fatto un movimento politico fortemente radicato al nord ed ostile al centralismo dello Stato a cambiare radicalmente rotta cercando di diventare partito di governo in ogni regione italiana?
Ci aveva provato anche Bossi, verso la metà degli anni novanta. Il risentimento nei confronti della classe politica ed il tema della qualità della classe politica non è un’esclusiva del nord. L’autonomia e il federalismo potrebbero essere il giusto rimedio per risolvere i mali del Paese, non ci vedo nulla di strano nel tentativo di condividere le sensibilità politiche del nord e diffonderle anche al centro e al sud Italia.
Non si tratta dell’esportazione preconfezionata di un modello, farei torto a pensatori come Guido Dorso (campano), Gaetano Salvemini (pugliese), Luigi Sturzo (siciliano), autori che nel paesaggio del pensiero politico federalista italiano hanno avuto un ruolo e un peso di primaria importanza. Non dimentichiamoci dell’appello di Salvemini: “date al sud una costituzione federale”, scriveva. Il background culturale c’è, bisogna però cambiare in parte quella civicness di cui parlava Putnam.
Il ministro Calderoli porterà all’attenzione della politica nazionale un provvedimento che viene identificato con il titolo “autonomia differenziata”. Mi può spiegare le linee guida di questo progetto?
Questa proposta del ministro Calderoli rappresenta un passo in avanti riguardo il tema del regionalismo differenziato e alla legge quadro del ministro Boccia e del ministro Gelmini.
Il regionalismo differenziato viene costituzionalizzato nel 2001 con la revisione del Titolo Quinto. Dal 2001 ad oggi non ha mai funzionato nonostante i cinque tentativi operati da quattro Regioni di aprire una trattativa con il Governo: Toscana 2004 – Piemonte 2006 – Lombardia e Veneto 2007 – Piemonte 2008. Nessuna trattativa giunge al traguardo.
Quali sono le deleghe attualmente gestite in autonomia dalla Regioni?
L’articolo 116 della Costituzione consente di negoziare ventitré competenze, tre sono esclusive dello Stato e venti sono competenze concorrenti.
Attualmente la gestione è articolata in modo molto particolare. Faccio un esempio partendo da temi dei quali mi occupo giornalmente. La tutela dei beni culturali è in capo allo Stato, la valorizzazione dei medesimi beni è una competenza concorrente tra lo Stato e la Regione. Dovrebbe diventare una competenza esclusiva delle Regioni, così come è attualmente la competenza sull’agricoltura. Allora le cose funzionerebbero meglio.
Riguardo la sanità o riguardo l’istruzione attualmente la Regione ha solo responsabilità essenzialmente di carattere organizzativo, la gestione politica delle due materie attualmente è in capo al Governo.
Se le Regioni potessero gestire direttamente le realtà del proprio territorio, che conoscono bene nei minimi particolari, certamente i servizi offerti alle comunità migliorerebbero.
Il vero scandalo del regionalismo italiano non è rappresentato, come tanti sostengono, dalle regioni a statuto speciale, ma dalle regioni a statuto ordinario che vengono trattate tutte allo stesso modo.
La pianta amministrativa della penisola, che ricordo risale al 1852 con Cesare Correnti, è molto disomogenea. Abbiamo una super provincia come il Molise accanto a uno Stato nello Stato come la Lombardia. È del tutto evidente come non sia possibile attribuire le stesse competenze a due realtà così diverse tra di loro. La Lombardia produce un quarto del PIL nazionale e richiede competenze specifiche, in Molise la situazione è diversa.
Regionalismo differenziato significa che le competenze variano a seconda della fisionomia territoriale, della demografia, della capacità produttiva ed economica del territorio e del tipo di società che lo anima.
Rischiamo di dare vita a venti Italie tutte diverse tra di loro che viaggiano a velocità non omogenee.
Sfatiamo un falso mito. Guardi che dal federalismo differenziato ci guadagnano tutti! Ci guadagnano le Regioni che potranno occuparsi al meglio delle proprie necessità locali, ci guadagna lo Stato che avrà maggior tempo da dedicare alla ricerca di soluzioni per i grandi problemi del Paese.
È del tutto evidente che ci siano dei differenziali di rendimento istituzionale diversi tra le singole Regioni e questo è il prodotto di un regionalismo ordinario che ha trattato sino ad oggi tutte le amministrazioni allo stesso modo.
Il regionalismo differenziato non accentuerebbe le differenze di rendimento delle singole realtà ma aiuterebbe a ricomporre le fratture.
Dico, ripeto e sottolineo: l’autonomia è per lo Stato una manovra a saldo zero.
Facciamo nuovamente un esempio. Si conosce perfettamente quanto lo Stato spende per mantenere la Soprintendenza in Lombardia, in Calabria, in Sicilia, in Emilia-Romagna. Non si chiede un aumento della quota della Lombardia a discapito di quella di un’altra Regione. Si chiede di poter amministrare direttamente competenze e risorse economiche, godendo esattamente del medesimo stanziamento. Non si porta via nulla a nessun altro soggetto. Non viene intaccato il fondo perequativo, non viene intaccato il residuo fiscale. E non si vogliono nemmeno apportare variazioni a quel principio che stabilisce che parte delle risorse delle Regioni che hanno maggiore capacità fiscale vengano utilizzate a favore delle amministrazioni che ne hanno di meno. Altro che “secessione dei ricchi”.
Ipotizziamo che la Regione Lombardia riceva dallo Stato un milione di euro per la gestione di un servizio culturale. Operando dal territorio l’assessorato riesce a mantenere il livello dei servizi offerti e nel medesimo tempo risparmia duecentomila euro. Questo residuo attivo torna all’amministrazione statale centrale o rimane in Lombardia?
Ovviamente deve rimanere a disposizione del territorio, si stanno valutando le possibili modalità di impiego.
Passando dal Parlamento…
Boccia e Gelmini avevano insistito particolarmente sull’adozione di una Legge Quadro. Era un sistema per circoscrivere il perimetro della trattativa. Ma il perimetro è già definito dalla Costituzione laddove si parla delle materie negoziabili.
Il ministro Calderoli ha fatto un passo in avanti decisivo, strutturando un provvedimento attuativo dell’articolo 116, un provvedimento che manca sin dal 2001 e che più studiosi hanno sempre auspicato.
Rimetto per un attimo le vesti da docente e le dico che il passaggio parlamentare mi crea qualche perplessità. L’intesa che va raggiunta è un’intesa bilaterale tra il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Presidente di una Regione e sfocia in un atto dispositivo che viene firmato da entrambe le parti.
Rispetto a questo accordo bilaterale il Parlamento è una parte terza. Si potrebbe pensare ad un passaggio preliminare del testo in Commissione Bicamerale per gli Affari Regionali, stanza di compensazione tra gli organi legislativi dello Stato e delle Regioni.
Un passaggio consultivo, espressione di rispetto istituzionale, non incidentale sul documento, che possa consentire al parlamento di dire solo sì oppure no nella ratifica del testo.
Un altro tema caldo è quello del presidenzialismo. Io percepisco una certa dissonanza tra un presidenzialismo che accentra le competenze e l’autonomia dei territori.
È assolutamente possibile verticalizzare il potere, ma per poterlo fare devo anche decentrare il più possibile. I sistemi istituzionali non si reggono su un punto fisso, altrimenti cadono. Hanno bisogno di compensazioni, di pesi e contrappesi. Gli Stati Uniti funzionano così.
Autonomia e presidenzialismo stanno insieme. Prima dobbiamo però attuare l’autonomia, anche perché si tratterebbe di un atto di lealtà costituzionale. L’autonomia è già in Costituzione e va solo trovato il modo per applicarla seriamente. Per il presidenzialismo va invece ancora costruito il percorso che porta a modificare la Carta e quindi i tempi sono differenti.
Elezione diretta del Presidente della Repubblica e massima autonomia degli Stati federali, come negli USA.
Con il suo omologo al Comune di Milano ci sono rapporti di serena collaborazione oppure gli opposti schieramenti politici creano barriere operative?
Il rapporto è assolutamente collaborativo. Con Del Corno mi sono confrontato per oltre tre anni, con Sacchi per un anno e mezzo.
Del Corno non era solo l’assessore alla Cultura del Comune di Milano ma anche un musicista. Abbiamo avuto qualche scaramuccia su alcuni temi, ma sono cose che in politica ci stanno. In generale la collaborazione è stata positiva.
Con Sacchi ho meno confidenza ma i rapporti istituzionali sono assolutamente cordiali.
La storia della Regione dimostra che i Presidenti hanno funzionato bene quando a monte esisteva un buon rapporto con il sindaco di Milano. La Lombardia non può prescindere da Milano, una città europea, internazionale. Nello stesso momento in cui inizi a ragionare in termini di global city region è ovvio che il dialogo con il capoluogo è essenziale, indipendentemente dalle differenti posizioni politiche.
Esiste un sanissimo pragmatismo meneghino-ambrosiano che porta a far sì che alla fine quello che è necessario fare si fa, indipendentemente dagli schieramenti politici in campo.
Si candiderà?
Sì, sarò in lista. Credo di avere fatto un buon lavoro sulla cultura e sui temi dell’autonomia in questi cinque anni, dando il mio contributo tecnico su entrambi i fronti. Vedremo…
Stefano B. Galli: “Prima l’autonomia, poi il presidenzialismo”