Si celebra oggi, 11 giugno, l’anniversario della scomparsa di Giuseppe Saragat, quinto Presidente della Repubblica Italiana.
Sono passati dall’11 giugno del 1988 trentacinque anni e il suo ricordo, in modo particolare tra le generazioni più giovani, tende progressivamente a perdersi.
Anche chi ha avuto modo di vivere quegli anni tende oggi a ricordarlo per lo più come un uomo dall’aspetto bonario, dai modi cortesi e pacati, dall’eloquio distinto e garbato.
Protagonista di rilievo della politica nazionale del dopoguerra, fu effettivamente un distinto signore. Ma non fu solo questo.
Pertini, animo impavido, politico e combattente tenace, amava descrivere Saragat come un uomo determinato e coraggioso.
Il socialista Romita, parlando con Giuliano Vassalli, in piena occupazione nazifascsita definì Saragat “il più grosso cervello del Partito”.
Chi fu realmente questo brillante piemontese che seppe sia rischiare la vita per la libertà sia ricoprire il più alto incarico della Repubblica? Proviamo a ripercorrere le tappe salienti della vita di Giuseppe Saragat, antifascista e resistente prima, politico e Presidente delle Repubblica poi.
Giuseppe Saragat nacque a Torino il 19 settembre 1898 da Giovanni e da Ernestina Stratta.
Il padre, nato nel 1855, era un avvocato sardo di famiglia catalana (il cognome del nonno era Saragattu-Mulinas). Trasferitosi a Torino nel 1882, vi esercitò la professione forense, ma fu anche cronista giudiziario per la Gazzetta Piemontese e brillante poligrafo. La madre (1872-1965) era la figlia di un noto pasticciere. Giuseppe era il secondo di tre fratelli: dopo Eugenio, detto Ennio (1897-1929), e prima di Pietro (1899-1938). A tutti il padre aveva trasmesso idee liberali e passione per la montagna (Ennio morì in un incidente alpinistico).
Saragat frequentò la scuola elementare Pacchiotti e si iscrisse poi all’istituto Someiller, dove si diplomò in ragioneria nel giugno del 1915. Nel giugno del 1916 fu richiamato alle armi e partecipò alla prima guerra mondiale come tenente di artiglieria, combattendo sul Carso e guadagnando una croce di guerra. Dopo il congedo, il 17 luglio 1920 si laureò in scienze economiche e commerciali con una tesi sul porto di Rotterdam. Il 2 novembre entrò come contabile alla Banca Commerciale Italiana.
In gioventù Piero Gobetti esercitò su di lui un importante magistero intellettuale e politico, facendogli cogliere le debolezze del giolittismo e la necessità di una rivoluzione democratica. Nell’ottobre del 1922 entrò nel Partito socialista unitario (PSU). Di lì a poco iniziò la collaborazione alla Giustizia di Claudio Treves. Fu arrestato una prima volta nel febbraio del 1923 e poi di nuovo nel giugno del 1924.
Al primo congresso del PSU (Roma, 28-30 marzo 1925) si fece notare da Filippo Turati per un vibrante discorso contro l’anarchia e la statolatria del fascismo, in cui proclamò l’esigenza di libertà, «base stessa e germe della immancabile rivoluzione futura» (La Giustizia, 31 marzo 1925). Dopo l’attentato di Tito Zaniboni contro Benito Mussolini (4 novembre 1925) il PSU, cui Zaniboni apparteneva, fu messo fuori legge. Saragat entrò, con Treves e Carlo Rosselli, nel triumvirato che lo ricostituì clandestinamente il 29 novembre come Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI).
Il 7 gennaio 1926 sposò Giuseppina Bollani, sarta milanese nata nel 1898, e in aprile chiese il trasferimento a Milano; entrò quindi nell’ufficio studi della Banca commerciale italiana (Comit), sotto l’ala protettrice di Raffaele Mattioli. A Milano collaborò con Il Quarto Stato, la rivista di Pietro Nenni e di Rosselli nata nel marzo 1926, ove introdusse il tema della ‘democrazia marxista’ (Perché siamo democratici, 5 giugno 1926), indicando la necessità di superare liberalismo e comunismo.
In giugno nacque il primogenito Giovanni, che avrebbe poi seguito la carriera diplomatica.
In ottobre anche Il Quarto Stato fu chiuso e molti capi socialisti furono costretti all’esilio: il 19 novembre 1926 Saragat espatriò insieme a Treves, varcando il confine svizzero con l’aiuto di Ferruccio Parri.
Treves attese Turati a Parigi, mentre Saragat, in virtù dei contatti con Friedrich Adler e della buona conoscenza del tedesco, si recò a Vienna dove, grazie alle referenze Comit, trovò lavoro presso l’Arbeiterbank, poi alla Merkur Bank, quindi al Kreditanstalt. Venne così a contatto con i maggiori esponenti dell’austromarxismo (oltre ad Adler, soprattutto Otto Bauer), di cui contribuì a portare le tesi nel dibattito italiano. La moglie lo raggiunse nell’agosto del 1927 e nel maggio del 1928 nacque la figlia Ernestina (Tina).
Saragat collaborò con le riviste dei socialisti in esilio, in particolare con la Libertà, l’organo della Concentrazione antifascista di Parigi, diretto da Treves, ove ebbe modo di approfondire la sua analisi storica inserendo le vicende italiane in un più ampio quadro europeo di crisi della democrazia, che stava portando il continente «a oscillare paurosamente verso i due estremi del comunismo e del fascismo» (Fascismo e democrazia, in la Libertà, 4 settembre 1927). Tra il 15 marzo e il 15 aprile 1929 scrisse tre articoli teorici per Rinascita socialista, il giornale del PSULI (Partito Socialista Unitario dei Lavoratori Italiani, nuovo nome del partito dal dicembre 1927), diretto da Giuseppe Emanuele Modigliani, dove il socialismo democratico era inteso come «la terza via tra liberalismo e comunismo». In agosto pubblicò a Marsiglia, a firma Spartia, il volumetto Marxismo e democrazia, in cui, partendo da un’analisi del pensiero di Karl Marx, poneva come obiettivo dei lavoratori una democrazia socialista.
Si aprì a questo punto un dialogo serrato con Rosselli, che dopo la lettura del volume francese accusò Saragat di «concedere troppo al catechismo socialista» (Masini, 1966, p. 188); inviandogli in dicembre il suo Socialismo liberale, lo dedicò al «più liberale tra i marxisti e l’unico marxista tra i liberali». Ma Saragat recensì il volume in modo molto critico, ascrivendolo al dilagante antimarxismo.
Dopo la svolta autoritaria in Austria, Saragat decise quindi di trasferirsi definitivamente a Parigi, dove arrivò nel gennaio del 1930. Grazie alla mediazione di Léon Blum, trovò impiego presso la Banque des Coopératives de France. In Francia proseguì l’approfondimento sul fascismo, visto ora come «vasta perifrasi», ovvero come una «rivoluzione contro lo Stato» che funzionava in realtà come un colpo di Stato (Il segreto del Leviatano, in la Libertà, 8 dicembre 1929). Il 20 luglio, al XXI Congresso del Partito socialista italiano (PSI) di Parigi, svolse un ruolo fondamentale per la riunificazione socialista, collaborando alla redazione della Carta dell’Unità.
Nel gennaio del 1932 si schierò decisamente contro lo schema di programma di Giustizia e Libertà (GL), definita «un partito neoliberale», e rivendicò al proletariato la guida dell’antifascismo (Per il partito, in Avanti!, 5 marzo 1932). Nel 1934 rifiutò quindi le proposte gielliste per la fusione con i socialisti in un unico partito rivoluzionario. Erano le premesse dello scioglimento della Concentrazione e del suo sostegno, nell’agosto del 1934, al patto d’azione con il Partito comunista d’Italia (PCd’I). Le sue posizioni si avvicinarono a quelle di Angelo Tasca, con il quale dall’agosto del 1934 all’agosto del 1935 diresse la rivista Politica socialista, che tentava un dialogo con i giovani del ‘centro interno’.
In autunno Saragat perse il lavoro in banca e si trasferì a sud, a Tolosa, per spostarsi, dal febbraio del 1935, a Le Luc en Provence, dove diresse il deposito di una cooperativa. Nel luglio 1936 uscì a Marsiglia L’humanisme marxiste, un saggio teorico in cui riprendeva la polemica contro il «riformismo sterile» e il «comunismo inumano» in nome di una «democrazia superiore» che potesse coniugare libertà individuale e interessi collettivi. Il libro trovò buona accoglienza fuori dal partito (lo apprezzarono Bauer, Emilio Lussu, Fernando Schiavetti), mentre i socialisti lo considerarono per lo più troppo moderato.
In questa fase Saragat, che dal dicembre si era trasferito a La Seyne-sur-Mer, diede maggior credito ai comunisti sostenendo le Carte di unità d’azione (luglio 1937 e dicembre 1938), collaborando al giornale dell’Union populaire italienne La voce degli italiani, diretto da Giuseppe Di Vittorio, recensendo criticamente Au retour de l’Urss di Gide (in Nuovo Avanti!, 30 gennaio 1938).
Tra il febbraio e l’ottobre del 1938 morirono il padre e il fratello Piero e poi, nel gennaio del 1939, la sua situazione si aggravò ulteriormente perché perse il lavoro, cosa che lo portò a tornare a Parigi.
Il patto russo-tedesco dell’agosto 1939 segnò una resa dei conti nel partito, con un pesante attacco a Nenni, rimosso dalla direzione del giornale. Saragat entrò nel nuovo comitato di reggenza, ma rifiutò la proposta di Modigliani che chiedeva l’espulsione di Nenni. Durissima fu la sua presa di posizione ideologica contro il comunismo: il 17 dicembre firmò il documento che poneva il rapporto con i comunisti in termini di ‘incompatibilità morale’ e il 6 gennaio 1940 pubblicò sul Nuovo Avanti! un articolo (Socialismo e totalitarismo) in cui ribadiva che la lotta fondamentale per i socialisti era quella «per la democrazia contro le dittature». Nell’estate del 1940, dopo il crollo della Francia, Saragat si trasferì a Saint-Gaudens sui Pirenei.
Nel giugno del 1941 l’attacco nazista all’Unione Sovietica rimise in movimento gli equilibri della sinistra antifascista. In ottobre a Tolosa Saragat partecipò alle trattative con PCd’I e GL, che portarono alla nascita del Comitato d’azione per l’unione del popolo italiano; il 3 marzo 1943 un’ulteriore mediazione con Giorgio Amendola e Lussu fu sottoscritta da lui a Lione in assenza di Nenni.
Il 25 luglio 1943, subito dopo l’annuncio dell’arresto di Mussolini, Saragat cercò di rientrare in Italia, a Bardonecchia, ma fu arrestato e incarcerato a Torino. Venne però liberato per intervento diretto di Bruno Buozzi su Pietro Badoglio e rientrò quindi a Roma a fine agosto. Non fece in tempo a partecipare alla direzione socialista del 22 agosto, che sancì la ricostituzione del partito come Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), ma fu eletto nella nuova direzione e nominato condirettore dell’Avanti! clandestino.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, insieme a Nenni e a Sandro Pertini rinnovò il patto d’azione del PSIUP con il Partito comunista italiano (PCI).
Il 18 ottobre fu arrestato a Roma insieme a Pertini. Sottoposti a interrogatorio in via Tasso, i due vennero rinchiusi nel carcere di Regina Coeli, prima nel VI braccio (politici) e poi, dopo il 15 novembre, nel III (quello dei condannati a morte). Il 24 gennaio 1944 riuscirono però a evadere grazie all’azione di un gruppo di partigiani guidati da Giuliano Vassalli. Saragat si nascose allora in casa di Giovanni Salvatori e quindi fu ospitato in Laterano, dove ritrovò Nenni.
Vi segnalo il documentario di Gianni Bisiach della serie “Testimoni oculari” (1978) dedicato a questo episodio della Resistenza che coinvolse due futuri presidenti della Repubblica: Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, protagonisti nel 1944 di una rocambolesca fuga da Regina Coeli, dove erano prigionieri dei nazifascisti.
https://www.teche.rai.it/2021/04/pertini-saragat-fuga-regina-coeli/
(Sintesi)
https://www.youtube.com/watch?v=_6BE1UlWMPE
Versione integrale (consigliata)
Con la liberazione di Roma, nel giugno del 1944, entrò come ministro senza portafoglio nel primo gabinetto Bonomi. Si schierò per ‘una nuova Italia democratica’, ma mostrò una certa insofferenza per lo strapotere dei grandi partiti di massa, come si evince dalla sua prefazione alla riedizione del gennaio 1945 dei Partiti politici di Marco Minghetti (Roma).
Il 15 marzo 1945 fu nominato, non senza una certa sorpresa, ambasciatore in Francia, dove arrivò il 21 aprile. Grazie alle sue conoscenze e alla sua credibilità, ottenne risultati significativi, come la restituzione della vecchia ambasciata di rue de Varenne.
Di fronte all’esasperazione dei contrasti interni al PSIUP, nel febbraio del 1946 decise di rientrare in Italia. Ebbe così modo di partecipare al XXIV Congresso del PSI, che si svolse in aprile a Firenze, in cui Nenni si scagliò contro la destra definendo il riformismo come «una esperienza morta nella coscienza dei lavoratori e nei fatti». Saragat rispose auspicando una revisione teorica del marxismo «in chiave umanistica» e rifiutando recisamente «ogni irrigidimento operaistico». Accusò poi Nenni di disonestà politica e di scarsa democrazia interna. Il congresso si concluse con una mediazione che portò alla segreteria Ivan Matteo Lombardo, ma la resa dei conti era solo rimandata. In un’intervista al Sempre Avanti! del 23 aprile Saragat rifiutò per le sue posizioni la definizione di «socialismo liberale», rivendicando invece quella di «socialismo libero».
Nel frattempo, il 2 giugno 1946 fu eletto alla Costituente nel collegio di Roma con circa 30.000 preferenze. Il 25 giugno fu nominato presidente dell’assemblea con 401 voti favorevoli e solo 26 contrari.
Nel discorso di insediamento Saragat dedicò la nomina ai giovani della sua generazione; rievocò Turati e Giacomo Matteotti come strenui difensori del Parlamento; riconobbe il contributo decisivo delle classi lavoratrici alla Liberazione. Il 7 agosto partì per Parigi con Alcide De Gasperi per le trattative di pace. Dopo il coraggioso discorso del 10 agosto del presidente del Consiglio, il 28 toccò a lui parlare davanti alla commissione territoriale per le questioni di confine. La sua azione di mediazione, che proseguì fino a ottobre, risultò fondamentale per lenire le dure condizioni imposte dagli Alleati.
Al ritorno in Italia si trovò nuovamente al centro delle polemiche interne alla Sinistra. A fine ottobre Saragat votò ancora a favore del rinnovo del patto di unità d’azione con il PCI, ma dopo le elezioni amministrative del 10 novembre, che diedero al PSIUP un risultato deludente, uscì allo scoperto con una clamorosa intervista, in cui sostenne che «gli elettori socialisti non sanno che farsene di un fumoso massimal-fusionismo che ha liquidato il partito nel 1919-1922 e che rischia di liquidarlo oggi se non si corre ai ripari» (Giornale d’Italia, 20 novembre 1946). La direzione rispose chiedendo un congresso anticipato, fissato per il 7 gennaio.
Emergevano anche all’interno dell’opposizione forti divergenze fra il gruppo storico di Critica sociale e quello dei ‘giovani turchi’ di Iniziativa socialista. Decisivo fu quindi il ruolo di mediatore di Saragat. L’11 gennaio 1947 tenne il suo ultimo discorso come dirigente del PSIUP, manifestando grande amarezza per una scissione che riteneva però ormai inevitabile; il giorno dopo parlò per la prima volta come esponente del PSLI, ribadendo che la strada per il nuovo partito si presentava ardua, ma che la scelta era stata fatta secondo coscienza (La strada e la meta, in L’Umanità, 18 gennaio 1947).
Sulla cosiddetta scissione di palazzo Barberini si sono sviluppate polemiche politiche e storiografiche. La documentazione emersa negli ultimi anni conferma i congrui finanziamenti forniti dai sindacalisti americani, mediati da Luigi Antonini, ma esclude l’input del governo statunitense, così come l’intervento diretto di De Gasperi. Anche le motivazioni personali legate allo scontro con Nenni e alla disputa ideologica con Lelio Basso ebbero probabilmente un ruolo secondario. Il punto centrale era invece l’opposizione politica alla scelta filocomunista, ritenuta ormai inaccettabile. Saragat si richiamò ripetutamente al senso di responsabilità individuale e alla democrazia anche dentro il partito.
La scissione ebbe effetti molto pesanti sia sul mondo socialista sia sugli equilibri del sistema politico italiano, spingendo ancora di più il nuovo PSI verso i comunisti, senza le condizioni necessarie per far diventare il PSLI la terza forza socialista democratica che Saragat auspicava.
Il nuovo partito raccolse subito quarantaquattro dei centoquindici deputati del PSIUP (alla fine furono 52), ma non riuscì a far breccia nella base, rimanendo in pratica tagliato fuori dalle grandi organizzazioni di massa. Il risultato fu che più che al PSU del 1922 il PSLI finì per somigliare al Partito socialista riformista del 1912.
Il progetto politico del PSLI si scontrò con le condizioni sfavorevoli della guerra fredda e andò incontro a diverse delusioni. L’ipotesi di fusione con il Partito d’Azione (cui Saragat era favorevole) tramontò in marzo; in aprile le elezioni locali in Sicilia diedero un risultato disastroso e ancor peggio andò a Roma in ottobre; anche i partiti socialisti europei non si mostrarono disponibili a considerare il PSLI un interlocutore credibile, rifiutando il suo coinvolgimento nel Committee of the international socialist conference (COMISCO).
A giugno Saragat si recò negli Stati Uniti per raccogliere nuovi finanziamenti. Poi si impegnò in una faticosa mediazione tra i ‘terzaforzisti’ di Critica sociale e gli occidentalisti di Iniziativa socialista. Riuscì inoltre a portare nel partito i vari gruppuscoli transfughi dal PSI. Il 15 dicembre entrò nel quarto governo De Gasperi, come vicepresidente. La campagna elettorale fu durissima, con gli esponenti del fronte PCI-PSI che attribuirono ripetutamente a Saragat gli epiteti di ‘rinnegato’ e ‘traditore’ e ai membri del PSLI quello di ‘piselli’. Il 18 aprile 1948 le liste di Unità socialista (l’alleanza tra PSLI e Unione dei socialisti di Lombardo) ottennero comunque oltre 1.800.000 voti, raggiungendo il 7,1% alla Camera (trentatré deputati) e il 4,1% al Senato (dieci senatori). Poi si verificò l’attentato a Togliatti del 14 luglio, secondo i comunisti fomentato dalla stampa socialdemocratica. Sull’Unità di quello stesso giorno Giancarlo Pajetta definì Saragat «social-traditore». Egli fu comunque confermato come vicepresidente nel quinto gabinetto De Gasperi, dove assunse anche la carica di ministro della Marina.
Alla fine del 1949 decise però di dimettersi per tornare a occuparsi del partito, dove le difficoltà si stavano trasformando in aperti contrasti: in occasione del voto sull’adesione dell’Italia al Patto atlantico, fortemente caldeggiata da Saragat, fu messo in minoranza dalla direzione del partito. Dopo un intenso lavoro di cucitura, riuscì comunque a varare, nel gennaio del 1952, il nuovo Partito socialista democratico italiano (PSDI), frutto della fusione di PSLI e PSU, ma già a febbraio ne divenne segretario il suo avversario Giuseppe Romita. In ottobre Saragat riprese il controllo del partito spingendo per il sostegno al progetto di riforma elettorale maggioritaria proposto da De Gasperi. Questa scelta provocò un ulteriore scontro, con la fuoriuscita di Piero Calamandrei e di altri autorevoli intellettuali, che fondarono Unità popolare. Alle elezioni del giugno 1953 Saragat patì una doppia sconfitta: il PSDI raccolse solo il 4,5% e la maggioranza non raggiunse la soglia del premio prevista dalla nuova legge elettorale. Commentando a caldo i risultati, ascrisse incautamente l’insuccesso al «destino cinico e baro».
Saragat tornò quindi al governo, entrando il 10 febbraio 1954 nell’esecutivo guidato da Mario Scelba, che cercò di presentare come un ‘gabinetto di centrosinistra’ per il largo spazio concesso al PSDI, ma l’opposizione lo definì sarcasticamente ‘SS’. In effetti, il governo si caratterizzò per le scelte rigide in politica interna e Saragat acuì il suo anticomunismo: il 4 dicembre nel Consiglio dei ministri sostenne che il PCI «si compone di moltissimi terroristi»; l’11 febbraio successivo lo denunciò come «partito totalitario» (G. Fanello Marcucci, Scelba, Milano 2006, p. 198).
Nel 1955 Saragat fu confermato vicepresidente nel governo presieduto da Antonio Segni. Ma all’orizzonte si affacciava un’importante novità: dopo le rivelazioni di Nikita Chruščëv al XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), il PSI di Nenni abbandonò l’alleanza con il PCI. In luglio il segretario aggiunto della Section française de l’internationale ouvrière (SFIO) Pierre Commin incontrò sia Nenni sia Saragat. In agosto i due si parlarono direttamente a Pralognan in Savoia, innescando l’ipotesi della riunificazione.
Si aprì così l’orizzonte di una strategia comune, ma Saragat fu molto attento a non accelerare i tempi della convergenza per poterla affrontare in condizioni vantaggiose. Continuò quindi a manifestare dubbi sull’affidabilità dei socialisti in politica estera e in campo sindacale; denunciò il rinnovo dell’accordo con i comunisti del 5 ottobre (che però da patto d’azione si era trasformato in patto di consultazione); e dopo i fatti d’Ungheria rivendicò il suo anticomunismo «non come opposizione ai lavoratori, ma alla dittatura» (La Giustizia, 22 ottobre 1956). L’anno successivo il XXXII Congresso del PSI a Venezia diede la maggioranza alla sinistra del Partito, raffreddando la linea unitaria.
Saragat tornò al vertice del PSDI nel 1957 e raccolse un discreto risultato alle elezioni del 1958, con la conquista del 4,6%. Un grave colpo gli venne però inferto il 14 gennaio 1961 dalla scomparsa della moglie, che gli causò tre mesi di vero e proprio smarrimento. Ne uscì grazie alla figlia Tina, che si trasferì presso di lui (lo avrebbe seguito anche al Quirinale). A seguito della congiuntura internazionale, del resto, il quadro politico volse a favore di Saragat, ponendo le condizioni di quel centro-sinistra che egli auspicava fin dal 1953. Dovette affrontare ancora diverse difficoltà (come alle elezioni presidenziali del 6 maggio 1962, quando Antonio Segni lo superò per il voltafaccia dei democristiani o in occasione del ‘caso Ippolito’ nell’agosto del 1963); ma la sua linea, sinteticamente rappresentata dallo slogan ‘scuole case e ospedali’, fece breccia nell’Italia del boom. Nell’aprile del 1963 il PSDI raccolse il 6,1%, crescendo di oltre 50.000 voti e ottenendo undici seggi in più alla Camera.
Il 5 dicembre 1963 Saragat entrò come ministro degli Esteri nel governo Moro di centro-sinistra organico, restando in carica anche nel gabinetto successivo, sempre guidato da Aldo Moro. In questa veste si distinse per le salde posizioni mantenute in occasione della crisi di Cipro, delle tensioni indipendentistiche in Alto Adige e, soprattutto, per il suo impegno europeista, concretizzatosi nel ‘Piano per un’Europa democratica e federata, politicamente e economicamente unita’ dell’autunno 1964, con cui si proponeva di rimettere in moto il processo europeista bloccato da Charles de Gaulle e dalle titubanze inglesi.
Il 7 agosto 1964, durante un acceso colloquio con Moro e Saragat, Segni fu colpito da ictus. Dopo varie esitazioni, il presidente si fece da parte e si aprì così la prospettiva per l’ascesa di Saragat al Quirinale, che si rivelò però tutt’altro che scontata. Candidato comune dei due partiti socialisti, si dovette confrontare con Giovanni Leone e Umberto Terracini, rispettivamente proposti dalla Democrazia cristiana (DC) e dal PCI; durante le votazioni entrarono in gioco anche Amintore Fanfani e Nenni. Il primo si ritirò al tredicesimo scrutinio, Leone al quindicesimo. A questo punto, dopo tre votazioni in cui si scontrarono direttamente i due capi socialisti, Nenni cedette all’eterno ‘amico-rivale’.
Saragat fu eletto presidente della Repubblica il 28 dicembre 1964, al ventunesimo scrutinio, con 646 voti su 963 (67,1%).
Nel corso della complessa procedura elettorale Saragat aveva chiamato a sé ‘i voti di tutti i democratici e antifascisti’; e nel discorso di insediamento collegò la nascita della Repubblica alla Resistenza, descritta come ‘secondo Risorgimento’.
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Gli obiettivi strategici del mandato venivano individuati nella difesa della pace e della sicurezza (attraverso un disarmo controllato e lo sviluppo di un’Europa integrata); nel consolidamento delle libere istituzioni, in particolare il Parlamento; nella costruzione di un nuovo sistema sociale, in grado di contemperare le esigenze degli imprenditori e dei lavoratori. Sottolineò inoltre il ruolo strategico della cultura per la crescita della nazione.
Questi temi caratterizzarono effettivamente la presidenza Saragat. L’antifascismo, riemerso sulla scena pubblica dopo i fatti di Reggio Emilia del luglio 1960 durante il governo alla cui guida era Fernando Tambroni, trovò in lui uno strenuo assertore, diventando il criterio discriminante del cosiddetto arco costituzionale. In particolare, in occasione del ventennale della Liberazione, con il suo discorso del 9 maggio 1965 a Milano, trasmesso dalla Rai, contribuì a inserire a pieno titolo la Resistenza nel pantheon nazionale. In quell’occasione concesse anche la grazia a cinquantuno partigiani condannati per reati di sangue. Il 16 ottobre 1965 fu poi il primo presidente italiano a compiere un viaggio ufficiale ad Auschwitz.
Il tema della pace animò la politica estera di Saragat, che si trovò ad affrontare nodi non facili, come la guerra in Vietnam o quella dei Sei giorni. Nel 1967 si recò a Washington per incontrare Lyndon Johnson, rassicurandolo rispetto alle simpatie filoarabe del ministro degli Esteri Fanfani, ma anche facendogli notare la scarsa popolarità in Europa dei bombardamenti statunitensi in Indocina. In quest’ambito si distinse soprattutto per il saldo europeismo, come emerse dal dialogo con de Gaulle del 16 luglio 1965, in occasione dell’inaugurazione del traforo del Monte Bianco, e per il pieno sostegno allo Stato di Israele.
Quanto al rafforzamento delle istituzioni democratiche, Saragat mostrò un atteggiamento risoluto nei confronti delle trame eversive: nel novembre del 1965 perorò lo scioglimento del Servizio informazioni forze armate (SIFAR) e nel 1967 insistette per la destituzione del generale Giovanni De Lorenzo, che da capo del servizio aveva raccolto informazioni su di lui nell’ambito di un’operazione di schedatura assai ampia ed era rimasto coinvolto nelle polemiche emerse quell’anno sul ‘Piano solo’ contro il primo governo di centro-sinistra di Moro.
Saragat apparve quindi un presidente cauto (non rinviò nessuna legge in Parlamento per il riesame, né conferì incarichi non indicati dalla maggioranza), ma comunque attivo. Importante fu in questo senso la sua disponibilità a viaggiare, anche per prestare sostegno alle comunità in emergenza: nel 1966 visitò il Vajont dopo il crollo della diga (1963) e Firenze dopo l’alluvione di quell’anno. Pur risultando a volte altero negli atteggiamenti, si rese protagonista di gesti molto popolari: la cessione al Comune di Roma di tre chilometri della tenuta di Castelporziano per farne una spiaggia libera; l’ospitalità offerta al Quirinale a cinquanta famiglie del Belice vittime del terremoto del 1968; l’apertura al pubblico del tradizionale ricevimento del 2 giugno.
Non si astenne, tuttavia, dal gioco politico nazionale; anzi, si distinse per l’impegno a consolidare la formula del centro-sinistra attraverso i mandati vincolati. Sostenitore della socialdemocrazia, cercò ispirazione soprattutto nei Paesi scandinavi, che visitò nel 1965 (Danimarca e Norvegia) e l’anno successivo (Svezia). In questo quadro si inserì anche la conclusione del lungo iter verso l’unificazione socialista, che si concretizzò nel 1966: il 30 ottobre si svolse all’EUR la Costituente che portò PSI e PSDI a confluire nel Partito socialista unificato (PSU).
Alle elezioni politiche del 1968 il PSU perse ventinove seggi alla Camera, riaprendo nel partito le ferite latenti. La sinistra socialista premeva per un’azione più coraggiosa e gli ex socialdemocratici reagivano rivendicando l’autonomia. L’estremo tentativo di mediazione compiuto da Nenni e da Saragat nel luglio del 1969 fallì e si consumò così una nuova scissione.
Nel 1970 Saragat tornò protagonista pilotando la nascita del governo a guida di Mariano Rumor e nominando senatore a vita l’amico-rivale Nenni (dopo avere in precedenza designato Vittorio Valletta, Eugenio Montale e Leone). Nel suo ultimo discorso di fine anno, richiamò ancora una volta il Paese alla difesa delle libertà democratiche, di fronte a due nuove minacce: la crisi inflazionistica e il ‘miracolismo della violenza’.
Saragat accarezzò l’ipotesi di un rinnovo del mandato, ma la ricandidatura apparve di bandiera e tramontò dopo il quindicesimo scrutinio, lasciando spazio all’elezione di Leone. Il 28 dicembre 1971 Saragat divenne quindi senatore a vita. Tornò a impegnarsi nella vita di partito, che dal febbraio 1971 era di nuovo PSDI, sostenendo la nomina di Mario Tanassi a segretario. Le elezioni del maggio 1972 diedero un risultato accettabile (5,1%), tenuto conto dei crolli di PSI e PSIUP. Positiva fu considerata anche la vittoria del No al referendum abrogativo sul divorzio (12 maggio 1974), per il quale Saragat si spese personalmente.
Al congresso del giugno 1974 si riaprì la lotta interna, che divampò dopo i cattivi esiti delle regionali del 1975. Di fronte alla forte ascesa dei comunisti, Saragat accentuò i toni critici parlando, nel luglio del 1975, di ‘schiavitù sovietica’ e nel dicembre dello stesso anno di ‘spettro dell’egemonia sovietica di sfondo staliniano’. Acclamato presidente del PSDI, chiese quindi alla segreteria una maggiore iniziativa e tornò lui stesso segretario nel marzo del 1976, in vista della scadenza elettorale. Le votazioni portarono però a un esito deludente (il 3,4 %), anche a causa dell’emergere del coinvolgimento di Tanassi nel caso Lockheed. A ottobre Saragat lasciò quindi l’incarico a Pier Luigi Romita.
Saragat si impegnò in una rimessa a punto teorica, cercando di rilanciare i caratteri e il ruolo del socialismo democratico, non senza rivendicarne la paternità di fronte al craxismo (L’internazionale e i problemi del socialismo, in Ragionamenti, dicembre 1976, pp. 3 s.).
Nei primi anni Ottanta il PSDI trasse nuova linfa dai governi laici di Giovanni Spadolini e Bettino Craxi, ma soffrì una ‘meridionalizzazione’, perdendo il contatto con la tradizionale base dei centri urbani del Nord, e patì una pericolosa ipertrofia (il comitato centrale arrivò a superare i trecento membri).
Di fronte a un partito sempre più autoreferenziale Saragat, anche in virtù del suo ruolo di presidente, confermato nel 1982 e nel 1984, si prodigò nel richiamarne le basi ideali: si veda in proposito la commemorazione di Matteotti del giugno 1985, nella quale rivendicò «la serietà del riformismo contro i conati del dilettantismo pseudo rivoluzionario e la violenza dei fanatici», o anche il suo discorso al congresso dell’ottobre 1985, in cui si diffuse sul grande tema della pace.
Nel gennaio del 1987, ormai provato nel fisico (da tempo sordo, in pochi mesi patì un blocco renale e un collasso circolatorio), non partecipò al congresso, dove Craxi gli rivolse un vero e proprio tributo a quarant’anni dalla scissione di palazzo Barberini. Nel marzo del 1988 il segretario Franco Nicolazzi fu però travolto dallo scandalo delle ‘carceri d’oro’ e il PSDI si avviò verso una crisi irreversibile.
Saragat morì a Roma l’11 giugno 1988, nella sua casa alla Camilluccia. Le sue spoglie furono tumulate al cimitero del Verano.
Presidente che consiglio si sente di dare alle giovani generazioni?
L’unico consiglio si può dare con l’esempio, non con le parole.
FONTI:
Archivio Quirinale – portale storico della Presidenza della Repubblica Italiana- Teche RAI – Enciclopedia Treccani – YouTube canale PSDI –
Disponibile anche su Gli Stati Generali
L’unico consiglio si può dare con l’esempio, non con le parole