Io su questa terra non sono né un estraneo né un passante

Io su questa terra non sono né un estraneo né un passante

C’è una persona molto particolare che avrei voluto intervistare da molto tempo. Si chiama Sivia Moresi. Ve la presento.

Silvia Moresi, arabista e traduttrice, insegna Cultura e Letteratura Araba Contemporanea presso l’Istituto di Alti Studi SSML Carlo Bo, a Bari. Ha tradotto, per la casa editrice Jouvence, l’antologia Le mie poesie più belle (2016) del poeta siriano Nizar Qabbani, e la raccolta poetica Undici pianeti (2018) del poeta palestinese Mahmud Darwish. Dal 2017 è inoltre autrice, per la rivista Q Code Magazine, della rubrica di letteratura Atlante Letterario Arabo. La rubrica è tradotta in francese e ripubblicata sulla rivista Orient XXI.

Quando mi sono avvicinata alla letteratura araba ho capito che attraverso la letteratura si poteva provare a narrare un’altra storia; la storia degli sconfitti.

Alcuni anni fa chiesero ad una bella bambina “cosa vorresti fare da grande?” Lei rispose senza esitazioni “io farò l’arabista”. Fu a causa di una caduta dal seggiolone o di un volo dall’altalena?

Nessuna caduta, la mia passione per la letteratura araba è nata in un modo un po’ particolare, come quasi tutte le cose che mi riguardano. Mio padre è un geologo e spesso, quando ero piccola, si recava per lavoro in Andalusia in collaborazione con l’Università di Granada. Inizialmente mi sono innamorata dell’Andalusia e della Spagna in generale (mi sono laureata anche in spagnolo); poi piano piano la mia attenzione si è focalizzata sui paesi più a sud ed in particolare sul mondo arabo ed all’università dove ho studiato lingua e letteratura araba. Alla traduzione mi sono invece accostata con diverse motivazioni.

Alcuni ritengono che la traduzione sia un atto politico, ed io mi confronto con il lavoro di traduttrice con questo spirito.

La maggior parte dei paesi arabi ha subito (ed alcuni continuano ha subirlo ancora) il colonialismo del mondo occidentale; penso ad esempio all’Algeria e più recentemente alla Palestina. La prima cosa che le nazioni coloniali tentano di fare è interdire i colonizzati al racconto, proponendo di conseguenza sempre e solo una versione ufficiale della storia.

Quando mi sono avvicinata alla letteratura araba ho capito che attraverso la letteratura si poteva provare a narrare un’altra storia; la storia degli sconfitti. Traduco anche con questo intento.

La casa editrice Jouvence di Milano ti ha affidato la traduzione di un’opera importante come “Le mie poesie più belle” di Nizar Qabbani. Per fortuna esistono anche sul suolo patrio case editrici lungimiranti e coraggiose. Con quali strumenti hai affrontato questa traduzione e che traduzione hai scelto di proporre; letterale o rivista e mediata?

Abbiamo scelto Nizar Qabbani perché è uno dei più importanti poeti arabi contemporanei, scomparso nel 1998. Con i suoi reading poetici riempiva interi stadi di attenti ascoltatori.

Oltre ad essere uno straordinario poeta (pubblicato pochissimo nel nostro paese) i suoi versi scardinano tutti gli stereotipi di cui ci nutriamo ancora oggi quando parliamo del mondo arabo. Lui era il cantore dell’erotismo, del sesso, il pioniere della liberazione femminile.

Anche riguardo la lingua Qabbani fu un innovatore; la sua era una lingua trasversale, che aveva la capacità di attraversare tutti i ceti sociali, risultando comprensibile sia dagli intellettuali sia dal ceto più popolare.

Il linguaggio di Nizar Qabbani unisce un arabo alto ad un lessico del quotidiano, affascinando sempre tutti coloro che lo leggono o lo ascoltano.

Osservando tutta la produzione poetica di Qabbani ho identificato “Le mie poesie più belle” come la raccolta più importante da tradurre e da portare in Italia. Si tratta di un’antologia di poesie, composta dall’autore stesso che, nell’introduzione, racconta la sofferenza che ha patito nel dover scegliere i trenta componimenti tra le sue numerose opere.

Riguardo alla traduzione vera e propria, la particolarità della lingua di Qabbani consente di attenersi ad una traduzione quasi letterale, non essendo presenti nei testi grandi metafore e punti oscuri. La cosa più impegnativa è stata riproporre in italiano quelli che a volte sono dei veri e propri racconti, mai scritti in linguaggio “poetichese”, cercando di mantenere anche un certo lirismo. Sono stata molto aiutata dal mio amore per la poesia in generale (non necessariamente araba) e dalla costanza nel ricercare una serie di sinonimi che mi hanno consentito di rendere non banale la traduzione delle poesie, in prevalenza poesie d’amore.

Lasciamo da parte per un attimo la letteratura araba e parliamo un pochino di questa bella docente made in Bari. Preferisci la cucina araba o quella continentale? Kebab o salamelle?

Io sono pugliese e penso che il cibo pugliese sia insuperabile. La cucina araba non mi dispiace, certo non il kebab. Adoro il baba ghannouj, l’hummus, la maqluba, e sono anche brava a prepararli.

Kebab e salamella proprio no; cibo pugliese sì, mozzarella, friselle…

Undici Pianeti è stato scritto nel 1992 ed è forse uno dei testi più complessi di Mahmud Darwish.

Undici Pianeti di Mahmud Darwish. L’ho letto con molto godimento e l’ho trovato un libro universale. Che genere di uomo è stato Mahmud e che emozioni si provano nel leggerlo, tradurlo e rendersi conto che sono il tuo lavoro e la tua sensibilità ad averlo reso fruibile ai lettori di lingua italiana?

Poter tradurre Mahmud Darwish è stato un onore per me. Lui, insieme ad un altro intellettuale di origine palestinese, Edward Said, costituisce infatti una parte importante della mia formazione culturale; il loro pensiero è stato rilevante per la mia crescita intellettuale.

In Italia, in passato, Darwish era stato pubblicato dalla casa editrice Epoché che purtroppo è fallita; di conseguenza molte delle sue opere sono andate al macero e nel nostro paese è stato per lungo tempo difficile rintracciare i suoi lavori in italiano.

Undici Pianeti è stato scritto nel 1992 ed è forse uno dei testi più complessi di Mahmud Darwish; il 1992 è una data chiave per la storia araba e mondiale in quanto corrisponde al cinquecentenario della scoperta dell’America e dell’espulsione di ebrei ed arabi dall’Andalusia. In Undici Pianeti l’autore chiarisce i punti fondamentali della sua poetica, a partire dal ruolo della poesia che è, a suo dire, sempre alleata dei subalterni, degli ultimi, dei deboli, dei colonizzati.

In quest’opera infatti utilizza la poesia per riscrivere la storia dei palestinesi e di tutte vittime della brutalità coloniale.

Darwish, in questo lavoro, affronta il tema dell’identità, una identità che deve essere sempre includente e mai escludente, ed il tema dell’esilio, che il poeta stesso dovette affrontare assieme alla sua famiglia; i versi di Darwish non parlano solo di un esilio reale, ma anche di quello che il poeta definisce un “esilio del sé’”, quella sensazione che ti fa sentire “sempre nel posto sbagliato”, come affermava anche Said; una volta rifiutati, nella vita come nell’amore, ci si sentirà per sempre degli stranieri.

E tema fondamentale di quest’opera di Darwish è, a mio parere, proprio quello dello straniero. Visto il particolare momento storico italiano, segnato da rigurgiti razzisti e xenofobi, mi è sembrato importante tradurre proprio quest’opera di Mahmud Darwish in cui il poeta decostruisce ed allarga il concetto dello straniero, fino a farlo diventare condizione di ogni essere umano: un po’ tutti siamo stranieri su questa Terra.

L’opera è divisa in più parti. In una parte il poeta mescola insieme l’esilio degli ebrei e degli arabi dall’Andalusia con l’esilio dei palestinesi, dando diversi valori simbolici all’Andalusia. Una terra utopica dove vivevano insieme le comunità arabe ed ebraiche (e qui è molto evidente anche il richiamo alla condizione della Palestina ante 1948), l’Andalusia simbolo del periodo d’oro della storia araba (che collassa nel 1492) ed infine il luogo dove si può fare guerra alla guerra armandosi del fiore del gelsomino, il luogo della poesia e dell’uomo.

La seconda parte dell’opera è quella dedicata al genocidio dei nativi americani, simbolo della violenza coloniale su tutto il Creato. Pur essendo stato scritto nel 1992 questo testo è talmente attuale che Roger Waters (bassista dei Pink Floyd) ne ha utilizzata una parte ed ha registrato un nuovo brano, intitolato “Supremacy”, insieme al gruppo palestinese Trio Joubran, dedicandolo provocatoriamente al presidente USA Donald Trump.

Negli altri due componimenti “Una pietra cananea nel Mar Morto” e “Sceglieremo Sofocle”, Darwish scava nella storia palestinese per tentare di portare alla memoria miti e tradizioni, sfidando il sionismo sul suo terreno (quello della narrativa mitica) per provare a riappropriarsi di un passato che Israele ed il sionismo vorrebbero fosse solo di loro proprietà esclusiva.

“Io su questa terra non sono né un estraneo né un passante” (M.D).

La penultima poesia è una struggente poesia d’amore che si intitola “L’inverno di Rita”; la figura di Rita è presente in quasi tutta la produzione poetica di Darwish, si tratta di una figura reale (il nome Rita è uno pseudonimo), una ragazza ebrea israeliana di cui l’autore era stato innamorato per un lungo periodo. Negli scritti degli anni 60-70 viene raffigurata come una presenza reale, poi a mano a mano si trasforma in una figura simbolica. Lo scrittore libanese Elias Khury dirà che Rita è “la cornice dentro la quale l’io del poeta si scinde”, ovvero l’immagine poetica dell’altro umanizzato.

L’ultimo componimento si intitola “Un cavallo per lo straniero”, una elegia funebre per un anonimo poeta iracheno, che diventa un canto per l’intero Iraq straziato dalla guerra del Golfo del 1991.

Abbiamo parlato poco con le persone, abbiamo trattato quasi sempre la letteratura araba come qualcosa di esotico e non come una letteratura “normale”.

Se decidessi di attraversare piazza del Duomo a Milano leggendo a voce alta una poesia di Kipling in inglese tutti penserebbero ad un flashmob e probabilmente mi applaudirebbero. Se facessi la stessa cosa leggendo una lirica in arabo, sono certo che mi guarderebbero male, qualcuno chiamerebbe la Digos e molti mi prenderebbero a male parole. Sbaglio?

No, non ti sbagli, soprattutto in questo periodo dove in Italia vi è un netto appiattimento del pensiero su posizioni islamofobe.

Probabilmente contribuisce in modo determinante la mancanza di conoscenza del mondo islamico ed arabo e su questo è doveroso fare un mea culpa da parte di noi arabisti che per un lungo periodo abbiamo trascurato la divulgazione. Tutta la letteratura – strumento essenziale per fare conoscere una cultura nella sua complessità – ce la siamo un po’ cantata e suonata nei nostri circoli e nelle nostre accademie.

Abbiamo parlato poco con le persone, abbiamo trattato quasi sempre la letteratura araba come qualcosa di esotico e non come una letteratura “normale”. In Italia il filone letterario arabo è stato per lungo tempo fortemente influenzato dal pensiero orientalista. E’ stato molto facile quindi costruire la figura dello straniero basandosi sull’immagine dell’arabo e del musulmano, pescando a piene mani dagli stereotipi e non da fonti certe e qualificate.

Non dimentichiamoci poi che il cosiddetto mondo arabo è composto da ventidue paesi ed è quindi molto complesso analizzarlo. Lo è per noi arabisti, figuriamoci per chi non è mai stato in un paese arabo e non ha mai aperto un libro di storia islamica o di letteratura araba.

Il rapporto di Silvia ed il mare. Giusto per chiarezza, ogni volta che ti vedo postare un’immagine del bei mari del sud Italia che frequenti, da Milano parte un subliminale “ma va a ciapà i ratt!”

Non roderti il fegato, ma anche adesso che ci parliamo al telefono io ho una finestra aperta sul mare! Penso che non potrei vivere senza la vista sul mare, il mio rapporto con il mare è viscerale. Lo sguardo sul mare mi apre un orizzonte, farei fatica a vivere stabilmente in un posto dove l’orizzonte è interrotto, magari da una montagna. Ho bisogno che il mio sguardo si perda sempre nel mare. Il mare è spazio aperto, è pericolo, è avventura, è voglia di provare a navigare. Quando vedo le barche in porto, legate al molo, provo una grande tristezza. Le barche sono state create per navigare, ormeggiate non fanno ciò per cui sono tate create.

Mollare gli ormeggi (anche da un punto di vista filosofico) significa andare alla scoperta di qualcosa o di qualcuno, senza la certezza di raggiungerlo e nel medesimo tempo di tornare. L’immagine del porto sicuro non mi appartiene.

Punti di contatto e dissonanze invalicabili tra la letteratura araba e quella occidentale. Nella metrica, nella grammatica, nel pensiero.

Domanda difficile. Provo a rispondere magari prendendo come pietra di paragone l’italiano e la letteratura italiana.

La letteratura nasce in particolari e determinati luoghi, prima di diventare universale, ed influenzata da avvenimenti storici e sociali che lasciano un’impronta indelebile su di essa. Come dicevo prima, i Paesi arabi sono ventidue e quindi non è possibile analizzare coerentemente una macro categoria come è quella della letteratura araba. Però, ad esempio, la naksa, la sconfitta dei paesi arabi nel conflitto con Israele del 1967, è un episodio storico che ha generato un sentimento di tristezza che ancora pervade tutto il mondo arabo e che è ancora presente in tutta questa letteratura; un senso di frustrazione e impotenza che ha fortemente segnato molti scrittori e intellettuali arabi. La politica e i problemi sociali sono molto presenti nella letteratura araba, dal conflitto libanese alla questione palestinese, dalla corruzione dei vari regimi alle rivolte arabe del 2011. Nella letteratura italianacontemporanea, a mio parere, i temi politici e sociali sono meno trattati.

Altra sostanziale differenza è che nel mondo arabo la poesia è sempre stata l’espressione maggiormente utilizzata, mentre da noi è considerata genere di élite, non accessibile a tutti. Arabo ed italiano sono lingue molto diverse e questo ovviamente influisce sulla traduzione: in poesia, purtroppo, la rima e il ritmo del verso arabo si perdono nei vari passaggi traduttivi.

Una delle difficoltà maggiori per chi traduce è che in arabo una sola parola può esprime più concetti, (anche Darwish spesso gioca con questa peculiarità della sua lingua) mentre in italiano non c’è spesso questa possibilità. Sta al traduttore trovare il modo di rendere il concetto senza inficiare il sottile messaggio del poeta, senza creare fraintendimenti nella poesia.

Ti faccio un esempio: Darwish usa la parola araba tih che significa sia arroganza sia erranza, e la usa di proposito per esprimere entrambi i concetti nello stesso momento. In italiano non esiste un’unica parola che abbia entrambi i significati e pertanto il traduttore italiano deve fare una scelta tra i due termini. Io ho scelto erranza giocando sulla duplice valenza italiana di questa parola, cioè “sbagliare” o “vagare”, ma ovviamente si è perso comunque il concetto della parola “arroganza” che il poeta voleva esprimere.

Leggendo poeti come Qabbani e Darwish può finalmente nascere un’immagine più veritiera del mondo arabo.

In un’Europa che inizia nuovamente a riprendere atteggiamenti nazionalisti e discriminatori (la storia evidentemente non insegna nulla a chi non vuole imparare) temi che possa calare una mannaia sulla libera letteratura proveniente da zone considerata “ostili”?

Gli editori dovrebbero essere un po’ più coraggiosi ed investire maggiormente

nella traduzione della letteratura araba, non solo romanzi e poesie ma anche saggi, politici e non. Con molta attenzione nella scelta dei testi da proporre, evitando magari di ripetere l’errore fatto dopo l’11 settembre quando si è visto un fiorire di una brutta letteratura, caratterizzata da titoli acchiappa-lettori che puntano solo a fare cassetta, con titoli tipo “Murata viva”, “Dietro il velo” e con in copertina sempre donne velate. Certo certe pubblicazioni vendono, perché dicono quello che ci vogliamo sentire dire e riportano l’immagine stereotipata che abbiamo del mondo arabo.

Poi ci troviamo davanti al fatto che autori come Nizar Qabbani (un uomo che riempiva gli stadi ed è stato tradotto in tutte le lingue occidentali) in Italia sono stati tradotti pochissimo. Solo una sua opera aveva trovato visibilità nel nostro mercato interno, una su tutta la sua produzione, andando poi fuori catalogo quasi subito.

Leggendo poeti come Qabbani e Darwish può finalmente nascere un’immagine più veritiera del mondo arabo, lontana da quella preconfezionata che ci viene proposta. Il gap lo possono colmare solo gli editori che devono mettere nella propria programmazione un pizzico di coraggio e devono investire nella traduzione.

E poi il libro si deve seguire e non lo si deve lasciar morire in un catalogo inerte. Io ho sempre tradotto per il piacere di farlo e non perché avessi bisogno di pubblicare ai fini della visibilità accademica (qui potremmo aprire un mondo, ma non lo facciamo…) e una volta finito il lavoro ho anche sempre preso il mio libro portandolo tra la gente, per farlo conoscere, per farlo vivere.

In giro per l’Italia ho fatto decine di presentazioni, in librerie, presso associazioni che si interessano di letteratura, presso sedi istituzionali e devo dire che i risultati positivi non sono mai mancati.

La letteratura spesso racconta molto di più di un articolo di giornale. Se avessimo letto con una certa attenzione la letteratura siriana prima delle primavere arabe, ci saremmo resi conto che quella rivoluzione non è nata dal nulla o a causa delle pressioni dei paesi occidentali, ma è una cosa alla quale i siriani pensavano da tempo ed è davvero strano che non sia scoppiata prima. Quella letteratura che noi abbiamo tradotto solo DOPO le rivoluzioni arabe esisteva anche prima, e raccontava tutta un’altra storia, come la racconta quella palestinese o quella algerina degli anni del colonialismo francese.

Le religioni, che dovrebbero unire i popoli in virtù di principi universali condivisi, invece dividono e scatenano i peggiori integralismi. Potrà mai esistere, a tuo avviso, una regione araba che possa dirsi laica? L’occidente cristiano ci ha messo secoli, ma in qualche modo ci è riuscito.

Il mio è il pensiero di un’atea che è laureata in Filosofia islamica e che da quest’ultima è stata completamente affascinata.

Sono d’accordo sul fatto che una società debba essere laica, ma il significato di laico non è uguale in ogni luogo del mondo. Noi applichiamo sempre il concetto di laicità all’occidentale e pensiamo che in ogni dove debba accadere quanto accade nella nostra società. E sbagliamo. Non è detto che il modello di democrazia che abbiamo creato in occidente sia lo stesso modello che vogliono in altri paesi.

In quasi tutti i paesi arabi la Shariʿah, la legge coranica, non fa parte delle leggi dello stato e la religione viene vissuta in maniera privata. Possiamo definirli paesi laici? E possiamo realmente definire l’Italia un Paese laico? Uno Stato in cui si è tornati a mettere in discussione la libera scelta di una donna di abortire.

Le situazioni sono diverse e complesse. Prendiamo come esempio il Libano. In questo Paese le comunità religiose sono separate le une dalle altre, chiuse in se stesse, e questo ha portato ad una guerra civile di quasi vent’anni. Ancora oggi le diverse cariche istituzionali vengono assegnate secondo l’appartenenza religiosa, per creare una sorta di “equilibrio” tra le varie comunità.

I problemi non nascono quindi dalle religioni e dai loro dogmi, ma dai vantaggi o dagli svantaggi politico-sociali che derivano dall’appartenenza a ciascuna comunità religiosa.

Per quanto ho potuto vedere e studiare l’estremizzazione religiosa nasce spesso da problemi politici, e viene fomentata per creare caos in un determinato territorio. In Egitto, per anni, i Fratelli Musulmani sono stati perseguitati (era così già dai tempi di Nasser) e questo ha avuto come conseguenza la loro radicalizzazione ed estremizzazione. Ma i Fratelli Musulmani sono anche il partito politico che ha vinto le prime elezioni libere dopo la caduta di Mubarak, quindi sono stati votati dagli egiziani.

Anche in Siria, i regimi dei due Assad hanno per anni ed anni messo in carcere gli esponenti dei Fratelli Musulmani non per motivi religiosi, ma perché intorno a quel raggruppamento poteva crearsi una vera e propria opposizione al regime. Possiamo parlare anche dell’Algeria dove il colonialismo francese aveva vietato di indossare il velo ed addirittura di parlare l’arabo, portando alla nascita – per reazione – di gruppi terroristici armati di ispirazione islamista.

Le diverse società arabe andrebbero quindi studiate caso per caso senza per forza doverle metterle a paragone con quelle occidentali.

Giulio Regeni.

Giulio Regeni è morto e noi sappiamo benissimo come è morto. E’ stato torturato ed ucciso dalle forze del regime del generale al-Sisi. L’Italia avrebbe dovuto fare maggiori pressioni per ottenere giustizia ed invece ha deciso che, dopo le varie rivoluzioni arabe e gli avvicendamenti al potere, il governo di al- Sisi fosse per noi il più favorevole e che non convenisse pestargli i piedi. Sappiamo bene che in Egitto abbiamo interessi economici molto forti da tutelare, a partire dall’Eni.

Per un certo periodo è stato ritirato l’ambasciatore italiano dall’Egitto e particolarmente spiacevole è stata la scelta di rimandarlo al Cairo; operazione concretizzata il 15 agosto 2017, forse pensando che nessuno se ne potesse accorgere tra un gelato ed una bibita in spiaggia o sui monti. Il governo Gentiloni ha fatto poco o niente per cercare di scoprire la verità.

Oggi è ancora peggio, alcuni sindaci leghisti hanno fatto togliere dai palazzi gli striscioni in ricordo di Giulio. Il governo giallo-verde ha come slogan “prima gli italiani”, sì, ma solo alcuni italiani! Giulio Regeni è un italiano scomodo ed indagare in profondità significherebbe incrinare ancora di più i rapporti diplomatici con l’Egitto, ed all’Italia questo non conviene politicamente ed economicamente.

Grazie Silvia, buon lavoro e buona vita.

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