Fermiamo le agromafie. Intervista a Gian Carlo Caselli.

Fermiamo le agromafie. Intervista a Gian Carlo Caselli.

Gian Carlo Caselli nasce ad Alessandria il 9 maggio del 1939. Se dovessi andare avanti scrivendo di mio pugno la sua biografia dovrei impegnarmi per ore e ore. Lascio che il dott. Caselli si presenti da solo.

In una succinta auto presentazione – presa in prestito dal sito dei colleghi del Fatto Quotidiano – il dott. Caselli si descrive così.

Gian Carlo Caselli. Ex Magistrato o meglio Magistrato in pensione dal dicembre 2013 – entrato in Magistratura nel dicembre 1967 – sono stato giudice istruttore a Torino e mi sono occupato a lungo di inchieste sul terrorismo (Brigate rosse e Prima Linea), dal 1986 al 1990 sono stato componente del Csm eletto nelle liste di Md. Rientrato a Torino come presidente della Corte d’Assise, nel 1992 dopo la morte di Falcone e Borsellino ho chiesto di essere trasferito a Palermo, dove ho diretto quella Procura per quasi sette anni, contribuendo al conseguimento di importanti risultati contro la mafia. Successivamente sono stato capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) e rappresentante italiano in Eurojust, struttura di coordinamento delle indagini transnazionali. Infine sono stato Procuratore generale di Torino e poi Procuratore della Repubblica, veste nella quale ha coordinato le indagini sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte e sulle violenze riferibili a frange estreme del movimento no Tav. Attualmente dirigo in Coldiretti la segreteria scientifica dell’Osservatorio sulla criminalità nel settore agroalimentare. Sono autore di varie pubblicazioni sui temi della legalità e della giustizia.

Rispetto la misura ed il taglio imposti dal dott. Caselli, ma invito chi legge ad approfondire la sua storia personale e professionale; mi sono occupato a lungo di inchieste sul terrorismo (Brigate Rosse e Prima Linea) ….. contribuendo al conseguimento di importanti risultati contro la mafia.​ Non sarà difficile capire quanto quest’uomo sia stato, e tuttora è, importante per la storia della nostra Repubblica.

Foto : Daniele Badolato / Lapresse

Dott. Caselli, cosa si intende per agromafia e come si articola questo business malavitoso? E’ una delle tante divisioni operative della malavita organizzata oppure è un fenomeno più trasversale e meno organico ai tradizionali poteri criminali italiani?

Nel suo libro “C’è del marcio nel piatto!” (scritto insieme al prof. Stefano Masini) leggo: I boss acquistano terreni agricoli per produrre in proprio. In alcune aree sono padroni dell’acqua. Dominano nel trasporto. Sono forti nella distribuzione, sia grande, sia al dettaglio. Fissano unilateralmente i prezzi. Rilevano direttamente esercizi commerciali. Ci sta dicendo che sono padroni del territorio e che ormai è tardi per contrastarli?

E’ nel dna delle mafie la capacità di continua evoluzione e mutazione, per adattare il sistema criminale alle diverse esigenze – di luogo, di fase e di relazioni– che volta a volta si presentano. L’attività e l’impegno continuo della magistratura e delle forze dell’ordine raccontano quotidianamente di nuovi intrecci e nuove vocazioni delle mafie. Con un progressivo sviluppo delle capacità imprenditoriali e con notevole lungimiranza nell’individuare nuovi campi di attività e nuovi affari cui dedicarsi. Sempre con una speciale predilezione per gli illeciti a bassa intensità espositiva nei quali correre rischi minimi e conseguire forti guadagni.

Quello agroalimentare ( che alle ottime opportunità di investimento affianca una normativa di contrasto obsoleta e inefficace) ha tutte le caratteristiche per attirare l’interesse delle mafie. Che nel frattempo hanno sempre più abbandonato l’abito “militare” per vestire (come usa dire) doppio petto e colletti bianchi, così da gestire al meglio i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, dell’economia e della finanza 3.0 – Con la conseguente necessità di adeguare i nostri modelli di lettura allo scopo di migliorare il contrasto sul piano preventivo e repressivo.

Sul fronte agroalimentare, le mafie operano dal campo, allo scaffale, alla tavola. Condizionano il mercato stabilendo i prezzi dei raccolti, gestiscono i trasporti e lo smistamento, controllano intere catene di supermercati, sono presenti nell’esportazione del nostro vero o falso “Made in Italy”, creano all’estero centrali di produzione dell’ ”italian sounding” e controllano, spesso creandole ex novo, reti di smercio al minuto. Nella ristorazione sono di casa. Con gli stratagemmi più svariati, fanno incetta dei cospicui flussi dei finanziamenti europei.

Ecco quindi profilarsi, anche sul versante agroalimentare, una economia parallela . Una “mafia liquida” che come l’acqua si infila un po’ dappertutto. E grazie ai notevoli vantaggi ( collegati al flusso imponente di capitali sporchi che ogni giorno riempiono le loro tasche, specie per i proventi del traffico di droga) di cui godono rispetto agli imprenditori onesti , attraverso una concorrenza imbattibile i mafiosi destabilizzano il mercato e sempre più inquinano l’economia pulita : mentre sono alla costante ricerca di rapporti con pezzi del mondo (apparentemente) legale che si traducano in coperture o collusioni, capaci di ridurre l’impatto efficace delle misure di contrasto alle loro attività.

Tanto premesso, non stupisce che nell’ultimo rapporto sulle agromafie ( elaborato da Eurispes e Coldiretti nel 2016 e presentato nel 2017) si sia stimato – certamente per difetto – in quasi 22 miliardi di euro il “fatturato” agromafioso, con un incremento annuo del 30%.

Questa la realtà, che va conosciuta senza cedere al pessimismo o al catastrofismo. Non c’è nulla di irredimibile. Ma la realtà può essere fronteggiata solo partendo da una precisa conoscenza delle sue caratteristiche. Purché ci sia anche la determinazione necessaria in tutti. Nei fatti e non solo nei proclami.

Comunque possono pure fare tutti loro imbrogli, ma non mi fregano. Io leggo l’etichetta sul packaging dei prodotti alimentari! E mi fido solo del Made in Italy.

L’informazione è fondamentale. Per questo Stefano Masini ed io abbiamo scritto il libro. Per fornire al consumatore una sorta di manuale di legittima difesa che lo accompagni dal supermercato alla tavola. Posto che la pubblicità ha lo scopo di vendere e non certo quello di informare. Mentre internet non aiuta a fare chiarezza, ma piuttosto crea confusione. E’ di fondamentale e decisiva importanza saper leggere l’etichetta e leggerla effettivamente. Ma non tutte le etichette informano come si dovrebbe. Alcune lo fanno bene , altre ne sono ancora ben lontane. L’obiettivo ultimo è l’adozione per tutti gli alimenti (tutti!) di una “etichetta narrante”, che dica tutta la verità e solo la verità in ordine all’origine, preparazione e contenuto ( ingredienti compresi) del cibo e delle bevande che si consumano. Così sarà più facile riconoscere anche il vero Made in Italy.

Non si può governare il settore con armi spuntate, senza introdurre nuove regole in grado di contrastare adeguatamente fenomeni di contraffazione sempre più sofisticati e complessi.

Lei e Masini avete intitolato un paragrafo all’interno del capitolo 8 “Una normativa groviera”. Scritto da un magistrato fa venire i brividi. Chi mi difende dai traffici delle agromafie?

Il mercato agroalimentare (oltre a quelli ”puliti”) conosce anche operatori corrotti e senza scrupoli. Personaggi che condizionano e limitano pesantemente uno scambio informato e consapevole, mentre le punizioni non sempre sono proporzionate alla gravità delle offese. Anzi , sono i reati più gravi che spesso restano sostanzialmente impuniti, al contrario di episodi bagatellari che sono puntigliosamente perseguiti. Una riffa che premia i peggiori con l’impunità.

Un sistema normativo che invece di frenare ha paradossalmente effetti criminogeni. In ogni caso un sistema obsoleto, come se le frodi alimentari fossero ancora ferme al tempo dell’oste che mescolava l’acqua col vino. E’ invece evidente che non si può governare il settore con armi spuntate, senza introdurre nuove regole in grado di contrastare adeguatamente fenomeni di contraffazione sempre più sofisticati e complessi.

Dunque, parlare di normativa groviera o colabrodo è purtroppo soltanto realistico. E con una normativa cosi’ invece di un’efficace difesa dai traffici illeciti (agromafie comprese) avremo praterie sconfinate per il loro sviluppo.

Esiste una Fondazione “Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare” promossa ed istituita da Coldiretti, ed il suo Comitato Scientifico è da Lei presieduto. Cosa può fare una Fondazione quando di fronte a se trova un movimento criminoso che gira come un orologio svizzero?

L’Osservatorio opera ormai da oltre 4 anni e fa un sacco di cose interessanti e utili. Chi volesse saperne di più nel dettaglio può consultare il sito www.osservatorio agromafie.it 

In generale si propone di diffondere la cultura della legalità nel campo agroalimentare, partendo dal presupposto che se la legalità presidia ogni segmento della filiera, si creano le condizioni necessarie per puntare ad un cibo non soltanto buono e sano ma anche giusto. Capace cioè di tutelare la salute del consumatore e insieme il regolare funzionamento dell’economia, senza vantaggi per chi bara e penalizzazioni per gli onesti. La “filosofia” di fondo è considerare il cibo non solo come merce da far circolare prevalentemente se non esclusivamente secondo criteri di quantità e profitto, ma come bene comune che tenga in massima considerazione i parametri della qualità , distintività e sicurezza.

Se anche il sistema criminale fosse davvero un orologio svizzero ( ma non esageriamo…), le iniziative dell’Osservatorio possono studiarne gli ingranaggi e suggerire come e dove intervenire. E’ quel che cerchiamo di fare. Credo – fin qui –con apprezzabili risultati.

Ho recentemente intervistato il neo ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Gian Marco Centinaio. Ho chiesto al ministro se intendesse promuovere una seria opera di contrasto ai fenomeni mafiosi in agricoltura. La sua risposta testuale è stata: ci vogliamo provare, certo. Io voglio un’agricoltura pulita. A suo avviso quali sono le prime mosse da muovere per contrastare il potere della criminalità organizzata nella filiera agricola?

Masini ed io abbiamo fatto parte di una Commissione di riforma dei reati agroalimentari (istituita dal ministro Orlando nel 2015) che lavorando sodo e bene ha elaborato un progetto di 49 articoli. Nel dicembre 2017 il progetto è stato approvato dal Consiglio dei ministri e avviato alle Camere, peraltro a legislatura ormai conclusa. Durante la campagna elettorale un consistente numero di parlamentari (trasversali ai vari schieramenti politici) ha assunto formalmente l’impegno di sostenere il progetto. E difatti vari parlamentari con la nuova legislatura ne han fatto un disegno di legge.

Ora vedremo se prevarrà chi accetta un modello di sviluppo orientato al benessere della collettività e alla distintività dei prodotti. Oppure chi preferisce le resistenze corporative ad una onesta e trasparente collaborazione per il bene comune. La posta in gioco è alta e se la riforma dovesse essere affossata, a perdere saranno i cittadini. Certo è che contro la riforma è schierata l’Italia dell’affarismo impunito, quella che troppe regole inceppano il libero dispiegarsi dell’economia (rectius: la cupidigia di rapidi e lauti lucri senza troppi scrupoli).

Fare previsioni non è mai facile, ma se ci riferiamo al governo pentastellato diventa un azzardo: perché le contraddizioni interne e le suggestioni esterne, intrecciate con variabili continue, sono talmente tante da rendere il quadro piuttosto confuso. Nuoce in ogni caso la tendenza a considerare spazzatura tutto quel che si è fatto nella precedente legislatura. Come rischia di succedere con la legge sul caporalato, che sta funzionando e andrebbe attuata in ogni sua parte. Invece il ministro Centinaio ha subito proclamato di volerla cambiare….

Grazie dott. Caselli. Buon lavoro e buona vita.

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