Chiedo ad un amico: “ma secondo te chi comanda in Israele?” Risposta pronta e convinta: “quelli con le treccine ed il cappello nero”. Riprovo con un altra persona, conosciuta per caso da poco tempo. “Chi abita in Israele?” – “Gli ebrei è ovvio, chi vuoi che ci viva…”.
Ultimo tentativo. “Ma secondo te qual è il piatto forte dell’economia di Israele?” Questa volta il mio interlocutore è una interlocutrice, una ragazza che lavora in una banca in centro a Milano. La sua risposta: “fanno tutti finanza, prestiti e cose così”.
Di Israele si parla ogni settimana sui giornali, nei Tg, sui social, e spesso l’opinione pubblica prende posizione pro o contro questa nazione mediorientale con determinazione e sicumera. Poi fai due domande e ti accorgi che chi giudica (liberi di farlo ovviamente) ha spesso nel proprio bagaglio conoscenze un po’ imprecise o germogliate sul pregiudizio e sul luogo comune.
Senza generalizzare (sono molte le persone bene informate) e senza la presunzione di potere essere esaustivo – ho pensato di fare un ripassino veloce e di pubblicarlo in questo spazio, ad uso di chi avesse la voglia ed il piacere di approfondire qualche aspetto riguardante lo stato di Israele.
Ho chiesto la collaborazione di una giovane dottoressa italiana che ha studiato a fondo lo stato israeliano, Anna Bagaini.
Chi è Anna ce lo racconta lei stessa.
Cresciuta in una grande famiglia di origini palermitane, sono diventata familiare fin da piccola con la cultura e la realtà mediterranea. Negli anni, questa naturale conoscenza ha fatto emergere i miei interessi per il dialogo interculturale, la storia e la politica internazionale, avvicinandomi così al mio percorso universitario. La laurea specialistica in Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano ha fatto maturare e crescere il mio interesse per il Medio Oriente, tanto da spingermi a intraprendere la mia prima esperienza all’estero a Gerusalemme, con il Servizio Civile Nazionale presso la Custodia di Terra Santa , che ha contribuito a dare forma alla mia professionalità e personalità.
Nei lunghi periodi trascorsi in Israele, infatti, ho avuto la possibilità di entrare in contatto con persone appartenenti a diverse culture e religioni, che mi hanno fatto appassionare alla storia, all’archeologia e soprattutto al fascino di questa realtà piena di sfumature. È iniziato così il mio percorso di dottorato in Istituzioni e Politiche presso l’Università Cattolica di Milano, durante il quale ho potuto approfondire sul luogo aspetti fondamentali per la mia ricerca, insieme allo studio dell’arabo e dell’ebraico. Attualmente continuo il mio percorso di ricerca presso il centro di ricerca REPRESENT (Research Centre for the Study of Parties and Democracy) dell’Università di Nottingham, approfondendo lo studio del sistema politico e partitico israeliano.
Israele è una democrazia parlamentare.
Partiamo dalle basi. Il moderno stato di Israele è…. una repubblica parlamentare? Una repubblica teocratica? Una repubblica costituzionale?
Israele è una democrazia parlamentare. Il parlamento (monocamerale), chiamato Knesset, si compone di 120 membri eletti ogni quattro anni. Durante la storia dello stato, questa frequenza è stata più volte disattesa a causa del bisogno di indire elezioni anticipate per costituire un nuovo governo; in quest’ottica possiamo dire che il sistema politico israeliano è molto affine a quello italiano principalmente perché in entrambi i casi si sono verificati frequentemente episodi di caduta dei governi in carica.
Parlando del sistema israeliano, questa casistica è principalmente dovuta al fatto che tutti i governi alla guida del paese sono stati governi di coalizione, comprendenti numerosi partiti perlopiù di piccole-medie dimensioni. Questa dinamica (a sua volta famigliare a noi italiani) è sempre stata percepita come maggiore fonte di instabilità e, per garantire una migliore governabilità del paese, in passato sono state adottate diverse soluzioni: ad esempio, nel 1992 è stata approvata una legge che introducesse l’elezione diretta del primo ministro.
In questo modo, si pensava di poter dare più forza alla figura del premier, che sarebbe riuscito così a contrastare meglio il peso dei membri della coalizione. Questo sistema di voto ha avuto breve durata perché non èriuscito a realizzare l’obbiettivo per il quale era stato introdotto e, nel 2003, l’elettorato israeliano è tornato a votare per i singoli partiti.
Poco tempo fa è stata aumentata la soglia minima di voti necessari per entrare in parlamento, che è stata portata al 3,5%; tuttora si parla di aumentare ulteriormente questa percentuale per contenere l’alta frammentazione della Knesset.
Parlando di frequenza con cui ricorrono le elezioni, non possiamo non fare riferimento alla catena di eventi che sta avendo luogo in questi mesi; ad aprile scorso Benjamin Netanyahu (primo ministro uscente e attualmente in carica) dopo aver vinto la competizione elettorale con un solo seggio di differenza rispetto al suo rivale Benny Gantz, ha ricevuto dal presidente dello stato Reuven Rivlin il compito di formare il governo. Il colpo di scena è avvenuto a fine maggio quando Netanyahu non è riuscito a formare il nuovo governo; ulteriore sorpresa ha generato la decisione del primo ministro di indire nuove elezioni, invece che rimettere al presidente Rivlin la decisione di affidare l’incarico a un altro parlamentare.
Tale episodio è unico nella storia di Israele, non solo per la prassi adottata da Netanyahu (che ha suscitato molte domande sulla sua effettiva legittimità), sia per la doppia ricorrenza delle elezioni nell’arco di un solo anno.Questo è solo un esempio che dà l’idea di quanto il sistema politico israeliano sia dinamico e, in questo momento storico, in particolare fermento.
Quali sono gli organismi che esercitano le funzioni legislativa, l’azione di governo e l’amministrazione della Giustizia? Sono funzioni indipendenti tra di loro come accade in Italia?
Si, in Israele queste tre funzioni sono separate e fanno capo a diverse istituzioni: abbiamo la Knesset, il governo e la magistratura, la cui maggiore espressione è la Corte Suprema.
Il sistema si basa sul principio della separazione dei poteri, in cui il potere esecutivo (il governo) è soggetto alla fiducia del ramo legislativo (la Knesset), mentre l’indipendenza della magistratura è garantita dalla legge. I giudici sono nominati dal Presidente, su raccomandazione di un comitato speciale per le nomine, composto da giudici della Corte Suprema e personalità pubbliche.
La Corte Suprema, con sede a Gerusalemme, ha giurisdizione nazionale. È la più alta corte d’appello per le sentenze dei tribunali inferiori. Nella sua funzione di alta corte di giustizia, la Corte Suprema ascolta le petizioni contro qualsiasi ente governativo o agente, ed è il tribunale di primo e ultimo grado. Durante la campagna elettorale di aprile 2019, uno dei temi principali è stato appunto l’equilibrio attualmente esistente tra le diverse istituzioni, in particolar modo il ruolo e i poteri della Corte Suprema che ha la facoltà di intervenire sulla legislazione approvata dal parlamento nel caso quest’ultima non venga ritenuta rispettosa dei valori fondanti dello stato.
Infatti, i partiti di destra Union of the Right Wing Parties (URWP), New Right e il Likud hanno scelto di focalizzare la propria campagna elettorale portando avanti il dibattito sul ruolo della Corte Suprema e dichiarandosi favorevoli per una riforma che limiti i poteri di questo organismo e che ponga un limite alla sua indipendenza dal potere politico.
Sicuramente questa iniziativa è coerente con i valori rappresentati dai primi due partiti citati, ovvero un Israele meno laico in cui prevalgano in modo ancora più marcato i principi dell’ebraismo; per intenderci, se nella dichiarazione di indipendenza dello stato Israele viene definito come “ebraico e democratico”, sicuramente l’intento di questi partiti è di porre l’accento su questo primo carattere. In questa prospettiva, la Corte Suprema è l’istituzione che più si occupa di mantenere l’equilibrio tra questi due elementi.
Per quanto riguarda strettamente il Likud e, in generale, il clima generale della recente campagna elettorale, bisogna ammettere che la promozione di questo dibattito da parte del partito di Netanyahu e dei suoi alleati sembrerebbe accadere con un tempismo perfetto, proprio nell’esatto momento in cui l’attuale primo ministro rischierebbe di affrontare (tra meno di un anno) un processo. Se durante la campagna elettorale di aprile infatti si vociferava che il tacito accordo tra Netanyahu e i partiti della destra nazionalista fosse basato su uno scambio tra l’ottenimento dell’immunità per il primo ministro e l’annessione della West Bank, il mese di trattative per la formazione del governo avrebbe avvalorato i termini sui quali si sarebbe costruita la coalizione.
Detto questo, bisognerà aspettare l’esito delle elezioni di settembre per concretamente confermare queste dinamiche ma quello che è risultato dal dibattito su tali questioni è stata la percezione da parte di un largo gruppo di israeliani che le istituzioni e la concezione stessa dello stato fossero state attaccate proprio alle loro fondamenta.
Notiamo quindi come religione, etnia e cultura si fondano
Spesso per identificare un cittadino israeliano si usano termini che si credono, probabilmente a torto, dei sinonimi: ebreo, sionista, giudeo. Il significato di questi termini è il medesimo?
No, questi termini hanno significati diversi, anche se vi sono delle sfumature comuni, o meglio delle sovrapposizioni di senso che possono farli sembrare sinonimi. Cerchiamo di fare ordine.
La parola ebreo deriva dal nome Eber, discendente di Sem, antenato del popolo ebraico: il suo significato è “regione posta al di là” proprio perché questa popolazione proveniva dai territori oltre il fiume Eufrate. Primo appartenente storico al popolo ebraico è Abramo. Possiamo quindi dire che il termine ebreo indica gli appartenenti al popolo semita che si insediò nella regione geografica della Palestina dal II secolo a.c., quindi fondamentalmente ai membri del popolo di Israele dall’epoca patriarcale ai giorni nostri.
Bisogna però sottolineare una sfumatura di senso, infatti con questa parola indichiamo anche una persona aderente all’ ebraismo. Notiamo quindi come religione, etnia e cultura si fondano, ed è proprio questo uno dei temi più dibattuti nell’ebraismo per cercare di definire in quale misura essere ebreo possa essere ricondotto ad un’appartenenza religiosa oppure etnica e quanto questi due elementi coincidano.
Se invece usiamo il termine giudeo o israelita, ci stiamo riferendo ad un membro del popolo ebraico. Le due parole però hanno una sfumatura di significato diverso perché giudeo indica chi anticamente abitava nella regione della Giudea, in particolare dal momento storico in cui, dopo la caduta per mano assira del regno di Israele al nord nel 722 a.c., l’intero popolo ebraico era riconducibile alla tribù di Giuda che appunto risiedeva in quest’area.
Breve accenno al fatto che molte volte usiamo ebraismo e giudaismo come sinonimi, mentre invece con il termine giudaismo si indica l’ebraismo a partire dal 6° sec. a.c., cioè dal tempo dell’esilio babilonese. In questo senso, tutti gli ebrei vissuti dopo quest’epoca, sono (religiosamente parlando) giudei.
Israelita, invece, significando innanzitutto “figlio di Israele” (Giacobbe), si riferisce a tutti i discendenti dei dodici figli del patriarca (da cui hanno avuto origine le dodici tribù appunto di Israele). In secondo luogo, l’altra accezione del termine rimanda agli israeliti nel senso di abitanti del Regno di Israele.Tutt’altro discorso se parliamo di israeliani, ovvero i cittadini del moderno stato di Israele nato nel 1948; in questo caso ci stiamo riferendo al concetto di cittadinanza proprio degli stati-nazione. Essere israeliani però, non vuol dire necessariamente essere ebrei (e viceversa), infatti una parte dei cittadini di Israele professa altre religioni, quali l’Islam e il Cristianesimo.
Ancora diverso è l’utilizzo del termine sionista che si riferisce invece ad una persona che condivide i contenuti ideologici del sionismo. Questo movimento politico nacque in Europa nella seconda metà dell’Ottocento a seguito della diffusione di violente ondate di antisemitismo. Theodore Herzl, il suo fondatore, ispirato dall’ideologia nazionalista in auge, era giunto alla conclusione che l’unica soluzione alle persecuzioni e alle violenze subite dagli ebrei europei risiedesse nella costituzione di uno stato ebraico indipendente. Anche in questo caso, possiamo notare come essere sionista non coincida sempre con l’essere ebreo e/o israeliano.
Aver cercato di far chiarezza tra queste sfumature di significato, ci fa comprendere la complessità di cui bisogna tener conto quando parliamo del contesto israeliano, a dire il vero, in qualsiasi suo aspetto, da quello politico, a quello storico o culturale.
Lo stereotipo ed il luogo comune ci parlano del ”ricco ebreo abile nella finanza e nel commercio”. Come si caratterizza oggi l’economia del Paese? Possiamo parlare solo di ambiti finanziari oppure esiste anche una produzione industriale ed agricola?
Secondo il report 2018 dell’OSCE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), l’economia israeliana risulta da un lato forte, performante e in crescita, dall’altro si caratterizza per la presenza di bassa coesione sociale e di disparità economiche.Nel 2017 la crescita ha rallentato ma è rimasta robusta al 3,3%. Il settore trainante è stato quello dell’high-tech e dei servizi che ad oggi rappresentano il 42% del totale, a 5,44 miliardi di dollari nel 2017.
Possiamo quindi dire che la crescita economica israeliana è largamente dipendente dalle abilità del paese di generare scoperte tecnologiche e scientifiche e di assimilarle in processi di produzione. Infatti, nell’ultimo decennio, la capacità di ricerca e sviluppo (R&S) di Israele si è rapidamente estesa fuori dalla sfera militare, dalle università e dagli istituti di ricerca, dove inizialmente era concentrata, per creare quella che è ampiamente riconosciuta come un’economia ad alta tecnologia.
Israele è secondo solo agli Stati Uniti su base pro capite nella sua capacità di generare start-up basate sulla tecnologia ed investe il 2,2% del suo prodotto interno lordo in R & S (il terzo livello più alto al mondo, dopo il Giappone e la Svezia e alla pari con la Germania). Queste attività si concentrano nella cosiddetta Silicon Wadi (soprannome ispirato dalla nota Silicon Valley americana) nella pianura costiera.
Uno sviluppo abbastanza impressionante se si considera che l’economia israeliana delle origini era fortemente rivolta all’espansione e all’intensificazione dell’agricoltura tramite il lavoro delle comunità agricole, i kibbutz e i moshav. L’importanza di questo settore, anche se diminuita nel tempo è diminuita nel tempo, ha comunque continuato ad evolversi grazie all’applicazione di nuove tecnologie e tecniche per la coltivazione, tanto che nel 2017 l’output derivante dal settore agricolo è stato pari a 30,2 milioni di NIS.
Un altro settore fortemente in crescita è quello turistico che negli ultimi anni ha acquisito un’importanza economica sociale e politica significativa. Nel 2018 gli arrivi turistici sono aumentati del 13% rispetto al 2017 e del 38% rispetto al 2016, mentre le entrate derivanti da questo settore hanno superato i 24 miliardi di NIS (6,3 miliardi di dollari), secondo i dati del ministero. L’aumento è dovuto in parte a una campagna di marketing di 350 milioni di NIS (93 milioni di dollari) che promuove Israele come destinazione di viaggio. Per esempio, l’anno scorso la partenza del Giro d’Italia ha avuto luogo proprio a Gerusalemme.
Con la modifica del 1948, le due lingue ufficiali sono diventate solamente l’ebraico e l’arabo, ma nel luglio 2018, la Knesset ha approvato una nuova Basic Law…
Quali lingue si parlano in Israele?
Nel 1948 Israele promulgò la Law and Administration Ordinance la cui funzione era quella di adottare e incorporare nella legislazione dello stato nascente gran parte delle leggi vigenti in quel momento, ereditate quindi non solo dal Mandato Britannico ma anche dall’impero ottomano (ovviamente con le dovute eccezioni, modifiche ed emendamenti):
Tra queste era compreso l’articolo 22 del Mandato Britannico di Palestina che dichiarava l’ebraico, l’arabo e l’inglese come lingue ufficiali del mandato stesso. Con la modifica del 1948, le due lingue ufficiali sono diventate solamente l’ebraico e l’arabo, ma nel luglio 2018, la Knesset ha approvato una nuova Basic Law (ovvero una di quelle leggi fondamentali cha hanno funzione quasi costituzionale, in luce del fatto che Israele non ha una vera e propria costituzione) chiamata Nation State Law che ha cambiato questo dato di fatto. Quest’ultima, in pratica, definendo Israele come “stato degli ebrei” (infatti il nome per intero della legislazione è “The Nation-State of the Jewish People”) ha suscitato aspre critiche e proteste proprio perché alcuni suoi punti entrerebbero in contrasto non solo con i principi fondamentali sanciti nella dichiarazione di indipendenza, ma minerebbero anche il delicato equilibrio esistente tra le varie comunità in Israele: le maggiori proteste sono state portate avanti infatti dai cittadini drusi israeliani (gruppo etnoreligioso costituito dai seguaci di una religione monoteista di derivazione musulmana sciita) che da sempre partecipano attivamente alla vita dello stato, essendo soggetti alla leva obbligatoria.
Non entreremo in merito al dibattito, ma il motivo per cui stiamo prendendo in considerazione questa legge e le reazioni che ha causato è perché nel paragrafo dedicato alla lingua, il primo punto definisce l’ebraico come lingua di stato e il secondo stabilisce che l’arabo invece diventi una lingua a statuto speciale. Questo passaggio sancisce ufficialmente il declassamento di questa lingua parlata da 1.838.200 di cittadini, che si sono sentiti trattati come cittadini di serie B.
Effettivamente in Israele il riconoscimento dell’utilizzo di una lingua ha un’importanza consistente, perché in un certo modo riconosce il peso sociale e politico della comunità di riferimento. Un esempio interessante è quello degli israeliani di lingua russa, ovvero quelle persone immigrate dai territori dell’ex Unione Sovietica dai primi anni Novanta. Nel giro di pochi anni, questo gruppo è riuscito ad acquisire rilevanza in Israele, non solo per la consistenza numerica (all’incirca un milione di nuovi arrivi tra il 1990 e il 1999), ma anche per la composizione di queste ondate migratorie formate per la maggior parte da intellettuali, medici, musicisti e ingegneri. Infatti, una volta arrivati nel nuovo paese hanno subito creato una rete culturale e politica in lingua russa tramite tv, giornali e addirittura partiti (Yisrael BaAliyah e poi Yisrael Beitenu) pensati per sostenere e rafforzare i valori e la cultura della comunità russofona. Un caso abbastanza unico nella storia dei flussi migratori in Israele. Sta di fatto che ad oggi non è cosa rara trovare cartelli con indicazioni scritte in russo, oppure trovare aree dedicate e personale russofono nei principali uffici e ministeri del paese.
Israele, pur essendo geograficamente posizionato nel cuore del Medio Oriente, è considerato uno “stato occidentale”. Perché?
A mio parere, la motivazione principale è proprio legata alle origini dello stato. Partiamo dal fatto che l’idea stessa di fondare uno stato ebraico è stata concepita e strutturata nell’Europa dell’Ottocento, proprio nel periodo in cui prendevano forma le nazioni europee, ispirate da correnti di pensiero quali il nazionalismo e il romanticismo. Il sionismo, e quindi l’idea moderna della fondazione di Israele, è figlio dell’Europa dell’epoca e risulta essere la declinazione in chiave ebraica degli ideali del tempo.
Aggiungiamo un altro tassello. Nella seconda metà dell’Ottocento, le leadership sioniste che sono emigrate nella provincia ottomana di Palestina (a cui si riferivano con il nome di Terra di Sion) e che hanno iniziato a costituire una versione embrionale dello stato, avevano una forma mentis, un’educazione, una formazione essenzialmente occidentale e hanno quindi importato le istituzioni, le funzioni e i principi statuali e politici di cui avevano fatto esperienza in quanto europei. Successivamente, proprio sotto l’egidia del Mandato Britannico, l’Yshuv (ovvero la comunità ebraica nella Palestina Mandataria) iniziò a sviluppare una struttura centralizzata che potesse espletare le funzioni tipiche di uno stato.
Per tutti questi motivi, quando Israele venne ufficialmente fondato nel 1948, è risultato uno stato di stampo occidentale.
Inoltre, l’accettazione delle norme e dei principi che regolano le relazioni internazionali a cui si fa riferimento nella dichiarazione di indipendenza (“Lo stato di Israele […] sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”) ha fatto sì che Israele venisse accettato e incluso come membro della famiglia delle nazioni. Sarà interessante vedere le trasformazioni future dello stato visto che sia le dinamiche interne, sia il contesto mediorientale in cui è calato sembrano mettere in discussione il carattere occidentale di Israele e i valori su cui si fondano le sue istituzioni.
Ringrazio Anna Bagaini per questo primo interessante approfondimento. Tra qualche giorno pubblicheremo la seconda parte della nostra intervista-ricerca, che speriamo possa risultare di Vostro interesse.
CS