Riprendiamo il nostro viaggio alla scoperta del moderno stato di Israele insieme alla dottoressa Anna Bagaini.
La cittadinanza si ottiene in forza dello ius soli, dello ius sanguinis oppure automaticamente in forza dell’adesione alla religione ebraica?
Premettiamo che questo è uno dei temi più complessi da affrontare perché, anche se esiste una legislazione vigente in merito, non è assolutamente considerato chiuso o risolto, ma anzi continua a generare un dibattito acceso sulla definizione identitaria.
La legge che regolamenta l’acquisizione della cittadinanza si basa su due fonti: la Legge del Ritorno (1950) che permette ad ogni ebreo di immigrare in Israele e sulla Nationality Law (1952) che definisce i modi in cui la cittadinanza israeliana possa essere ottenuta.
Andando nello specifico, si diventa cittadini israeliani tramite appunto ritorno (la legge conferisce ad ogni ebreo nel mondo il diritto di rientrare in Israele facendo aliyah), per nascita da uno o da entrambi i genitori israeliani e, infine, per residenza o naturalizzazione (che comprende anche il matrimonio con un cittadino israeliano). Per rispondere strettamente nel merito della domanda, possiamo dire che l’ottenimento della cittadinanza in Israele è basato quindi primariamente sul principio dello ius sanguinis.
Il dibattito a cui si accennava coinvolge principalmente la Legge del Ritorno perché le critiche più dure affermano che i suoi contenuti attribuiscano espressamente priorità ad un gruppo etno-religioso e che questo non sia compatibile con il mandato di Israele, espresso nella dichiarazione di indipendenza, in quanto stato democratico.
Per più di cinquant’anni, la questione dell’identità ebraica è stata una delle questioni più complesse e volatili che lo stato ha dovuto affrontare
La difficoltà che rende la questione ancora più spinosa riguarda il tentativo di rispondere alla domanda su chi (e come) possa essere definito ebreo e che quindi, non solo chiarisca ulteriormente chi sia intitolato a fare aliyah, ma che determini un elemento fondamentale dell’essere israeliano.
Per più di cinquant’anni, la questione dell’identità ebraica è stata una delle questioni più complesse e volatili che lo stato ha dovuto affrontare, nonché una delle principali fonti di controversia e divisione tra gli ebrei nel mondo. Ad oggi, paradossalmente, la legge si basa sulla definizione data dalle Leggi di Norimberga, che si riferisce ad ogni individuo con almeno un nonno di origine ebrea o sposato con una persona che possieda questo requisitoBisogna considerare che la Legge del ritorno è stata redatta da David Ben-Gurion all’ombra dell’Olocausto ed era stata quindi pensata in modo che a chiunque potesse essere stato considerato ebreo dai nazisti, e mandato quindi ai campi di sterminio, doveva essere offerto rifugio nel nuovo stato di Israele.
Vari fattori contribuiscono alla complessità di questo argomento. Un aspetto di questo dibattito ruota intorno al fatto che l’identità ebraica può essere definita etnicamente, religiosamente e a livello nazionale; inoltre, esistono divisioni tra le varie correnti di ebraismo riguardo alla domanda “chi è ebreo”: gli ebrei ortodossi tracciano la linea di sangue ebraica attraverso la madre (discendenza matrilineare) mentre gli ebrei riformati accettano anche la parentela ebraica dalla parte del padre (discendenza patrilineare) come valida, a condizione che il bambino sia “cresciuto ebreo”. Il Gran Rabbinato di Israele, supremo organo religioso ebraico nello stato, opta per la definizione più restrittiva ortodossa.
Queste diverse concezioni identitarie si riflettono sull’appartenenza politica e quindi osserviamo che i partiti religiosi e ultra-ortodossi richiedono che la Legge del ritorno sia modificata per corrispondere alla definizione halakhaica (della legge religiosa ebraica) di chi possa essere considerato ebreo, i partiti laici vorrebbero vedere la creazione in Israele di uno stato civile indipendente dalle autorità religiose mentre, alcuni parlamentari credono che non si debba stabilire chi sia ebreo, ma piuttosto chi è israeliano, chi ha il diritto di diventare un cittadino.
La religione ebraica è considerata religione di Stato?
Affrontiamo questo tema a partire da dati certi a cui possiamo risalire, ovvero i contenuti espressi nei documenti. Israele non ha una religione ufficiale, anche se l’ebraismo ricopre un ruolo centrale ed essenziale nel definire il carattere, i valori dello stato e delle sue istituzioni e, nonostante il rapporto tra religione e stato sia comunque caratterizzato da un complesso intreccio, il principio generale che ne regola il rapporto è quello del laicismo.
Possiamo affermare questo perché al momento della nascita dello stato David Ben-Gurion, fondatore e primo primo ministro di Israele, aveva bene in mente lo scontro di visioni in atto tra le diverse anime del sionismo e dell’ebraismo rispetto alla definizione identitaria della natura dello stato. Al fine di evitare questo kulturkampf, egli quindi decise di non stilare una costituzione in modo da non allontanare definitivamente una parte di ebraismo: vi erano infatti (e vi sono) correnti di pensiero appartenenti ed ambienti più osservanti e ortodossi che sostengono come unica vera costituzione dello stato la Torah (tecnicamente i primi cinque libri della Bibbia corrispondenti al nostro Pentateuco), ovvero il messaggio della parola di Dio e che il sistema legislativo debba essere ispirato, guidato, o addirittura corrispondere all’halakhah, la legge religiosa ebraica.
Ben-Gurion invece, fedele sostenitore della visione di Theodore Herzl, decise di sostenere una relazione dialettica tra secolarismo e religione, rispettando così la natura del sionismo che aveva interpretato il linguaggio del liberalismo in chiave laica. Perciò, anche se la domanda di separazione tra stato e chiesa non possa essere intesa nel senso pienamente europeo del termine, nella dichiarazione di indipendenza troviamo scritti i principi che garantiscono la libertà religiosa e di coscienza in Israele e che sanciscono la sua natura laica e democratica.
Detto questo, sempre nel testo della dichiarazione, troviamo scritto che Israele non è solo democratico ma anche ebraico; cerchiamo quindi di capire quali risvolti abbia l’utilizzo di questo aggettivo sul carattere delle istituzioni dello stato. È difficile stabilire con esattezza la valenza di questo termine, prima di tutto perché probabilmente questa ambiguità era voluta proprio per non scatenare il conflitto a cui ci stavamo riferendo prima (emblematico il riferimento alla “Roccia di Israele” che molti intendono come riferimento a Dio, altri come richiamo alla storia del popolo di Israele), in secondo luogo perché non si riesce a definire in quale misura “ebraico” si riferisca ad un elemento religioso e quanto ad uno culturale e nazionale.
Ad oggi il rapporto tra stato e chiesa è definito da alcune linee guida risalenti al 1947, quando sempre Ben-Gurion scrisse una lettera all’organizzazione ortodossa Agudat Yisrael al fine di declinare le norme che avrebbero determinato le relazioni tra l’ebraismo ed il futuro stato. Questi principi sono conosciuti come Status-quo Agreement che notifica l’impegno da parte di Israele nel garantire l’osservanza dello Shabbat come giorno ufficiale di riposo, il rispetto delle norme alimentari della kashrut nei luoghi pubblici, un certo grado di indipendenza in materia di istruzione scolastica e la regolamentazione del diritto privato in materia di matrimonio divorzio (gli ultimi punti valgono per tutte le diverse comunità religiose presenti in Israele).
Le tensioni inerenti al dibattito sulla natura d’Israele in quanto ebraico e democratico si basano sul tentativo, da un lato, di preservare un popolo, dall’altro di garantire diritti equi e uguali per tutti. Ne derivano così sfide pratiche di dialogo e convivenza che attraversano tutte le componenti della società israeliana: dai cittadini arabo-israeliani, alle diverse anime dell’ebraismo, fino agli ambienti più laici.
Quando fu stabilito lo stato, c’erano solo 806.000 residenti e la popolazione totale raggiunse il suo primo e secondo milione rispettivamente nel 1949 e nel 1958
Proviamo a dipingere un quadro demografico della nazione israeliana.
Secondo i dati di maggio 2019, la popolazione israeliana si aggira attorno a 9.009.000; questo numero include oltre 200.000 israeliani e 250.000 arabi a Gerusalemme est, circa 421.400 coloni ebrei in Cisgiordania (Giudea e Samaria) e circa 42.000 nelle alture del Golan (luglio 2007). Non include le popolazioni arabe nella West Bank e nella Striscia di Gaza.La popolazione ebraica ammonta a 6.738.500 (74,8%); 1.878.000 (20,9%) sono arabi (2018); e quelli identificati come “altri” (cristiani non arabi, baha’i, ecc.) costituiscono il 4,8% della popolazione (426.000 persone). Nel 2017, la popolazione per religione era di circa il 18% musulmana, 2% cristiana e 2% drusa. Gli israeliani risultano “giovani” rispetto alle popolazioni di altri paesi occidentali, infatti a partire dal 2017, il 28% della popolazione era di 0-14 anni, mentre solo il 10,3% aveva più di 65 anni.
Quando fu stabilito lo stato, c’erano solo 806.000 residenti e la popolazione totale raggiunse il suo primo e secondo milione rispettivamente nel 1949 e nel 1958. A giudicare dagli attuali dati sulle tendenze della popolazione, gli esperti prevedono che la popolazione di Israele raggiungerà i 10 milioni entro il 2024 o prima.
L’immigrazione è da sempre stata un fattore fondamentale per Israele che per natura e vocazione si fonda sul principio del “kibbutz galuyyot”, ovvero la riunione degli esuli. Per questo motivo, fin dall’epoca pre-statuale, le comunità immigrate dall’Europa e, dopo il 1948, dal Medio Oriente e nord Africa hanno garantito lo sviluppo demografico dello stato. Ad oggi, in Israele sono immigrate 3.200.000 persone.
Per quanto riguarda le nascite, l’anno passato sono stati messi al mondo circa 185.000 bambini un mondo occidentale in crisi demografica, Israele si distingue per il suo tasso di fertilità insolitamente alto.; infatti, in contrasto con il resto del mondo sviluppato, il tasso di fertilità israeliano è all’incirca uguale a quello degli anni ’60. E sta crescendo nella maggior parte dei gruppi in Israele negli ultimi anni.
Quali sono i partiti che attualmente animano la vita politica di Israele?
Andiamo a vedere chi sono i protagonisti dell’arena politica israeliana attuale e lo facciamo a partire dai fatti più recenti, accaduti in occasione delle elezioni di aprile 2019. Nella scorsa competizione elettorale si sono scontrati fondamentalmente due campi: il primo guidato dal Likud di Benyamin Netanyahu (attuale primo ministro) a cui fa riferimento il blocco della destra israeliana e dei partiti ortodossi religiosi, contro Kahol Lavan (Blue and White), guidato dall’ex chief-of-staff dell’esercito israeliano Benny Gantz, che ha riunito gli oppositori di Netanyahu di centro-sinistra e non.
La particolarità di Kahol Lavan risiede nelle ragioni della sua formazione e nella sua composizione: nato dall’unione delle forze di ex alti funzionari dell’esercito e dell’establishment della difesa che hanno raccolto intorno a loro personaggi della politica israeliana di diversa provenienza, dal centro-sinistra, al Likud, al partito Yesh Atid di Yair Lapid. Questa ampia unione di forze, ha avuto luogo per raggiungere l’obbiettivo di sconfiggere Netanyahu alle elezioni, portando così ad un cambiamento di linea nel governo del paese; proprio per la diversità di idee e di correnti che vi sono all’interno di Kahol Lavan, il partito è stato ampiamente criticato per non essere stato in grado di offrire linee guida e principi definiti, soprattutto in ambito di politica estera e in merito alla questione palestinese (che è stato un tema largamente marginalizzato durante la campagna elettorale). Effettivamente, la presenza di alcuni ex membri del Likud, che in passato hanno collaborato con Netanyahu (per esempio, l’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon), ha contribuito ad inibire l’efficacia del suo messaggio di voler “rompere” con le linee guida dell’attuale governo.
D’altra parte, l’ambiguità di Kahol Lavan sulle sue posizioni, è stata ricercata principalmente per due motivi: da un lato, l’esigenza di mostrarsi come un’alternativa a Netanyahu e raccogliere così voti degli elettori solitamente affiliati a partiti di centro-sinistra (i risicati sei seggi ottenuti dal Labor Party, non sono solo il risultato degli errori della leadership del partito, ma sono anche conseguenza del fatto che, molti suoi elettori tradizionali hanno preferito dare la loro preferenza a Kahol Lavan); mentre dall’altro, il tentativo di ottenere la fiducia degli elettori di destra più moderati, per cercare così di sottrarre a Netanyahu parte del suo bacino elettorale. Per fare questo, il partito ha cercato in tutti i modi di non farsi etichettare come “leftist”, ovvero di sinistra, definizione che Netanyahu ha avuto l’abilità di re-inventare come un termine dispregiativo, per riferirsi a chi si dissoci dalla sua linea di governo o chi sia contrario alla sua narrativa.La scorsa campagna elettorale ha quindi mostrato una società israeliana molto divisa, con un ripresentarsi della polarizzazione quasi estrema tra i due campi (per molti aspetti, non molto diversa da quella che riscontriamo in Italia, negli Stati Uniti o in Gran Bretagna); questa volta però, la dicotomia sinistra-destra è andata oltre al conflitto israelo-palestinese e ha coinvolto tutta una serie di aspetti: il punto focale è lo scontro sui principi democratici dello stato che, come conseguenza, finisce per riportare al dibattito sull’annessione della Cisgiordania. Inoltre, Netanyahu ha enfatizzato come solo un governo di destra sarebbe in grado di difendere la sicurezza e l’identità ebraica dello stato, mentre un governo di sinistra porterebbe alla messa in pericolo dell’esistenza dello stato, sia dal punto di vista identitario, sia dal punto di vista securitario. Questo messaggio è stato recapitato con slogan accattivanti, uno tra i quali: “Bibi o Tibi” (riferendosi al leader del partito arabo Ta’al arabo, Ahmed Tibi), dipingendo il suo sfidante Gantz come “sinistroide” debole pronto ad allearsi con i partiti arabi pur di cacciarlo.
Seppur Benny Gantz e Yair Lapid hanno sottolineato la necessità di fermare questa polarizzazione, il loro messaggio non è stato abbastanza forte per contenere gli effetti che questo dichiarazioni hanno avuto sui cittadini arabo-israeliani e hanno concentrato la loro attenzione sugli attacchi dei partiti di destra contro la Corte Suprema. Infatti, dal Likud a Otzma Yehudit, è stata portata avanti una battaglia comune per il superamento della cosiddetta “clausola di override” (Piskat HaHitgabrut), che consentirà alla Knesset di annullare le decisioni della Corte Suprema. Ciò significherebbe in effetti la fine del funzionamento della Corte suprema come tribunale costituzionale, garantendo ad ogni governo, attraverso la sua maggioranza parlamentare, un potere legislativo senza limiti.
Questo tema si ricongiunge perfettamente con l’incombenza delle vicende legali di Netanyahu che rischierebbe a breve di affrontare un processo per truffa, frode e breach of trust, argomento che ha fatto da padrone durante la campagna elettorale che ha trasformato così le elezioni in un referendum su Netanyahu stesso.
Tuttavia, ciò che è ancora più importante all’interno del campo di destra al di là di Netanyahu, è il verificarsi di uno spostamento verso posizioni più estreme a causa della formazione dell’Unione dei Partiti di Destra, alleanza tra HaBayit HaYehudit e Otzma Yehudit (gruppo molto criticato per la sua affiliazione con il messaggio di Meir Kahane, bandito dalla competizione elettorale negli anni Ottanta per le sue idee razziste) che ufficialmente ha fatto entrare questo partito nel dibattito politico israeliano. Insieme a questo, possiamo assistere ad uni scivolamento “più a destra” del messaggio del Likud rispetto alle posizioni del suo fondatore Menachem Begin: la domanda è se si tratti di un vero cambiamento ideologico, oppure se sia una tattica per rafforzare le alleanze attuali.
Come sappiamo, l’obiettivo di sconfiggere Netanyahu non è stato raggiunto ad aprile.
Come sappiamo, l’obiettivo di sconfiggere Netanyahu non è stato raggiunto ad aprile. Infatti, sebbene il Likud e Kahol Lavan abbiano raggiunto lo stesso numero di seggi (35), il presidente Reuven Rivlin ha affidato nuovamente a lui il compito di formare il governo. Infatti, la sproporzione tra i blocchi (65 parlamentari per il campo nazional-religioso e 55 per il centro-sinistra, compresi i partiti arabi) e la compattezza nel sostenere Netanyahu, avevano dato l’impressione che Netanyahu avrebbe facilmente formato un governo.
Bisogna sottolineare anche due fattori che hanno contribuito ad indebolire il blocco dell’opposizione che, anche in questa occasione, ha sofferto di alcuni problemi “strutturali”: primo è la crisi di ormai lunga durata della sinistra israeliana che da quasi vent’anni non riesce a presentare una leadership forte che veicoli un messaggio che coinvolga e convinca fino in fondo l’elettorato; questo caso, possiamo osservare come questa dinamica sia perfettamente in linea e riconducibile al generale declino e crisi della sinistra nelle democrazie occidentali. Secondo elemento riguarda il ruolo e il peso dei partiti arabi che rappresentano una grossa porzione della cittadinanza; i seggi ottenuti sono diminuiti rispetto il 2015 per la mancata affluenza degli elettori arabo-israeliani alle urne a causa di un sentimento diffuso di impotenza e isolamento, unito anche alla voglia di protestare contro la propria leadership non andando a votare.
La vera sorpresa è giunta a fine maggio quando, Netanyahu non è riuscito a far fronte alle divisioni interne al proprio blocco e si è ritrovato nell’impossibilità di formare un governo proponendo così un voto in parlamento per lo scioglimento della camera e per procedere a nuove elezioni. La mela della discordia è stata contesa tra i partiti religiosi (Shas e United Torah Judaism) e il partito Yisrael Beitenu di Avigdor Lieberman che, durante la sua carriera politica si è fatto portavoce della destra nazionalista ma laica in Israele (soprattutto tra immigrati di origini russe). In questa occasione Lieberman ha posto come condizione per entrare a far parte della coalizione di governo che venisse portato avanti il disegno di legge riguardante la coscrizione obbligatoria anche per gli studenti delle yeshiva (scuole religiose) che, attualmente, non hanno l’obbligo di prestare servizio.
Con questa diatriba non sedata, Israele si avvia verso le elezioni del 17 settembre con un ulteriore elemento che si aggiunge al suo complesso scenario politico; risulta difficile pensare che da qui a pochi mesi possa verificarsi un risultato radicalmente diverso da aprile, ma sicuramente sarà un’elezione da osservare con interesse.
E’ giunto il momento di trattare il tema delle relazioni internazionali di questo ancor giovane Stato dalla tradizione millenaria. Amici e nemici. I momenti clou della storia, della politica e della diplomazia israeliana, passando dai famosi 6 giorni a Camp David e ad Oslo.
Il conflitto arabo israeliano è il fattore principale nel determinare le direttrici della storia, della politica e della diplomazia israeliana durante i 71 anni di vita dello stato. Cercando di fare una brevissima sintesi, possiamo individuare dei momenti fondamentali.
Nel 1948, anno della nascita di Israele ed anno in cui scoppia anche la cosiddetta Prima guerra arabo-israeliana (definita dai palestinesi Naqba, ovvero tragedia, e dagli israeliani Milhamat hazmaut, guerra d’indipendenza) è il debutto ufficiale sulla scena internazionale di questo conflitto che passa cosí dalla dimensione locale israelo-palestinese, alla dimensione regionale arabo-israeliana. Infatti, dopo il ritiro della presenza britannica e la proclamazione dello stato di Israele a seguito dell’approvazione della Risoluzione ONU n.181, le forze armate di Egitto, Iraq, Libano, Siria e Arabia Saudita attaccarono il neonato stato.
Israele emergeva cosí dal conflitto come potenza militare indiscussa in Medio Oriente
Non dobbiamo assolutamente dimenticarci che questi eventi hanno preso forma in un’arena internazionale caratterizzata dalla guerra fredda e che quindi anche i protagonisti delle vicende che stiamo osservando entrarono a far parte di alleanze internazionali che rispondevano alla logica del mondo bipolare. Vediamo quindi come Israele, anche se in un primo momento sembrava essere piú vicino al blocco sovietico, alla fine cementerà la propria amicizia storica con gli Stati Uniti, mentre il fronte arabo troverà il sostegno sovietico. Ed è proprio nel 1956, con la crisi di Suez, che questo equilibrio se così possiamo definirlo venne stabilito.
Ma, senza ombra di dubbio, la guerra che ha ridefinito l’intero Medio Oriente e Israele stesso è stata la Guerra dei sei giorni nel 1967; questo conflitto è passato alla storia come un evento quasi “miracoloso” che ha visto Israele ampliare il proprio territorio conquistando le Alture del Golan dalla Siria, il West Bank e Gerusalemme Est dalla Giordania e il Sinai dall’Egitto in soli 6 giorni. Israele emergeva cosí dal conflitto come potenza militare indiscussa in Medio Oriente, esito che avrebbe spinto il suo principale rivale l’Egitto a cercare la propria rivalsa di lí a pochi anni. Ma, a mio parere, il risultato post-bellico che piú ha avuto un impatto radicale sulla storia e sulla politica d’Israele è stato la conquista della Cisgiordania (o West Bank o Territori Palestinesi) e di Gerusalemme Est; infatti, da quel momento, la discussione sul futuro di quella porzione di terra avrebbero definito e monopolizzato il dibattito politico ed identitario israeliano. La rinnovata presenza ebraica nei luoghi citati nella Bibbia ha risvegliato correnti ideologiche messianiche-nazionaliste, che sembravano erroneamente essere state “sconfitte” dal corrente di pensiero maggioritaria del sionismo laburista.
Pochi anni dopo, nel 1973, l’Egitto avrebbe cercato di ristabilire la propria reputazione come leader del fronte arabo e di riconquistare il Sinai con la Guerra dello Yom Kippur: nessuno avrebbe mai immaginato che la restituzione di questo territorio sarebbe avvenuta invece grazie all’impegno del primo ministro israeliano Menachem Begin e del presidente egiziano Anwar Sadat nel firmare un accordo di pace tra i due paesi. Il trattato di Camp David del 1979 è stato un tra traguardo fondamentale nel conflitto arabo-israeliano perchè, di fatto, è stato il primo accordo mai firmato da Israele con uno stato arabo.
Questo evento di portata storica non ha comunque evitato l’intervento israeliano in Libano del 1982 che avrebbe segnato, con i sanguinosi eventi di Sabra e Chatila, l’inizio di una fase per l’opinione pubblica israeliana che inizió a protestare contro questo conflitto percepito come ingiusto. Il nascere di movimenti pacifisti come Peace Now (Shalom Akshav) è stata una premessa fondamentale che avrebbe contribuito al cambiamento di prospettiva da parte della società civile israeliana nei confronti della questione palestinese.
Nel 1987 infatti, lo scoppio della prima intifada rivela al pubblico israeliano l’insostenibilità dello status quo, facendo maturare la consapevolezza del bisogno di una soluzione politica (e non militare); ed è stata proprio questo il fattore che avrebbe contribuito all’elezione nel 1992 di Yitzhak Rabin. Lui, “Mr Security”, è stato il primo ministro israeliano che, insieme a Shimon Peres, ha portato Israele a dialogare con la controparte palestinese, dialogo che è culminato con la firma degli accordi di Oslo nel 1993. La stretta di mano con Yasser Arafat è stata un’immagine potente che ha inaugurato un periodo di grande speranza in cui sembrava possibile risolvere il conflitto arabo-israelo-palestinese, che sembrava essere confermato dalla firma del trattato di pace con la Giordania nel 1994.
Con l’assassino di Rabin nel 1995 e l’inizio i primi attentati terroristici in territorio israeliano, il processo di pace inizia a subire forti rallentamenti ma riesce a mantenersi vivo fino al 2000, anno in cui Ehud Barak (neoeletto primo ministro israeliano) spinge fortemente per partecipare al summit di Camp David per tentare un’ultima volta di riesumare i negoziati con Yasser Arafat. Purtroppo, nonostante l’impegno di tutti e in particolare dell’allora presidente americano Bill Clinton, il vertice si conclude con un nulla di fatto.
La frustrazione di entrambe le parti per non essere riusciti a raggiungere un accordo, la sfiducia nel processo e lo scoppio della durissima seconda intifada nel 2002, avrebbero dichiarato la fine del Processo di Oslo. Ad oggi non sembra esserci nessuna seria volontà nel riprendere il dialogo e rompere lo stallo nel quale tergiversa il conflitto israelo-palestinese. Da qualche anno, il presidente americano Donald Trump ha collezionato molte dichiarazioni in merito all’imminente annuncio di un grande piano di pace che porterebbe alla risoluzione della questione; l’annuncio dei contenuti di questa proposta sarebbe dovuta avvenire dopo le elezioni israeliane di aprile scorso, ma il fallimento di Benyamin Netanyahu nel formare il governo ne ha ritardato ulteriormente la pubblicazione.
In questi giorni (24-26 giugno), si è tenuto il vertice economico in Bahrein (sempre sotto l’egida americana) che vedrebbe riuniti i principali attori mediorientali per discutere di un rilancio economico che dovrebbe favorire una più larga cooperazione nella regione e, perché no, gettare le basi per la risoluzione della questione israelo-palestinese. Questo aspetto più politico è stato però notevolmente ridimensionato a causa della mancanza di un nuovo governo in Israele che, seppur partecipando alla conferenza, avrà comunque una presenza ridotta nel tentativo di contenere le obiezioni di alcuni stati arabi. A contribuire a questo ridimensionamento è stata anche l’assenza l’autorità Nazionale Palestinese che ha rifiutato l’invito nel tentativo di bloccare l’iniziativa. Sarà un interessante occasione per vedere che direzione prenderà il governo (ad interim) di Netanyahu, visto che il primo ministro non si è dimostrato molto incline a sciogliere questo nodo.
Negli ultimi 10 anni di governo, Netanyahu ha perseguito una politica estera e di sicurezza che conferma la retorica di un paese sotto assedio: da una parte, confermando la propria ostilità nei confronti della percepita minaccia iraniana e, dall’altra, cercando di rivolgere la propria attività diplomatica migliorando relazioni con stati africani, latinoamericani e asiatici; in particolare sono stati rafforzati i rapporti con gli stati del Golfo con cui si condividono interessi e nemici comuniIn generale, gli eventi regionali sembrano aver contribuito nel marginalizzare l’importanza del conflitto israelo-palestinese e aumentato le possibilità di creare una cooperazione tattica con l’Arabia Saudita e i suoi alleati in ottica di contenimento contro la potenza iraniana. Contemporaneamente, Israele ha costruito relazioni pragmatiche con la Russia, in particolar modo dirette a contenere la violenza in Siria. Per quanto riguarda l’alleato americano, dopo un periodo di crisi nella relazione con gli Stati Uniti di Barack Obama, i rapporti tra i due stati si sono ristabiliti e rinforzati dopo l’elezione di Trump alla casa Bianca, mentre invece le relazioni con l’Unione Europea si sono raffreddate proprio a causa della questione palestinese (in particolare a riguardo delle continue tensioni con Hamas a Gaza), anche se Bruxelles rimane un partner strategico in ambito economico, commerciale e della cooperazione energetica.
Ringrazio la dottoressa Anna Bagaini per la sua preziosa collaborazione. Buon lavoro e buona vita.