Il giudice ragazzino

Il giudice ragazzino

Rosario Livatino nasce a Canicattì il 3 ottobre 1952. Il padre Vincenzo è laureato in legge ed è un pensionato dell’esattoria comunale. La mamma si chiama Rosalia Corbo. Rosario si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo il 9 luglio ’75 a soli 22 anni. Massimo dei voti cum laude. Tra il ’77 e il ’78 Livatino assume l’incarico di vicedirettore presso l’Ufficio del Registro di Agrigento. Sempre nel 1978 entra in Magistratura, prestando servizio presso il tribunale di Caltanissetta. Nel 1979 diventa sostituto procuratore presso il tribunale di Agrigento. Rimane in carica come sostituto procuratore sino al 1989, quando diventa giudice a latere.

«Che vi ho fatto?»

Rosario Livatino fu ucciso in un agguato mafioso la mattina del 21 settembre 1990. Senza scorta , alla guida della sua Ford Fiesta, percorre il viadotto Gasena, lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta. Viene raggiunto ed affiancato da una vettura con a bordo quattro giovani armati. 

Gli sparano. Livatino ferito ad una spalla, accosta, scende ed inizia fuggire tra i campi. «Che vi ho fatto?». I suoi assassini con freddezza lo uccidono. Il colpo di grazia alla testa lo spara Gaetano Puzzangaro. Il suo corpo viene composto nell’obitorio dell’ospedale di Agrigento.

Gli esecutori materiali dell’omicidio sono Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro, tutti successivamente condannati in via definitiva all’ ergastolo. I mandanti sono i vertici della Stidda, un’ organizzazione mafiosa concorrente di Cosa Nostra.

Secondo la sentenza, Livatino viene ucciso perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.

“Giudice ragazzino”. Così l’aveva ingenerosamente battezzato otto mesi dopo la sua morte l’ex Presidente della Repubblica, Cossiga.

«Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno…? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta»

Nel 1992, Cossiga scrive una lettera al Giornale di Sicilia smentendo questa affermazione, sostenendo che Livatino era “un eroe e un santo”. Puntualizzazione oltremodo tardiva.

Fu l’attentato a un magistrato che andava in ufficio da solo, con la sua piccola macchina. E che quindi era protetto unicamente dalla sua bontà, dalla sua imparzialità, dal modo in cui faceva il suo mestiere.

” Il ricordo che ho di Rosario Livatino è dolcissimo. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui arrivò alla procura di Caltanisetta come uditore giudiziario con funzioni; cioè in prima destinazione dopo aver vinto il concorso e aver superato il corso di formazione. Procura che frequentavo poiché prestavo servizio nel distretto come sostituto alla procura di Nicosia. Quello che mi colpì subito, nel suo aspetto, fu l’estrema compostezza,la grande serietà. La serietà dello sguardo e, soprattutto, la modestia che lui professava a volte fino all’inverosimile. Ricordo che, insieme a un altro collega, impiegammo tre mesi per convincerlo a darci del tu. Rosario si ostinava a darci del lei. E noi giù, a parlargli che il magistrato si distingue solo per funzioni e che quindi dovevamo darci del tu, anche perché la nostra età non era molto dissimile dalla sua: eravamo giovanissimi magistrati. Questa è l’essenza del magistrato Livatino.

Non si tratta di un grande eroe della lotta alla mafia, non si tratta di un grande sterminatore di nemici dello Stato. Si tratta di un giovane magistrato, serio, attento, posato, riflessivo. Estremamente sensibile, estremamente attaccato al suo dovere. Si tratta di un magistrato modello, secondo me. Perché il magistrato modello è proprio questo. E’ colui il quale professa la sua battaglia contro l’illegalità giorno dopo giorno, cimentandosi nelle imprese giudiziarie le più varie; confrontandosi con le più varie fattispecie di reati, sempre nell’unico grande scopo della riaffermazione della legalità. Questo era Rosario Livatino. Un magistrato che deve servire da modello a tutti i giovani magistrati, ma non solo.


Fu un giovane magistrato che immolò la sua vita anche alla sua modestia perché viaggiava solo. La sua morte non fu il vile attentato a un magistrato che viaggia protetto, nei confronti del quale vengono impiegati terribili strumenti di morte proprio per vincere le difese poste a sua protezione. Fu l’attentato a un magistrato che andava in ufficio da solo, con la sua piccola macchina. E che quindi era protetto unicamente dalla sua bontà, dalla sua imparzialità, dal modo in cui faceva il suo mestiere. Dalla sua limpidezza e dalla sua trasparenza. Fu molto facile dimenticare tutto ciò e sparargli, prima attraverso il vetro della macchina e poi, a sangue freddo dopo averlo inseguito per la scarpata, finirlo con il colpo di grazia.

E’ una cosa che ci ha toccato, noi tutti magistrati, e ci tocca ancora oggi. Ci ha fatto vedere cosa può essere l’attaccamento al dovere. Ci ha fatto vedere come si possa arrivare all’estremo sacrificio al servizio di un ideale che è quello della giustizia. Quello che dovrebbe legare a sé tutti gli uomini, almeno quelli di buona volontà.

A volte il destino è bizzarro. Dopo tanti anni dalla sua morte ho avuto l’onere di assumere la responsabilità delle indagini nei confronti degli autori dell’assassinio di Rosario Livatino. Con molta serenità, ora posso dire che, alla fine, i miei colleghi e io abbiamo fatto il nostro dovere. Giustizia è stata veramente fatta: i tre processi nei confronti di nove, tra mandanti ed esecutori, dell’omicidio di Livatino sono stati, con sentenza passata in giudicato, tutti condannati all’ergastolo.

Quanto meno questo. Quanto meno la sua morte è servita anche per togliere di mezzo, mi auguro in maniera permanente e definitiva, nove malfattori dal contesto civile.”

Giovanni Tinebra (Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria)

20 settembre 2003 – Fonte www.giustizia.it

Related Posts