La mafia uccide solo d’estate. Boris Giuliano.

La mafia uccide solo d’estate. Boris Giuliano.

Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! (Peppino Impastato).

Nel 2013 Pierfrancesco Diliberto (meglio conosciuto come Pif ) diresse ed interpretò un bellissimo film intitolato La mafia uccide solo d’estate.

L’uomo che vogliamo ricordare fu ucciso proprio nel cuore dell’estate, il 21 luglio del 1979. Boris Giuliano, poliziotto, vice questore di Palermo.

Mi sono accorto, parlando in particolare modo con i ragazzi giovani, che la sua figura non è tra le più conosciute; il nome “suona” ma di lui si ricorda poco, molto meno di quanto si ricordi di uomini iconici come Falcone e Borsellino.

Chi era Boris Giuliano, o meglio Giorgio Boris Giuliano? Non fu sempre e soltanto un poliziotto.

Nacque il 22 ottobre del 1930 a Piazza Armerina, in provincia di Enna. Era figlio di un sottufficiale della Marina Militare italiana e con lui e la famiglia passò una parte dell’infanzia in Libia, dove il padre era comandato. Quando tornò in Italia studiò e si laureò in Giurisprudenza a Messina, nel 1956. Cominciò a lavorare per una piccola società manifatturiera, la Plastica Italiana, e poi si trasferì a Milano con la famiglia. 

Durante il periodo universitario giocò a pallacanestro in Serie B con il CUS Messina. Cominciò quindi a lavorare a Milano come dirigente di una società manifatturiera, nel 1962 tentò il concorso come commissario in Polizia e lo vinse. Nel 1963, al termine del corso di formazione, chiese di essere assegnato a Palermo, dove poco tempo dopo entrò alla locale Squadra Mobile in cui lavorò sino all’ultimo giorno, dapprima alla Sezione Omicidi, in seguito come vice dirigente e infine dirigente dall’ottobre 1976.

Leoluca Bagarella aspettò pazientemente che si voltasse per pagare il caffè: solo allora lo freddò con due colpi alla schiena. 

Rimase a Palermo sino al giorno della sua morte, che ricostruiamo con le parole dell’ex Presidente del Senato e Procuratore Antimafia Grasso: “Leoluca Bagarella aspettò pazientemente che si voltasse per pagare il caffè: solo allora lo freddò con due colpi alla schiena. Morì così Boris Giuliano, un poliziotto eccezionale che aveva capito ‘cosa nostra’ quando ancora era misteriosa e impenetrabile”.

Alcune cronache sostengono che i colpi esplosi furono sette e non due, ma poco importa. Quello che è certo (e che va ricordato) è che furono esplosi a bruciapelo alle spalle, una vera vigliaccata. Il tutto accadde nel centro di Palermo, in via Francesco di Blasi al civico 17, all’interno del Bar Lux, dove ancora oggi una lapide ricorda il meschino e (repetita iuvant) vigliacco assassinio. 

Nel 1995, nel processo per l’omicidio Giuliano, vennero condannati all’ergastolo i boss mafiosi Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Francesco Madonia, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Nenè Geraci e Francesco Spadaro come mandanti del delitto mentre Leoluca Bagarella venne condannato alla stessa pena come esecutore materiale dell’omicidio.

Perché la mafia mise nel proprio mirino questo valente poliziotto?

Giuliano capì per primo le trasformazioni criminali di Palermo negli anni ’60 e ’70. Sempre Grasso ricorda: “ho conosciuto Giuliano quando ero un giovane magistrato a Palermo. Boris Giuliano fu il vero nemico della mafia. Aveva capito la mafia e la mafia aveva capito e compreso che l’unico modo per fermarlo era quello di ucciderlo. Era gioviale simpatico ma anche un investigatore temuto, un segugio senza pari. Gentile ma intransigente allo stesso tempo. Un uomo che operò con grandi intuizioni come quella di coordinarsi con gli investigatori statunitensi per la lotta alla mafia.

Quando visitai il centro dell’Fbi di Quantico in Virginia scoprii che tra le targhe esposte c’era proprio quella di Giuliano. Lui e il giudice Falcone con un busto sono gli unici due italiani ricordati in quel luogo”.

Il 29 aprile 1979 squillò il telefono della mobile: “Giuliano morirà”.

Giuliano e la mobile palermitana condussero diverse indagini scottanti, e tra queste la scomparsa del giornalista De Mauro del 1970. De Mauro quando scomparve stava indagando sull’ultimo viaggio in terra di Sicilia di Enrico Mattei, e lo stava facendo per conto del regista Rosi che stava girando il film Il caso Mattei. Prima di essere ucciso De Mauro aveva presumibilmente fornito a Rosi notizie riguardanti gli ultimi giorni di Mattei, novità utili ad accreditare la tesi del regista, ovvero che la morte di Mattei fosse stata causata da un attentato. Le indagini sulla sparizione di De Mauro furono condotte sia dai carabinieri, comandati da Carlo Alberto Dalla Chiesa, che dalla polizia e da Giuliano.

Nel 1979 Giuliano indagò anche sul ritrovamento di due valigette contenenti 500.000 dollari all’aeroporto di Palermo, che si scoprì essere il pagamento di una partita di eroina sequestrata all’aeroporto J.F. Kennedy di New York. Contemporaneamente a questa indagine, gli uomini di Giuliano fermarono due mafiosi, Antonino Marchese e Antonino Gioè, nelle cui tasche trovarono una bolletta con l’indirizzo di via Pecori Giraldi: nell’appartamento i poliziotti scovarono armi, quattro chili di eroina e una patente contraffatta sulla quale era incollata la fotografia di Leoluca Bagarella, cognato del boss corleonese Salvatore Riina.

In un armadio venne trovata anche un’altra fotografia che ritraeva insieme numerosi mafiosi vicini al clan dei Corleonesi, tra cui figurava Lorenzo Nuvoletta, camorrista affiliato a Cosa Nostra.

Nello stesso periodo, Giuliano stava anche indagando su alcuni assegni trovati nelle tasche del cadavere di Giuseppe Di Cristina, capomafia di Riesi ucciso nel 1978; gli assegni avevano portato a un libretto al portatore della Cassa di risparmio con 300 milioni di lire intestati a un nome di fantasia, che era stato usato dal banchiere Michele Sindona. Per approfondire queste indagini, Giuliano si era anche incontrato con l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore delle banche di Sindona che venne ucciso pochi giorni dopo il loro incontro.

Il 29 aprile 1979 squillò il telefono della mobile: “Giuliano morirà”.

Ma queste furono solo alcune delle indagini calde gestite dal maresciallo (il nomignolo che gli avevano dato i suoi più stretti collaboratori). Tra i suoi meriti dobbiamo anche ricordare che fu tra i primi, se non il primo, a seguire i soldi e ad indagare sul fenomeno dello spaccio e del commercio della droga di cui intuiva la portata internazionale (con la collaborazione dei colleghi americani della Dea e dell’Fbi), ed a studiare gli stretti intrecci mafiosi esistenti tra politica e finanza.

Fu veramente un innovatore (fu il primo creare alla Mobile un pool di lavoro specializzato, metodo poi preso ad esempio da illustri magistrati che lottarono contro la mafia negli anni a seguire) e rappresentò per la malavita organizzata di stampo mafioso una vera spina nel fianco.

Lo ricordiamo quindi, grati ed ammirati.

Motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Civile

« Valoroso funzionario di Pubblica Sicurezza, pur consapevole dei pericoli cui andava incontro operando in un ambiente caratterizzato da intensa criminalità, con alto senso del dovere e non comuni doti professionali si prodigava infaticabilmente nella costante e appassionante opera di polizia giudiziaria che portava all’individuazione e all’arresto di pericolosi delinquenti, spesso appartenenti ad organizzazioni mafiose anche a livello internazionale.
Assassinato in un vile e proditorio agguato tesogli da un killer, pagava con la vita il suo coraggio e la dedizione ai più alti ideali di giustizia.
Palermo, 21 luglio 1979.
»

Palermo, 13/05/1980.

Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! (Peppino Impastato).

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