Vittima della mafia. Filippo Salsone, il capo delle guardie.

Vittima della mafia. Filippo Salsone, il capo delle guardie.

Se scrivo sopra ad una pagina bianca il nome di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, sono certo che nella mente di tutti prendono forma immediatamente le immagini dei loro volti. Ma se scrivo il nome di Filippo Salsone, saranno inevitabilmente meno le persone che ne ricorderanno il nome, la storia ed il volto. Eppure, proprio come i due giudici, divenuti emblemi della lotta alla criminalità di stampo mafioso, anch’egli ha pagato la fedeltà allo Stato con la vita. Con questa intervista esclusiva al figlio Antonino, cerchiamo di ricordare la sua figura di uomo, di padre, di integerrimo servitore dello Stato.

Incontro Antonino Salsone nel suo studio di Monza. Nato il 27 aprile 1971 a Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, è il figlio primogenito di Filippo Salsone. Vive la prima parte della sua vita, fino a ventotto anni, dividendosi tra i paesi di Brancaleone e di Bruzzano Zeffirio, luoghi natali dei genitori, distanti tra di loro solo pochissimi chilometri. Laureatosi nel 1995 in Giurisprudenza a Messina, nel 1997 si trasferisce in Lombardia dove tutt’ora risiede. Dopo una prima esperienza professionale a Chiari (Bs), dal 2000 al 2005 collabora con uno studio legale di Monza. Nel 2005 apre uno studio legale proprio, oggi molto quotato. Antonino Salsone è sposato con una collega avvocato, Giudice di Pace in un capoluogo di provincia lombardo, ed è papà di tre ragazzi.

Chi era Filippo Salsone ?

Mio padre è nato a Brancaleone (RC) il 28 maggio del 1942 in una famiglia modesta, mio nonno faceva lo stagnino e mia nonna era una casalinga. Mio padre era il terzo di quattro figli. Tre fratelli ed una sorella. A soli undici anni mio nonno lo mandò presso un parente a Pavia e sulle sponde del Ticino rimase fino ai quattordici anni. Dopo essere tornato al paese natale per qualche anno, emigrò quindi in Lussemburgo dove lavorò in fabbrica sino ai diciotto anni. Tornato in Calabria per prestare il servizio militare, entrò nel corpo degli Agenti di Custodia, oggi Polizia Penitenziaria. Allora il Corpo era militarizzato e dipendeva dal Ministero di Grazia e Giustizia. Svolse la prima parte della carriera a Messina, prima assegnazione, prima come agente e successivamente some sottufficiale. Da brigadiere gli venne assegnata la direzione della sezione adibita al contenimento delle terroriste, come ad esempio Barbara Balzarani ed Adriana Faranda, all’interno del penitenziario messinese. Sezione che guidò per cinque anni.

Io fui il primo ad uscire di casa e vidi mio padre disteso davanti all’uscio, con il volto ricoperto di sangue.

Avvocato Salsone la riporto indietro negli anni con la memoria. Mi racconti cosa accadde il 7 febbraio 1986. Quali sono i suoi ricordi più vivi di quei drammatici momenti?

Accadde questo, lo ricordo in modo assolutamente nitido. Eravamo stati a cena, mio papà, mia mamma, mio fratello minore Paolo ed io, a casa dei mie nonni materni. Intorno alle venti rientrammo da Bruzzano verso Brancaleone dove abitavamo, a mezza collina (sono circa cinque chilometri di strada). Ricordo nitidamente che andammo con la macchina di mia mamma, una Fiat 126 azzurra. Scesi dalla macchina, entrammo tutti e quattro in casa e dopo qualche minuto mio padre uscì nuovamente con una scodella, per dare da mangiare al cane. A quel punto (io mio trovavo più o meno nel corridoio di casa) io sentii uno scoppio, che sulle prime mi sembrò lo scoppio di una bombola del gas. In realtà non si trattava di una deflagrazione, ma di diversi colpi di arma da fuoco. Io fui il primo ad uscire di casa e vidi mio padre disteso davanti all’uscio, con il volto ricoperto di sangue. L’unica cosa a cui pensai fu il cercare di rianimarlo e provai a fargli un massaggio cardiaco. Un gesto istintivo, forse l’emulazione di un gesto visto in televisione.

Ma mio padre si spense dopo pochissimi secondi, ed io percepii chiaramente il suo ultimo respiro. Dalla casa di fronte, distante circa venticinque-trenta metri, dal secondo piano di una casa in costruzione, furono sparati da due fucili diversi colpi di arma da fuoco. Munizioni a pallettoni, con i pallettoni legati tra di loro con un filo per non allargare troppo la rosa prima di giungere al bersaglio. In quell’occasione rimase purtroppo ferito molto gravemente anche mio fratello Paolo, che sostava al momento dell’agguato in casa ma dietro ad una finestra. Fu colpito alla testa e fu ricoverato per oltre un mese agli Ospedali Civili di Reggio Calabria in pericolo di vita. Ai tempi aveva solo undici anni. Ancora oggi mio fratello ha dei pallini in testa.

L’altra consorteria mafiosa che operava in città, e faceva capo a Franco Pino, decise di controbilanciare la dimostrazione di potere mafioso del clan Perna, uccidendo l’allora capo della Polizia Penitenziaria, il capo delle guardie, cioè mio padre. 

Perché le cosche ordinarono questo crimine efferato?

Nell’immediatezza del delitto, dopo tre-quattro anni, la prima indagine riguardò il carcere di Reggio Calabria. Mio papà aveva avuto diversi incarichi ed aveva comandato in diverse carceri. Tutte in Calabria: Lamezia Terme, Crotone, Cosenza ed infine Reggio Calabria. Al momento dell’uccisione era comandante di Poggioreale, a Napoli. Il primo filone di indagini riguardò il carcere di Reggio Calabria, dove mio padre era vice comandate, alle dipendenze gerarchiche di un certo maresciallo Scorza. Mio padre, che è sempre stata una persona integerrima ed assolutamente onesta, si accorse che all’interno del carcere di Reggio Calabria (parliamo del 1985) non venivano rispettati i regolamenti carcerari. Si scontrò molto, moltissimo (si può leggere la cronaca giudiziaria di quegli anni) con il direttore di allora, il dottor Barcella, e con gli altri due marescialli suoi colleghi, Scorza e Miciullo. Agli atti rimane una sentenza che attesta in maniera chiarissima come il maresciallo Salsone, fedele ed integerrimo servitore dello Stato, fosse l’unico tra i sottufficiali a far rispettare il regolamento carcerario. (Tribunale di Reggio Calabria, sentenza a firma della dott.ssa Grasso, Presidente del Collegio giudicante).

Intorno ai primi anni duemila le indagini presero una piega diversa e si orientarono verso il carcere di Cosenza. Un pentito di ‘ndrangheta, Franco Pino, proveniente dalla città di Paola, suggerì agli inquirenti di concentrare la propria attenzione verso questo penitenziario. Mio padre comandò il carcere di Cosenza e fu un collaboratore strettissimo dell’allora direttore Sergio Cosmai, ucciso nel 1985. Cosmai venne ucciso da una consorteria mafiosa cosentina facente capo ad un certo Franco Perna (esiste a tal riguardo una sentenza passata in giudicato). L’altra consorteria mafiosa che operava in città, e faceva capo a Franco Pino, decise di controbilanciare la dimostrazione di potere mafioso del clan Perna, uccidendo l’allora capo della Polizia Penitenziaria, il capo delle guardie, cioè mio padre. Il tutto per dimostrare come anche il clan Pino avesse la medesima capacità operativa.

Successivamente il pentito Franco Pino confermò che il mandante dell’omicidio Salsone era stato proprio lui e si autoaccusò in modo palese, anche se l’esecuzione materiale fu delegata a personaggi di Africo a cui chiese il favore di eseguire il delitto.

Esiste quindi una sentenza giudiziaria?

In realtà, ad oggi, non esiste alcuna sentenza. Ufficialmente non esiste un solo nome che individui il mandante e l’esecutore dell’omicidio di mio padre.

Mio padre aveva la consapevolezza che quelle azioni gli sarebbero costate la vita. E lui, nonostante questo, decise di andare avanti. Ed io ne sono orgoglioso.

Suo padre è stato insignito, alla memoria, con la Medaglia d’Oro al Merito Civile. Dalle mani del Presidente della Repubblica proprio Lei ha ritirato l’onorificenza. Suo padre è stato riconosciuto “vittima del dovere”. Immagino che la Sua famiglia abbia quindi prontamente beneficiato di tutti i sostegni previsti dalla legge. 

Assolutamente si. Mio padre è stato dichiarato vittima del dovere già l’anno successivo alla sua morte, con decreto del capo della Polizia. E la mia famiglia ha beneficiato della cosiddetta speciale elargizione spettante ai familiari superstiti delle vittime del dovere. A seguito anche dei filoni di indagine, noi abbiamo sempre sostenuto che mio padre non fosse solo una vittima del dovere, ma anche una vittima di mafia. Sicuramente è una vittima di mafia. Perché la matrice del delitto è esclusivamente mafiosa, e nello specifico ‘ndranghetistica. Questo nostro tentativo di avere riconosciuta la qualifica di vittima di mafia per mio padre non ha mai avuto un buon esito. Per la prima volta intorno all’anno 2000 abbiamo fatto un’istanza per ottenere questo riconoscimento, ma ci siamo scontrati con la normativa vigente. Normativa che attribuisce la decisione non all’autorità amministrativa, bensì all’esistenza di una sentenza, anche di primo grado, che attesti il contesto mafioso del delitto. Sentenza che non esiste, a distanza di trent’anni dall’omicidio. Proponemmo quindi ricorso al TAR di Milano che però dichiarò la propria incompetenza, rimandandoci al giudice civile.

Nel 2010 ricevemmo la splendida notizia che mio padre era stato insignito della Medaglia d’Oro al Merito Civile. Nel corso della festa della Polizia Penitenziaria, maggio 2010, io stesso ricevetti l’onorificenza dalle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nella splendida cornice dell’Arco di Traiano a Roma, presenti anche mia mamma e mio fratello Paolo.

La motivazione che indusse il Ministro degli Interni a proporre alla Presidenza della Repubblica la concessione dell’onorificenza dice:

«Consapevole del grave rischio personale si impegnò con coraggio e fermezza a ripristinare il rispetto delle regole e la disciplina all’interno di alcuni istituti penitenziari, ove erano detenuti elementi di spicco delle locali cosche criminali, rimanendo quindi vittima di un vile agguato. Fulgido esempio di elevato spirito di servizio e non comune senso del dovere, spinti sino all’estremo sacrificio».

Mio padre aveva la consapevolezza che quelle azioni gli sarebbero costate la vita. E lui, nonostante questo, decise di andare avanti. Ed io ne sono orgoglioso.

A fronte di questo grande onore, l’anno successivo, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha intestato il carcere di Palmi “Casa Circondariale Filippo Salsone”. Stiamo parlando del penitenziario più importante della Calabria.

Nonostante queste chiarissime manifestazioni della ratio, del principio, della natura criminale mafiosa dell’omicidio di mio padre, ancora qualche giorno addietro, ai primi di settembre, a seguito di un’ulteriore istanza che io ho personalmente presentato al Ministero dell’Interno ed al Capo della Polizia, (riassumendo tutto l’iter e chiedendo nuovamente il riconoscimento della qualifica di vittima della mafia), mi è stato comunicato ancora il rigetto dell’istanza. Motivo tecnico-burocratico: manca la sentenza.

Io noto che c’è una chiara contrapposizione tra quanto il Presidente della Repubblica, il Ministro dell’Interno ed il Capo del DAP hanno fatto e ritenuto e quanto viene negato a mio padre con motivi non di merito, ma burocratici. Viene negato quanto gli spetta, perché lui è morto per mano della mafia.

Dove ha trovato la forza per superare una tragedia così devastante sino a diventare un professionista affermato ed un uomo stimato da tutti ?

Proprio in mio padre. Nel suo ricordo, nella sua memoria. Nel fatto che io volevo essere un degno figlio per lui. E’ lui che mi ha dato e mi da la forza.

Riesce ancora ad amare la sua terra d’origine dopo tutta la sofferenza che Le ha procurato?

Assolutamente si. Io amo la Calabria ed amo i calabresi. La Calabria è un’espressione autentica di calore e di bontà d’animo. In Calabria purtroppo c’è questo cancro spaventoso che andrebbe estirpato in modo radicale e definitivo, ma questo cancro non deve essere confuso con i calabresi. Io non li chiamerei neppure calabresi; questi sono dei criminali che andrebbero estirpati dalla faccia della Terra.

Amo molto anche la Lombardia e mi sento un figlio adottivo di questa terra. Certamente la mia mamma naturale è la Calabria ma la mia mamma adottiva è la Lombardia. La Lombardia mi ha accolto, mi ha fatto diventare uomo e professionista e la amo con la stessa intensità emotiva.

Quanto la spaventa il fatto che la ‘ndrangheta si stia radicando pervicacemente in Lombardia?

Mi spaventa moltissimo come cittadino, come lombardo-calabrese e come padre di tre figli che spero possano vivere in un ambiente immune da un cancro così feroce. Una regione espressione di valori sani, portatrice di valori che fanno riferimento all’onestà, al lavoro deve essere difesa da noi tutti. E resa aliena da infiltrazioni di questo tipo. Ribadisco, questi malavitosi, a prescindere dal fatto che siano ‘ndranghetari calabresi, mafiosi siciliani, camorristi napoletani o pugliesi della Sacra Corona Unita, sono solo criminali. Vanno trattati da criminali e combattuti senza tregua. Non solo grazie all’opera costante ed encomiabile delle forze dell’ordine e della magistratura, ma soprattutto grazie all’opera della società civile e della pubblica amministrazione. 

La pubblica amministrazione deve avere il coraggio di dire NO a queste infiltrazioni.

Come si può rendere sterile la mala pianta della mafia?

Non sono un sociologo, ma ho da sempre maturato una duplice convinzione, anche in considerazione del fatto che sino a ventotto anni ho vissuto in una terra molto difficile come la Locride. Sono due gli ambiti da coltivare da parte soprattutto della politica. La vera forza motrice del cambiamento deve essere necessariamente la volontà politica. La scuola ed il lavoro. Bisogna svolgere un’attività di tipo pedagogico a partire dalle elementari, riscoprendo il gusto, il piacere, il senso della civicità. Bisogna investire nella scuola.

E poi il lavoro. Il lavoro è essenziale perché la ’ndrangheta si radica dove il lavoro non c’è. La ‘ndrangheta diventa il datore di lavoro del soggetto che il lavoro non ha. E siccome bisogna campare, e bisogna pur mangiare la malavita organizzata può risultare talvolta una soluzione.

In una situazione già degradata sotto il profilo sociale, in cui lo Stato viene impersonato dalla caserma dei Carabinieri e niente altro, è chiaro che il lavoro è assolutamente necessario. Per combattere la criminalità mafiosa e ‘ndranghetista, prima la scuola e poi il lavoro.

Un ultimo pensiero.

L’amarezza mia, di mio fratello, di mia madre e di mio zio nasce dal fatto che, a trent’anni esatti dalla morte di mio padre, sembra quasi che la sua uccisione debba per forza rimanere nel dimenticatoio di questa Repubblica. E noi questo non lo accettiamo. A fronte delle dichiarazioni del pentito Pino, noi non abbiamo mai saputo niente di ufficiale. Non abbiamo una informativa ufficiale da parte degli organi inquirenti. Quello che sappiamo lo abbiamo ricavato dai mass media e da una continua opera di collazione su internet. Io non so se il Pino, reo confesso, sia ancora vivo o carcerato. Non ne sappiamo nulla. Abbiamo chiesto all’autorità giurisdizionale ed alla DDA (Direzione Distrettuale Antimafia ndr) “cosa state facendo?” Ancora attendiamo una risposta.

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