Un aperitivo nel centro di Milano. Più che un’intervista, una lunga e piacevole chiacchierata (serena e rilassata) tra colleghi, con un registratore acceso. Di fronte a me uno dei visi più conosciuti dei palinsesti sportivi, Irene Saderini.
Perché proprio Irene? Perché, a mio modesto avviso, lei è (insieme a pochissimi altri come ad esempio Zoran Filicic) una giornalista che già oggi incarna lo spirito ed il modus operandi che, un giorno a venire, dovranno avere tutti i cronisti. O almeno coloro che avranno l’ambizione di diventare dei validi professionisti dell’informazione. Sportiva e non. No, queste peculiarità non è necessario elencarle. Guardateli lavorare e le individuerete da soli facilmente.
Irene Saderini nasce il 5 aprile di qualche anno fa a Bolzano. Raccontami chi era Irene, segno zodiacale Ariete, bambina ed adolescente.
Sono nata a Bolzano, anche se in realtà lì ho vissuto davvero poco tempo. Ho fatto l’asilo di lingua tedesca, poi i miei genitori hanno smesso di lavorare e ci siamo trasferiti sul lago di Garda, dove sono cresciuta. Irene da piccola era molto Heidi, nel senso che abitava in una casa in collina, con gli animali, vicino al lago, circondata da sentieri e tratturi. Non esistevano i telefonini; fortunatamente sono ancora abbastanza giovane, ma nello stesso tempo sono anche abbastanza vecchietta da avere avuto un’infanzia felice, senza telefonini in tasca fino all’adolescenza!
Le scuole superiori le ho finite a fatica; praticavo lo sport a livello professionale e molto del mio tempo era dedicato all’attività sportiva. I miei genitori (mia mamma in particolare) non intendevano assolutamente rendermi la vita facile e non mi hanno consentito di frequentare una scuola privata, come facevano quasi tutti gli atleti. Conditio sine qua non per fare sport era frequentare con profitto la scuola pubblica. Se non passi gli esami di quinta superiore alla scuola pubblica, con lo sport smetti!
Io ero spesso in giro, studiavo a casa e poi i prof quando mi vedevano mi ammazzavano di interrogazioni. Alla fine posso dire che ha avuto ragione lei. Il mio italiano ed il mio latino li ho imparati al liceo, non certo all’università.
La mia adolescenza è fatta di tante cose, a cominciare dai motorini truccati, visto che abitavo in un posto praticamente irraggiungibile senza motorino, con salite del 15%, mulattiere e sterrati. Ho tanta nostalgia della mia adolescenza.
Il primo motorino, non scelto da me, ma scelto dal nonno (doveva essere il più lento possibile…) è stato un Aprilia Sonic 50… era noto per essere il motorino della Spice Girls.
Il primo motorino?
Nooo, non te lo dico, mi vergogno!!!!
Not possible, hai giurato di essere sincera al 100% su tutto, senza reticenze. Forza spara…
Te lo dico, però vorrei tanto mentire. Il primo motorino, non scelto da me, ma scelto dal nonno (doveva essere il più lento possibile…) è stato un Aprilia Sonic 50… era noto per essere il motorino delle Spice Girls. Il mio non era proprio di quell’edizione, ma io non lo dimenticherò mai, mi vergognavo tantissimo! Mamma mia quanto l’ho patita questa cosa; avevo il motorino delle Spice.
Per fortuna però, usando il motorino anche in inverno con le strade ghiacciate, il Sonic l’ho schiantato quasi subito. Una curvetta gelata e…via! Poi ne sono arrivati altri, un SH, una Aprilia SR e poi dando fondo a tutti i miei risparmi una Cagiva Mito 125, della quale andavo fierissima. Bianca, favolosa, la curavo come si cura un figlio. Bianca con la righina oro. Una moto fighissima.
Finite le superiori la giovane Irene si laurea ed inizia a scrivere. Parte con i primi pezzi sul giornalino locale? Ma nemmeno per sogno! Parte in quarta e scrive per il Sole 24 Ore, firma una copertina per Vogue e nei primi anni duemila la troviamo sul fronte di guerra afgano come corrispondente Ansa. Tante tappe del mestiere bruciate tutte insieme. Avevi mangiato un gatto vivo e non sapevi stare ferma?
Ah si, la copertina di Vogue. Era una copertina sul punk. In quel periodo diverse case di moda, un po’ rockettare e rockeggianti, stavano tirando fuori di nuovo nelle loro sfilate un po’ di borchie, un po’ di pelle. Mi chiesero di scrivere qualcosa, io collaboravo per due patatine. Ero al settimo cielo. Ero alle prime armi e scrissi un articolo molto più lungo di quello che mi era stato chiesto. Ma mi piaceva così tanto che non riuscivo a fare tagli (ero già egoriferita allora) ed allora l’ho mandato al giornale così come era. Pensai, lo cestineranno. Invece mi è tornato indietro pieno di segni rossi, ma i segni rossi non erano tagli o modifiche. Erano domande; mi chiedevano chiarimenti, volevano essere certi di cosa avessi voluto dire. Alla fine, toccate due virgole, si è rivelato l’articolo che teneva in piedi la copertina di Vogue.
Comunque un pochino di gavetta l’ho fatta anch’io. Scrivevo di vela, facevo prove tecniche, scrivevo anche di moda (all’università ho studiato Economia della Moda e mi era piaciuta), insomma cercavo di seguire le mie passioni e di guadagnare qualche soldino. Scrivere per Condè Nast mi sembrava un sogno, anche se pagavano al pezzo e pagavano davvero pochino. Non ci vivevi scrivendo.
I miei non erano proprio contenti di vedermi intraprendere la carriera di giornalista, anche perché non la capivano nemmeno a fondo. Io ero a Milano senza il loro consenso (per me si poteva partire solo da Milano o da Roma, ed io ho scelto Milano), dovevo pagarmi la stanza dove alloggiavo, dal lunedì al venerdì studiavo, nel week end lavoravo ed avevo qualche collaborazione.
Finiti gli studi ho iniziato ad avere bisogno di un vero stipendio per potere vivere. Tu sei un collega e non devo dirti nulla, la musica la conosci. Per cinque o sei anni non dico di avere mangiato pane e cipolla, però facevo magari due lavori e la sera non mi passava nemmeno per la testa di fermarmi da qualche parte a fare l’aperitivo.
La gavetta l’ho fatta anch’io.
Torneresti su uno scenario di guerra? Prova a raccontare ai tanti adolescenti che ci leggono (e che pensano che sia un gioco da PS4) cosa è veramente la sofferenza di un conflitto.
Ci tornerei? Si, anche domani. Io ho smesso di fare l’inviato perché non c’erano più le giuste condizioni per farlo. Sino a quando collaboravo con ANSA e La Repubblica (talvolta anche con HBO e Al Jazeera) era una cosa fattibile. Successivamente non lo è stato più. Hai toccato un tasto sensibile. Io ho un format nel cassetto, ci sto lavorando da due anni e ti dico che sarei davvero pronta a partire anche domattina.
Agli adolescenti cosa potrei dire. Diciamo che direi loro la stessa cosa che direi anche agli adulti. A volte, anche a tavola tra amici con una pizza davanti , sento frasi del tipo: lì ci sarebbe da buttarci qualcosa e farci un parcheggio… Io sto zitta, perché i luoghi di cui parlano li ho visti da vicino per anni, e zone rase al suolo come parcheggi ne ho viste tante, troppe.
Certe cose viste in televisione o raccontate sulle pagine di un giornale non sono proprio uguali a quelle che vedi con i tuoi occhi. Sentire un’esplosione vicino a te è un’esperienza tremenda. Vedere un bambino girare senza mamma e papà oppure vedere un bambino mutilato è un’esperienza che nessuno dovrebbe mai vivere.
Non voglio sembrarti disfattista, ma temo che non ci sia una risposta alla tua domanda, e lo dico con profondo dispiacere. Ci sono in giro tante campagne poco costruttive che io non riesco a comprendere. Quando vedi una persona che scappa da una zona di guerra, attaccandosi magari sotto un camion o imbarcandosi su un guscio di noce, penso che non ci si debba spaventare e tirare su barriere. Gli si dia un documento, lo si identifichi e lo si accolga. In extrema ratio è più agevole eventualmente espellere una persona giuridicamente riconosciuta piuttosto che un clandestino, se mai dovesse meritare un respingimento forzoso. Vedo molti giovani condividere atteggiamenti xenofobi e mi dispiace. Mi dispiace anche perché all’estero noi italiani iniziamo ad essere etichettati proprio come xenofobi.
Io rispetto tutte le opinioni, ma non rispetto l’ignoranza. Se mi trovo davanti un povero Cristo che sta scappando perché lo ammazzano, cosa faccio, lo respingo? Gli dico torna da dove arrivi, torna dove vogliono ucciderti, qui non c’è posto! Non scherziamo.
Fare tatuaggi vistosi come i miei, facendo il mio lavoro, era una sfida, ma era anche un modo per dire: io nella mia vita posso fare quello che voglio.
Quando da ragazzo ho fatto i mie primi tatuaggi a portarli eravamo davvero in pochi, ed eravamo guardati in modo assai poco benevolo. Il tattoo aveva un significato preciso. Oggi è quasi un accessorio di moda, come una borsa od un bracciale. I tuoi tatuaggi raccontano qualcosa oppure sono solo un abbellimento estetico?
Ah, i miei tatuaggi, che tanto fanno arrabbiare tutti i mie capi, dato che devo passare tante ore al trucco per coprirli ! Impiccio un po’ tutti con questa cosa dei tatuaggi, infatti mi infilano sempre una camicia a maniche lunghe per nasconderli. I tattoo li ho avuti fino da giovanissima, anche se erano molto nascosti ed avevano (ed hanno) significati profondi per me. Premetto che io so di essere una bastian contrario. Fare tatuaggi vistosi come i miei, facendo il mio lavoro, era una sfida, ma era anche un modo per dire: io nella mia vita posso fare quello che voglio.
Forse è un modo sciocco per affermare la mia indipendenza, in fondo impicciano anche me, dato che ci metto un’ora in più a fare il trucco ed a vestirmi. Però io mi sento bene così. E’ il modo di dire anche a me stessa… sono cazzi miei!
So che se ti dico BRAAAP tu non chiami la neuro ma mi capisci perfettamente ed al volo. Spiega ai nostri lettori di cosa stiamo parlando.
Il Braaap è quel suono unico ed inconfondibile che produce una moto da cross quando giri al massimo la manetta del gas e dai tutto. Il Braaap è un circolo segreto frequentato solo da persone di un certo tipo che si capiscono a fondo tra di loro.
Braaap vuole dire sentirsi in grado di aprire tutto, io di solito lo faccio in salita, e finita la salita c’è il salto. La sua impedenza ti prende e ti tocca nei punti giusti. Fatto una volta, come un salto, poi lo cerchi sempre. Braaap, salto… e ti dici: bello volare con la moto. Fino a quando poi ti fai male, allora ti fermi, poi ricominci pianino, poi ti fai una salitina, poi Braaap e riapri tutto di nuovo. Non vorrei esagerare, ma il Braaap è uno stile di vita.
Avranno capito tutti che sei una grandissima appassionata di tassellato.
Si! Adesso che sono un po’ più vecchia, dopo il motocross, mi sono data al trial. Mi faccio sempre male, ma… un po’ meno.
E’ tutta la vita che mi sento prima la più giovane, poi la più piccolina, la più leggerina, mentre io vorrei entrare a pieno titolo nella Grande Loggia Massonica del BRAAAP. Ma sono sempre la più scarsa! Ma al mio posto ora c’è lui, il mio grande e vero orgoglio. Mio nipote che corre nel Mondiale MX2 di motocross.
Io so chi è, lo conosco bene; dai diciamo a tutti il suo nome.
(Lei non lo sa, ma Irene arrossisce. Really proud).
Si chiama Niki Bertuzzi e corre su Ktm, Team Silver Action. Quest’anno farà il Mondiale ed io viaggio al settimo cielo. Io adoro quel mondo, vivere nel furgone, preparare le varie cose; io potrei fare quello tutta la vita, se mi dessero uno stipendio sarei con il team a vita.
Quando le mansioni che mi vengono proposte sono calibrate sul fatto che sono bionda e con gli occhi chiari, io litigo a mille.
Essere molto piacenti può rivelarsi un vantaggio per una corrispondente che appare in video, ma per una giornalista può rappresentare anche una tara non di poco conto. Quando il dito (gli occhi belli) indica la luna (il tuo pezzo giornalistico) lo stolto guarda il dito. Quali sono le regole di ingaggio che Irene Saderini ha stabilito nei confronti della propria bellezza?
Grazie per il complimento. Non è un argomento facile, anche se siamo quasi nel 2020. Non è facile affrontare questi temi. Purtroppo o per fortuna, io nella vita non ho mai un approccio morbido sulle cose. Su questo argomento poi non ne parliamo. A causa di quanto tu hai evidenziato ho perso alcune occasioni e non sono salita su taluni treni.
Nel mio mondo ci sono ancora dei pregiudizi. Avances non ne ho ricevute, sia in passato sia adesso. Però mi scontro spesso con l’opinione diffusa che se sei carina, non hai cervello. E quando le mansioni che mi vengono proposte sono calibrate sul fatto che sono bionda e con gli occhi chiari, io litigo a mille. Perché a volte il fatto che sono tredici anni che pago i contributi come giornalista professionista, non frega a nessuno.
C’è una cosa che mi rende molto orgogliosa. Le donne, anche quelle che non mi conoscono bene, le donne con la D maiuscola, mi capiscono al volo e sanno che che tipo di persona sono. Io uso molto i social e devo dire che circa il 70% dei messaggi che ricevo arrivano dalle donne, e sono dei bei messaggi.
Però nel tuo sito https://lasaderini.com hai creato una sezione denominata “Pagina Stalker”.
Si, si, certo…quella è per gli uomini! Grande sorriso (ndr)
Non ti chiedo quali sono i tuoi generi musicali e letterari preferiti. Dimmi invece quali sono quelli che detesti.
Riguardo la musica mi sento fortunata, perché da adolescente pazzoide ho vissuto tante fasi musicali. Ho avuto il momento punkettoso, il momento ska (One Step Beyond- Madness . ndr), poi il momento rock. Al liceo portavo gli anfibi e mi picchiavano tutti i giorni. Mio papà suona e mi ha tramesso il piacere del sentire un’orchestra o una jazz session. Mia mamma mi ha cresciuta cantandomi le canzoni degli anni ’50 e ’60.
Svicoli dalla domanda. Non voglio sapere cosa ti piace. Dimmi cosa detesti.
Musicalmente parlando non detesto nulla. Se guardi nel mio iTunes trovi ventimila playlist con dentro le cose più strane. Io potrei ascoltare un’ora di musica house e domani andare a sentire del buon jazz. Ecco, aspetta. Io odio la trap italiana, non la sopporto. Tutto il resto mi va bene.
Tra i generi letterari forse il poliziesco, ma forse no, visto che da giovane ho letto tanto di Carlotto. Ecco, la fantascienza non mi piace. Ma forse perché sono una persona noiosa di mio, una di quelle che si ammazza di documentari francesi, quelli che non guarda nessuno, manco chi li ha fatti. Con la fantascienza gna posso fa!
Ti trovi più a tuo agio con le mani serrate ad un manubrio o ad un volante?
Ah manubrio, tutta la vita. Io non ho bisogno dei pedali.
Mi fa piacere quando amici, colleghi, piloti e pilotini mi dicono: però vai forte in macchina. Io sospetto che in realtà vogliano dire : vai forte in macchina per essere una donna. Magari rimanendo stupiti dal fatto che so ingranare una retro.
Io sono da moto. A volte quando faccio trial, in particolare in inverno, giro tutta imbacuccata, con i capelli raccolti dentro al casco e gli altri piloti mi prendono per un ragazzino. Li supero e vado magari più forte di loro, e quando in cima mi tolgo il casco e si accorgono che sono una donna… devi vedere che faccia fanno.
Cosa è per te l’adrenalina?
Una droga. A trentatré anni ho capito di non poterne fare a meno, se non ogni tanto.
La trovo ovunque. Nell’elicottero che si alza a Kabul per andare verso il Pakistan, la trovo nel trial quando faccio un salto, la trovo quando si accende la luce rossa e sono in onda. Ormai sono in tv da un po’, ma quando si accende la luce rossa dell’on air io percepisco il vuoto d’aria come in aereo e mi salta mezzo atto respiratorio. Ci si rimette in pari con una scossetta di adrenalina.
Quando sei diventata milanista?
Da buona bastian contrario sono diventata milanista per andare contro mia mamma, interista. Seguo il calcio con sano disinteresse, anche se le poche volte che sono andata a San Siro (ospite del Milan) mi sono emozionata molto. Non sono una tifosa accanita.
Venti anni fa i giornali erano solo di carta, più o meno patinata. Poi sono diventi web magazines. Oggi sono sempre più social papers. Cosa intravedi nel futuro della nostra professione. Come sarà il cliché del giornalista del 2030?
E’ una vita che sento che i quotidiani cartacei devono chiudere, ma grazie al cielo non hanno ancora chiuso. Io sono una nostalgica della carta. Quando scrivo qualcosa, anche se poi mi mandano il pdf del pubblicato, io vado a comprami il giornale in edicola per il piacere di sfogliarlo, trovare il mio pezzo e rileggermelo. Narcisisticamente il mio momento più felice è stato quando lavoravo a Repubblica, perché potevo andare tutti i giorni a comprare il giornale e leggere il mio articolo. Colazione di un’ora, caffè e giornale. Bellissimo.
Ciò nonostante vivendo in un’epoca digitale, sono mio malgrado una grande fruitrice dei digital papers. Mi rendo conto che potere leggere il quotidiano sull’ipad semplifica la vita anche a me. In passato non potevo andare su un sito come quello de Linkiesta; oggi se cerco un’analisi ben fatta su un certo argomento o sulla politica vado lì. E non per fare piaggeria, è così.
Come vedo il 2030? I quotidiani per fortuna continueranno ad esistere, anche se probabilmente saranno un po’ meno prime time e saranno più orientati all’analisi. Mi auguro che tutta la parte digitale del mondo dell’informazione si impegni per essere meno autoreferenziale e spero che le grandi firme da prima pagina si adattino a scrivere anche in digitale. Ora questo non accade, c’è una forte resistenza. Bisogna solo capire che il digital ti consente di raggiungere un numero di lettori più elevato, almeno il triplo. Ci sono giornalisti old style (io darei un braccio per sapere scrivere come loro) che potrebbero scrivere anche in digitale, e sarebbe una vera figata.
Il 4 marzo ho fatto molta fatica a votare. Come altre volte, sono comunque andata ai seggi, perché così mi è stato insegnato a fare.
Irene e la politica.
Il 4 marzo ho fatto molta fatica a votare. Come altre volte, sono comunque andata ai seggi, perché così mi è stato insegnato a fare. Mi ha fatto molto piacere vedere che la gente è tornata alle urne, in particolare i giovani. Il 76% di affluenza ai seggi è un ottimo segnale, sia per la mia generazione sia per la generazione dei ventenni. Non era scontato che questi ultimi si prendessero la briga di utilizzare la propria tessera elettorale. Io provengo da una famiglia dove si è sempre parlato di politica, a tavola a pranzo era un tema di discussione frequente. La politica di cui parlavano i miei non era la mia. Avendo avuto la fortuna ed il privilegio di essere vissuta anche all’estero, in diversi Paesi, mi sono resa conto che la politica in Italia è vissuta in un modo decisamente migliorabile. Troppi politici, in America quarantasei Stati sono governati da un numero di parlamentari che è la metà del nostro. Ma forse il loro numero è il minore dei problemi, è la qualità quella che manca. In passato qualche volta ho pensato di occuparmi di politica, ma poi ho capito che sarebbe stato difficile potere esprimere compiutamente le mie idee ed ho abbandonato quel proposito.
Rischio di più se vengo con te in barca a vela o se ti seguo con una tavola da snowboard?
Con la tavola da snow rischi, potresti finire contro un albero. Sulla barca a vela, non rischi, me la cavo abbastanza bene.
Esiste ancora lo sport oppure ci troviamo immersi in uno show business che ha come oggetto la prestazione sportiva?
Senza dubbio ci troviamo in uno showbiz che ha perso la trebisonda sulla dimensione sportiva; per nostra fortuna ci sono ancora giovani talenti che vivono di sport. Dobbiamo ringraziare loro, che ancora ci credono e vivono nello sport e per lo sport. E’ per loro che noi ancora ci appassioniamo e ci esaltiamo. Se fosse per il sistema, sarebbe tutto solo un enorme showbiz.
Non si smette mai di essere un cronista. Lo si è h24, sette giorni su sette. E’ uno stile di vita, non un semplice mestiere. Non puoi smettere.
La tua più grande soddisfazione professionale ed il tuo rimpianto professionale più profondo.
La mia più grande soddisfazione? Avere firmato dei pezzi su Siria ed Afghanistan su un quotidiano prestigioso come La Repubblica ed anche esserci stata in una giornata topica come il finale del Mondiale di MotoGp del 2015, con l’affaire Valentino Rossi che partiva ultimo a Valencia. Una domenica speciale che ti fa capire quanto sono fortunata a fare il mestiere che faccio.
Rammarichi ne ho diversi, ci sono molte parentesi e molti asterischi nella mia carriera. Un po’ come tutti. Il mio rammarico più grande riguarda una delle due attività professionali praticate in vita mia.
Il grande rammarico è quello di non avere continuato le selezioni per le Olimpiadi in barca a vela di Atene 2004. Ero giovane, molto giovane, era una bella carriera anche quella, anche se forse non sarei arrivata al top della specialità. Ma il rammarico per non averci provato è grande. Ogni volta che vedo una barca a vela ci ripenso.
Irene Saderini mollerebbe il giornalismo per…
Per niente al mondo. Ma se sono qui che vorrei ripartire per la Siria domani! Io sono abbastanza vecchia da credere genuinamente e con entusiasmo nel giornalismo. In tutto ciò che faccio (che sia la MotoGp o la SuperBike o nel raccontare un conflitto) io metto in campo tutta la mia serietà professionale. Anche il semplice racconto di una gara di moto richiede una professionalità assoluta; su quelle moto ci sono atleti che rischiano la propria vita e tutto ciò che ruota intorno a loro pretende un’attenzione ed un rispetto professionale al top.
Smettere, no. Per un figlio? No, potrei diventare mamma, ma rimarrei sempre e comunque una giornalista. Il giornalista non è un lavoratore come un altro. Non si smette mai di essere un cronista. Lo si è h24, sette giorni su sette. E’ uno stile di vita, non un semplice mestiere. Non puoi smettere.
Mandiamo un saluto ad un amico comune… Ehi Zoran Filicic, senti cosa ti dice Irene: “…..”
Ehi Zoran: “Rumble Tumble, bed and breakfast …” . E’ il grido di battaglia di Zoran, il suo avvio di telecronaca, lanciato con la sua voce tonante. Quando io magari sono ancora in fase di preparazione e sento il suo Rumble Tumble significa che siamo in gioco. Si parte..ci siamo, siamo in onda!
Grazie Irene, buon lavoro e buona vita.