C’era una volta… (sembra di parlare di un’era geologica fa, ma in realtà sono trascorsi solo pochi anni) un mondo dello sport nel quale gli atleti professionisti o “di belle speranze” erano affiancati da una figura “professionale” dalle caratteristiche incerte.
Erano i cosiddetti procuratori. Un po’ talent scouts, un po’ tuttofare, principalmente si occupavano di procurare un contratto al proprio assistito. Evitati come la peste nera del Manzoni in determinati ambienti sportivi, in altri invece si sono talmente radicati da mettere a volte in scacco il sistema. Se dico ad esempio calcio o pugilato – non pensando solo all’Italia – credo di non dovere aggiungere nulla… chi ha orecchie per intendere, intenda.
Ma il mondo dello sport si evolve come la società nella quale vive. Ed anche questa figura è stata affiancata (e spesso sostituita) da una professionalità nuova: il manager sportivo. Quando vedete una sciatrice di fama alzare una medaglia d’oro, oppure una schermitrice piangere sul gradino più alto del podio mentre suona l’inno di Mameli alle Olimpiadi, sappiate che dietro a questi successi esiste il lavoro altamente professionale di uomini e donne che hanno contribuito alla vittoria.
Questi manager gestiscono l’immagine dell’atleta, individuano gli sponsor più idonei ed affini alla personalità del proprio rappresentato, curano i contatti con i media, indirizzano la nave del proprio assistito nel mare magnum del mondo social.
Danno pertanto il tempo al campione di fare quello per cui tutti noi lo apprezziamo… allenarsi, gareggiare, e quando possibile, vincere. Senza di loro il mondo moderno dello sport, semplicemente, franerebbe. Ho voluto parlare con tre manager sportivi (tra i tanti che conosco) del loro lavoro. So chi sono, li conosco, li stimo e di loro mi fido. Tutto qui.
Andrea Vidotti, 53 anni, veneziano ma trevigiano di adozione, due figli (Lorenzo e Beatrice).
Manager sportivo, comunicatore e sognatore. Una passione smisurata per il mondo dello sport.
Ha cominciato a lavorare con Alberto Tomba per arrivare oggi, dopo vent’anni di carriera, a Sofia Goggia.
Enrico Gelfi, socio fondatore e presidente di EIS, agenzia di management sportivo. Laureato in Filosofia con 110/110. Co fondatore e CEO di Sport Digital House.
Dice di se stesso: “ho sempre rincorso le novità, giocato con il rischio, saltato gli ostacoli. Insomma mi sono sempre occupato di sport! Prima con la divisa da comunicatore e poi con quella da manager.
Negli anni mi sono confrontato con innumerevoli soggetti privati e pubblici operanti nello sport ed ho collaborato con le realtà sportive più importanti d’Italia”.
Luigi Caputo, Co-Founder di Sport Digital House. Giornalista (Master’s Degree Journalism 110/110 Università Statale di Milano) – ha lavorato per il Corriere della Sera ed è stato Country Project Manager per The Coca Cola Company.
Dunque, voi sareste i cosiddetti “procuratori”; strano… non trovo grandi affinità tra voi ed i manager più famigerati e conosciuti nelle cronache con nomignoli dissacranti tipo “il pizzaiolo”…
Enrico Gelfi – In realtà noi non esercitiamo l’attività di procura in senso tecnico. Per quella ci sono figure professionali (come il “pizzaiolo” appunto) che detengono il mandato a negoziare i diritti alle prestazioni sportive degli atleti. Il nostro lavoro inizia proprio quando finisce quello dei procuratori. Anche se il confine dall’esterno sembra labile, è invece molto marcato perché si tratta di due competenze e due mercati molto diversi: da un lato i club e gli organizzatori di manifestazioni sportivi, dall’altro gli sponsor, i media, glieventi pubblici e i social.
E, per quanto possa sembrare un errore non unire le forze, è un bene che ognuno si occupi di presidiare il proprio ambito senza interferenze in quello altrui, perché in questo modo l’atleta non rischia di confondersi su quali debbano essere le sue priorità: dentro il campo, la sana ossessione della prestazione, fuori la “desportivizzazione” della sua immagine pubblica. Le nostre due consulenze sono così alternative che a volte ignoro persino l’identità di chi segua gli interessi sportivi dei miei assistiti. È il perfetto caso di “convergenze parallele” di democristiana memoria…
Andrea Vidotti — Ho sempre auspicato che la mia attività professionale fosse basata su principi quali la correttezza, la professionalità, l’etica. Quando inizia un nuovo rapporto professionale con un atleta cerco sempre empatia, feeling, fiducia. Queste sono le basi per un rapporto di collaborazione equilibrato.
C’è molta condivisione nella gestione dell’immagine e quindi il rapporto umano è fondamentale. E poi è sicuramente una questione di carattere, non mi esalto per le vittorie, non mi deprimo per le sconfitte.
Vi propongo due possibili clienti, chiedendovi di sceglierne solo uno per avviare una collaborazione professionale che duri nel tempo. Il primo è fortissimo, un talento puro, ma è una persona molto discreta e schiva, poco comunicativa, non ha nemmeno un social attivo. Una sorta di Gustavo Thoeni dei nostri tempi. Il secondo profilo ci parla di un discreto atleta, alterno nei risultati, che a volte vince ed a volte si perde e giunge nelle retrovie. Ma brilla di luce propria, è carismatico, empatico e disinvolto in ogni ambiente in cui si trova. Chi scegliete?
Andrea Vidotti – Scelgo sicuramente il secondo, anche se meno vincente, ma con caratteristiche tali da poter costruire un personaggio. Ho lavorato con Gianmarco Pozzecco, lui era fantastico, perché aveva in sé tutte le caratteristiche per emergere come personaggio, e non era di certo un due metri da Nba.
L’identikit ideale è Alberto Tomba, vincente ai massimi livelli e grandissimo personaggio, il più grande in assoluto.
Enrico Gelfi – Rispondo in modo diretto: senza dubbio il secondo! E non lo dico (solo) perché il modello di atleta è più predisposto ad attirare sponsor e quindi a (farci) guadagnare di più. E nemmeno perché sono convinto che l’atleta moderno sia in realtà una “media company” con significativi oneri nei confronti del suo pubblico.
Lo sostengo per il rispetto che provo per i sacrifici che gli atleti devono compiere quotidianamente. È vero che si passa alla storia per le imprese e i risultati, ma è anche vero che per farlo, spesso si paga un prezzo carissimo: si annulla la propria vita sociale e sentimentale. Senza contare che, finita la carriera, i riflettori si spengono e si finisce rapidamente nel dimenticatoio. Magari senza nemmeno le risorse sufficienti a vivere dignitosamente una pensione che per molti inizia a soli 30 anni. Questo è un rischio che l’atleta con grandi capacità comunicative invece non corre perché sa sostenere le pressioni della propria professione con leggerezza, trova le energie necessarie per dedicarsi anche ad altro e, così facendo, si garantisce opportunità di ricavi anche dopo la carriera.
Cosa avete scritto sulla carta di identità accanto allo spazio: professione?
Luigi Caputo & Enrico Gelfi – A questa rispondiamo in coro: “studente”, perché non si finisce mai di imparare…
Andrea Vidotti – Consulente di Comunicazione e Marketing.
Cosa può fare un manager che un atleta non potrebbe fare per conto proprio o con l’aiuto di amici e parenti?
Andrea Vidotti – L’atleta è molto impegnato in allenamenti e gare. Prendete per esempio Sofia Goggia, gareggia in 4 specialità. E’ sempre focalizzata sulla sua preparazione e ha poco tempo per gestire l’extra-sci.
Io penso che da un lato sia positivo che un parente o un genitore possa fare da manager per via della fiducia, però spesso è troppo coinvolto emotivamente per prendere delle decisioni importanti. Un padre per esempio tenderebbe a ragionare di cuore per una figlia.
Luigi Caputo – Considerare la comunicazione, soprattutto social, un’attività da affidare al “cugino” di turno è uno degli errori più gravi che un atleta possa fare oggi. Lo dimostra il caso di Cristiano Ronaldo: solo dalla parte social e comunicazione digital genera introiti milionari. Cosa significa questo? Che gli atleti oggi sono dei brand al pari delle aziende: attirano persone che si sentono legate ai valori che esprimono e questa relazione viscerale si palesa tramite i social. Non occorre essere Cristiano Ronaldo o Federica Pellegrini per attivare queste dinamiche.
Attraverso strategie di storytelling e digital gestiste da professionisti, anche atleti di sport che si considerano minori possono monetizzare e creare rendite economiche indipendenti dai risultati sportivi. Ogni giorno entriamo in contatto con atleti che vorrebbero collaborare con aziende, ma non capiscono che hanno bisogno di elevarsi a livello social. Molti di questi quindi preferiscono non investire nel proprio personal brand perché lo considerano ancora come un qualcosa di aggiuntivo rispetto alla loro attività. Questi sono gli atleti del vecchio mondo. Oggi chi non si dota di un team di professionisti sulla comunicazione social resta indietro non solo a livello di immagine, ma soprattutto di entrate economiche.
“Io sono la star. Tu mi trovi i contratti da firmare ed io mi gestisco la mia immagine da sola/o”. Fattibile o utopico?
Enrico Gelfi – Ti rispondo deponendo per un attimo la diplomazia: il fatto che l’atleta gestisca da solo la propria immagine non è né fattibile, né utopico, è semplicemente folle…
Se è vero, come ho già avuto modo di dire, che l’atleta moderno deve accettare il suo ruolo di comunicatore, è anche vero che per esprimerlo al meglio deve completare quelle skill che Madre Natura non gli ha fornito: da un lato la conoscenza dei modelli di comunicazione, funzionali a definire la strategia di comunicazione cui attenersi, dall’altro il tempo, necessario ad attivare le iniziative da svolgere. Inoltre, i risultati, quelli che hai definito “i contratti da firmare”, non possono arrivare se manca la sinergia tra la strategia commerciale (che, nella tua provocazione dovrebbe essere appannaggio del manager) e quella di marketing e comunicazione (lasciata in mano all’atleta). Ispirandosi allo sport, anche in questo lavoro ci si deve affidare al gioco di squadra.
Andrea Vidotti – Utopico a mio modo di vedere, per quello che dicevo sopra. La parte tecnica-agonistica è quasi totalizzante. L’atleta ha pochissimo tempo per poter gestire la parte di management. Per un atleta di alto livello è praticamente impossibile fare il manager di se stesso.
Se penso a quante ore al giorno passo al telefono, un atleta non ne avrebbe materialmente il tempo.
Funnel marketing. Se ne sente tanto parlare ma di cosa si tratti realmente pochi ne hanno conoscenza. Un’altra americanata oppure una tecnica di marketing degna di attenzione?
Andrea Vidotti – Con l’esplosione dei Social, il Funnel Marketing ha preso sempre più piede.
E’ molto importante per una azienda puntare su un cliente fedele, pronto ad acquistare e a diventare un ambassador del suo brand. Un cliente entusiasta, felice di aver scelto il suo prodotto o servizio.
Luigi Caputo – Tutte le innovazioni in termini di marketing partono quasi sempre dagli Stati Uniti, e questo è un dato di fatto. Anche il funnel marketing è un approccio che in America è già una realtà consolidata. In Italia sta prendendo piede e Sport Digital House è la prima agenzia digital ad applicarlo nel mondo dello sport. In cosa consiste? In sintesi il funnel marketing lavora sulle mancanze del digital marketing tradizionale. Oggi il digital marketing è inteso come aumentare la notorietà del marchio (like, commenti, follower). Il problema è che le persone che vengono a conoscenza di un brand o un’azienda non necessariamente diventano loro clienti. Oggi quindi si spendono budget milionari su quello che chiamiamo “marketing della speranza”: faccio in modo che quante più persone mi conoscano e poi spero che in qualche modo acquistino i miei prodotti…
Il funnel marketing è la risposta a questo problema. Le strategie che applichiamo hanno come obiettivo quello di aumentare i ricavi, non i like. Attraverso il nostro metodo, una persona che viene a conoscenza del brand entra in un percorso in cui pianifichiamo i passi da fargli compiere per portarlo all’acquisto. Questo percorso è basato sullo scambio di valore. Con Sport Digital House rivoluzioniamo il paradigma del marketing: il brand non cerca di vendere subito i suoi prodotti, ma si fa trovare pronto quando l’utente è pronto ad acquistare. Questo metodo non vale solo per le aziende. Nella nostra agenzia lo applichiamo anche sugli atleti, in modo che possano monetizzare la relazione che hanno con i loro follower proponendo le loro competenze sportive. In sostanza rendiamo l’atleta un’azienda vera e propria.
Comunicatore e manager si nasce o lo si diventa? E’ indispensabile avere una innata qualificazione personale oppure si può studiare e diventare un serio professionista indipendentemente dalla propria forma mentis?
Enrico Gelfi – Dal mio punto di vista Comunicatore e Manager si diventa. Certamente ci sono predisposizioni naturali che aiutano, come la facilità di relazionarsi, di usare la logica e di organizzarsi (nonché di avere pazienza…), ma si può sopperire a queste mancanze se ci si forma bene e si imparano metodi di lavoro efficaci. Per fortuna in Italia abbiamo ottimi Master Universitari che favoriscono l’acquisizione di queste competenze. Per citarne uno su tutti, il Master Sport di S. Marino – Parma da anni si colloca nella top3 dei migliori corsi post-laurea a livello internazionale per soddisfazione degli ex-studenti.
Altro assist importante lo fornisce la pratica sportiva: se ci si allena con regolarità in una disciplina e si partecipa alle competizioni, anche se a livello dilettantistico, si comprendono meglio le dinamiche psicologiche che gli atleti vivono costantemente. Da qui, per empatia, si comprende meglio come porsi nei loro confronti. Dopodiché il resto lo fa, come sempre, l’esperienza.
Andrea Vidotti – Quando mi sono laureato in Economia e Commercio la mia strada era segnata. Sarei dovuto finire nello Studio di Commercialista di mio padre. Ma non ci sono mai arrivato per la mia grande passione per il mondo dello sport.
Secondo me manager si nasce, non si diventa, devi avere una predisposizione naturale. E’ un lavoro basato sulle relazioni per cui devi essere tagliato. La parola chiave per me è sempre stata la PASSIONE, io mi ritengo fortunato per aver trasformato in lavoro una mia grande passione. Non mi pesa lavorare anche di sabato e di domenica, non avere orari, essere spesso in giro e poco a casa.
Oggigiorno si può comunque studiare per diventare manager sportivo, ci sono degli ottimi Master post-universitari in Sport Marketing Management che ti formano e ti permettono poi di inserirti nel mondo delle aziende dello sport, delle federazioni, delle società sportive, dei media. Sono docente in parecchi di questi Master e la mia più grande soddisfazione è poi ritrovare i miei ex allievi nelle aziende con cui mi trovo ad operare.
Nelle località turistiche più affermate ed in tendenza le vecchie Pro Loco si avviano a chiudere bottega. Vengono piano piano sostituite dai professionisti della comunicazione come voi. Partendo dall’assunto che non è possibile che conosciate ogni luogo come se vi foste nati e cresciuti, immagino che applichiate un format. Rivelatemi qualche trucco del mestiere.
Andrea Vidotti – Sto lavorando da 4 anni con Apt Livigno su un progetto di marketing turistico che utilizza lo sport come canale di attrazione turistica. Utilizziamo gli atleti come Ambassador della località nel mondo.
Penso che non servano grandi disponibilità, ma siano invece necessarie le idee. Bisogna “fare squadra” tra professionisti con competenze diverse per attuare la strategia pianificata.
Enrico Gelfi – In base alla mia esperienza non esiste un trucco per sapersi proporre in maniera credibile come consulenti di contesti differenti. Dopo due- tre volte che, da semplice collaboratore, lavori all’interno di una struttura che opera negli eventi sportivi, comprendi che, al di là di alcune specificità dettate dallo sport scelto, le dinamiche necessarie a gestire la macchina organizzativa sono sempre le stesse.
A quel punto, quando tocca a te dirigere le operazioni, non fai altro che applicare il metodo imparato con l’esperienza e vissuto dall’interno: si parte dall’analisi dei punti di forza/debolezza e delle minacce/opportunità dell’evento in questione (che in gergo tecnico si definisce “Analisi SWOT”), si stabilisce un piano di marketing che sappia esprimere il senso dell’evento (quello che sempre in tecnicese si chiama “mission”), da qui si sviluppano da un lato il piano di comunicazione e dall’altro il piano economico (il cosiddetto “budget plan”) e infine si organizza il team di lavoro in base alle aree di intervento necessarie. Quelli che sono chiamati a lavorare soprattutto nei mesi che precedono l’evento (come la ricerca di sponsor), durante i giorni di svolgimento si possono dedicare ad operazioni a scarsa responsabilità (come il coordinamento dei partecipanti), viceversa chi da subito gestiva una serie di attività strategiche (come la gestione della logistica), dopo dovrà governare una vera e propria squadra.
L’atleta con cui maggiormente avete creato un feeling vincente e quello con cui vi siete trovati a pensare “ora lo strozzo”.
Luigi Caputo – Con Sport Digital House abbiamo la fortuna di lavorare con atleti che sono sulla nostra stessa lunghezza d’onda. Sono sportivi che capiscono l’importanza di essere vincenti anche a livello social e quindi con tutti si è creato un feeling stupendo. Nel nostro team lavoriamo solo con questo tipo di atleti, non con quelli che ancora non capiscono quanto lo sport si sia evoluto. In questo modo si è sempre allineati.
Andrea Vidotti – Ho un carattere che mi permette di andare d’accordo con le diverse tipologie di atleti. Gli atleti con cui ho lavorato mi sono sempre rimasti nel cuore. Anche quando le visioni sono differenti, perché con il dialogo e il buon senso ho sempre risolto i vari problemi.
Business is business & pecunia non olet. Oppure ci sono nella vostra professione dei paletti etici e morali oltre ai quali non volete e potete andare? Tutto si può gestire e rappresentare al giusto prezzo oppure ci sono momenti in cui siete determinati a dire: no, per nulla al mondo no…?
Andrea Vidotti – Non ho mai messo i soldi al primo posto nel mio lavoro, chiaro che sono importanti, ma non è la mia priorità. Sono felice e realizzato quando un mio atleta vince, quando emergono i suoi valori o quando ha una buona immagine.
Ed è una soddisfazione quando un atleta giovane mi cerca perché lo segua dopo che ha visto il mio lavoro fatto con altri campioni.
Luigi Caputo – Quando si attivano collaborazioni tra atleti e aziende si lambisce sempre il confine tra sponsorizzazione e naturalezza dei contenuti. La differenza tra le agenzie che lavorano bene e quelle poco professionali sta proprio in questo: proporre ai propri clienti solo collaborazioni di vero valore e che si inseriscono naturalmente nella narrazione dell’atleta. In Sport Digital House proponiamo solo collaborazioni con prodotti e servizi che davvero si sposano con il racconto dell’atleta, evitiamo quelle che palesemente sono incoerenti con la loro attività.
In questo modo i nostri atleti diventano davvero i primi consumatori dei prodotti che mostrano, rendendo genuino e autentico il rapporto di collaborazione. Questo è il vero valore aggiunto che si può dare non solo alle aziende con cui collaborano, ma soprattutto ai loro follower, perché in questo modo entrano nel vivo della loro routine.
Enrico la tua società EIS gestisce anche l’immagine di alcuni atleti paralimpici. Non mi meraviglio (ricordo anche con molto piacere le tue rubriche su Famiglia Cristiana). Rispetto al cliché dell’uomo forte al comando, che certamente è idoneo a produrre reddito, questa scelta è abbastanza controcorrente. Perchè anche loro?
Questa domanda mi piace molto, perché mi permette di spiegare che per porsi sul mercato con credibilità, “loro” non abbiano nulla di meno degli “altri”, gli “uomini forti”. Anzi, le loro storie personali li arricchiscono di contenuti valoriali che trovano pochi emuli nei contesti cosiddetti “normali”. E il tema del “valore” è determinante perché è considerato uno dei driver del marketing sportivo e, di conseguenza, di chi investe in sponsorizzazioni.
Semmai il vero limite per questi ragazzi sta nell’inferiore visibilità mediatica e nella limitata forza comunicativa endogena. Però anche su questo fronte non mancano le buone notizie: dalle Olimpiadi di Londra questo gap si sta rapidamente colmando e si stanno imponendo sulla scena sempre più fuoriclassi paralimpici: Alex Zanardi, Bebe Vio, Giusy Versace, Oney Tapia e molti altri. Anche la nostra Giulia Ghiretti sta lavorando per accreditarsi come personaggio nazionale (mentre è già un’icona nella sua città, dove ha più consenso del Sindaco…). È chiaro che per favorirne la crescita, tramite gli sforzi congiunti di EIS e di Sport Digital House, sta investendo sia nella presenza sui media (TV, radio e riviste soprattutto), sia nella presenza sui social (Instagram in testa).
Andrea, tu che sei un “milanista di provata fede”, cosa hai provato a collaborare con Alex Del Piero?
E’ stata una esperienza professionale e umana incredibile. Alessandro è una persona speciale, con un carisma unico, un professionista con la P maiuscola, coinvolge le persone che lavorano con lui in maniera totalizzante.
Lavorando con lui riesci a capire perché è così amato in tutto il mondo, anche dai non-juventini.
Ps: io sono juventino…
Luigi, master’s degree in giornalismo 110/110; importanti esperienze al Corriere e a Sky Sport, manager di brand di caratura mondiale; Sport Digital House è una tappa oppure un traguardo?
Sport Digital House è la realizzazione di un mio percorso umano prima che professionale. Le mie esperienze in aziende mi hanno fatto capire che la mia strada non era dipendere da qualcuno, ma creare e sviluppare un mio progetto. L’ho capito lavorando in queste grandi realtà e acquisendo le competenze e l’esperienza che poi mi hanno permesso di mettermi in proprio. Quindi Sport Digital House non è un traguardo, ma l’inizio della vita che ho sempre desiderato.
Guardate in un lontano futuro. Siete affermati, famosi, ricchissimi… ed in pensione. Senza che nessuno vi possa riconoscere, quale sport andate a vedere?
Andrea Vidotti – Il Biathlon, l’Hockey su Ghiaccio, la MotoGp, il Padel. Ma in generale tutti gli sport, per me il massimo è durante le Olimpiadi, perché ho la possibilità di guardare ogni tipo di sport.
Luigi Caputo – Sono sempre stato affascinato dal basket e in particolare dall’NBA, quindi mi immagino comodamente seduto su una poltroncina di prima fila del Madison Square Garden mentre mangio popcorn.
Il confronto tra il CONI ed il Governo attuale è abbastanza ruvido. Il tema del contendere sono i fondi che sino ad oggi sono stati gestiti dal Coni e che il Governo vorrebbe passare ad amministrare direttamente. A vostro ben vedere, i pro ed i contro, se ve ne sono.
Enrico Gelfi – Devo ammettere che allo stato attuale è difficile prevedere quale sarà lo scenario definitivo del governo dello sport italiano del futuro. Da osservatore esterno ma interessato vedo motivazioni valide per sostenere entrambe le posizioni: da un lato chi vuole più “controllo” da parte dello stato e dall’altro chi vorrebbe più autodeterminazione. Essendo ancora nel pieno della transizione, che, per definizione, è una fase di passaggio, instabile e fluida, non posso esprimere un giudizio serio.
Vice versa posso fare un auspicio, che credo condividano tutti quelli che hanno a cuore il nostro mondo, ossia che si riesca a costruire un modello di gestione sinergica, capace di mettere davvero a sistema le energie di tutti i soggetti coinvolti e, nel contempo, di assecondare le istanze provenienti da tutte le direzioni, soprattutto quelle più deboli.
Andrea Vidotti – Ho seguito la querelle e sinceramente preferivo l’autonomia del CONI nel seguire il mondo dello sport.
Ammiro molto il Presidente Malagò perché è dalla parte degli atleti, li ascolta, li aiuta.
L’atleta più desiderato che non siete riusciti a convincere e per il quale (o la quale) fareste una follia.
Enrico Gelfi – Mi autorizzi a rispondere con il cuore anziché con la testa? Sono romanista e tottiano, quindi non posso che pensare al Capitano… Per lui sarei davvero pronto a fare qualunque follia! Ancora oggi che non calca più i campi d’Europa è tra gli sportivi più noti e apprezzati a livello internazionale. Ha un carisma e una capacità comunicativa innati che lo pongono al di sopra della maggior parte degli sportivi italiani.
Il suo addio al calcio è stato uno degli eventi di maggior successo dello sport recente e il suo approdo sui social è stato da record: dopo solo una settimana dall’apertura della pagina Facebook aveva già 1.000.000 di Mi Piace. E poi… ha regalato l’ultima grande gioia a noi giallorossi, lo scudetto del 2001…
Andrea Vidotti – Se Cristiano Ronaldo mi chiedesse di lavorare per lui, non saprei dire di no. Scherzi a parte, mi sarebbe piaciuto lavorare con Mario Balotelli, perché penso che sia un personaggio con grandi potenzialità, purtroppo inespresse.
Mi piacerebbe lavorare con un calciatore, non l’ho mai fatto pur essendo Agente Fifa.
Il mercato più difficile da conquistare.
Andrea Vidotti – Quello cinese. Un mercato pazzesco, ma difficile da penetrare.
Ma forse ora con i Giochi Olimpici del 2022 qualche opportunità si aprirà.
Ci sto già lavorando e sarò in missione di lavoro in Cina a settembre.
Luigi Caputo – Tutti i mercati sono difficili da conquistare senza la conoscenza e le strategie giuste. Nessun mercato è difficile se si parte da una fase di studio profonda e professionale.
Esiste ancora lo sport oppure è tutto show business?
Luigi Caputo – Lo sport è sempre stato show, serve a intrattenere ed emozionare. Non ci vedo nulla di male se con il tempo è diventato una potente leva di business. Lo sport non perderà mai di autenticità finché ci saranno atleti con storie potenti.
Andrea Vidotti – Voglio sperare da ultimo dei romantici che lo sport vero esista ancora, che i soldi non riescano a condizionare le regole dello sport, mi auguro che ci sia sempre uno sport puro che metta la passione e i valori positivi al primo posto, ma se così non fosse almeno lasciatemi sognare.
Qualche ovvia e sia pur lieve differenza di visione su alcuni temi; ma molte, moltissime analogie. Questo significa che la professione del manager sportivo “moderno” è ormai da annoverare a pieno titolo tra i “mestieri del XXI secolo”.
Ora c’è solo da augurarsi che le “regole del gioco” reggano e che i nuovi professionisti che si affacciano sul mercato condividano sempre le caratteristiche etiche dei mie tre amici intervistati.
Andrea, Enrico, Luigi… buon lavoro e buona vita.