Il poeta del lago. Intervista a Davide Van De Sfroos – prima parte. Ipse Dixit

Il poeta del lago. Intervista a Davide Van De Sfroos – prima parte. Ipse Dixit

Intervista a cura di Claudio Scaccianoce (linkiesta.it) e Cristina Cappellini (assessore alle Culture, Identità ed Autonomie della Regione Lombardia).

Intervistare un personaggio poliedrico come Davide Van De Sfroos non è cosa semplice; per fortuna in mio aiuto è arrivata Cristina Cappellini, Assessore alla Cultura di Regione Lombardia (al suo debutto assoluto come giornalista) e soprattutto amica e grande conoscitrice del cantautore lombardo.

Chi è Davide Van De Sfroos? E’ molto complicato definirlo in poche parole. A dire il vero è complicato farlo anche usandone diecimila.

ho sempre cercato di portare a casa Davide e di lasciare sul palco Van De Sfroos

Cristina – Davide Van De Sfroos ha una bella famiglia, che ho avuto il piacere di conoscere; una moglie sempre molto vicina ed attenta e tre bellissimi figli. Quanto influisce la famiglia sulle tue scelte artistiche, sui tuoi progetti? Quante volte uno dei tuoi figli ti ha detto “questa canzone mi piace…quest’altra no”? 

Dunque, i bambini… per modo di dire, erano bambini ora hanno iniziato a crescere (due giocano a rugby ed una fa ginnastica artistica), cominciano ad avere le loro traiettorie e non sono più costantemente presenti ai concerti. Beh si, a San Siro sono venuti, però in altre occasioni iniziano ad avere di meglio da fare. Con mia moglie, ancora prima che nascessero i figli, ho sempre cercato di portare a casa Davide e di lasciare sul palco Van De Sfroos. E’ ovvio che poi le canzoni le scrivi a casa, le vivi a casa e che tutto nasce lì, però non sono mai stato quello che dopo una giornata in giro con il camion, entra con il camion in cucina. Cercavo di dire “sono stato via una settimana, ho cantato e suonato, ne ho anche le scatole piene, ho visto questo e quest’altro, ho visto cose belle eccetera eccetera”, però lasciavo fuori la parte strettamente professionale, la parte egocentrica. Non tornavo a casa recitando la scaletta dei pezzi suonati o facendo la statistica degli spettatori presenti. Un accenno alle cose più rilevanti e stop.

Il viaggiatore costante, quello che abitualmente vedi andare e tornare, mi ricorda molto mio padre. Lui era un camionista ed io ero molto piccolo, andava in Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, in periodi da pioniere. Tornava a casa con bandierine, copricapi, spade da torero… a me già pareva di leggere in queste cose un romanzo salgariano. Volevo sapere qualcosa di più e lui me lo raccontava, però… non cadeva mai nell’errore di raccontarmi di quanto traffico avesse trovato, di quante colonne avesse fatto, di quanto freddo avesse sofferto, di quanti chilometri si fosse caricato. E così anch’io non voglio congestionare il rapporto tra il mio lavoro e la mia famiglia. Ogni tanto arriva qualche domanda spontanea, non sono tante ma sono vere e sentite. Io non ho mai fatto a casa la lezioncina… il dialetto e bla bla… Ho lasciato che loro saccheggiassero la musica, partendo dal rock, ed adesso iniziano a fare domande anche sulla mia musica. Loro ascoltano musica molto lontana da quello che faccio, ma anch’io ascolto musica lontana, e mi va benissimo.

Mi piace quando tutto si sedimenta e qualcuno di loro mi chiede…ma quella canzone allora… e non avviene spesso. E proprio perché non avvengono spesso, questi momenti sono estremamente preziosi, come è giusto che sia.

No, purtroppo in alcuni casi non sono così tremendo… in alcuni casi avrei sognato di essere un pò più làghee. 

Claudio – A Milano ho un amico che dice di conoscerti un pochino. Sapendo che sarei venuto a trovarti mi ha detto… occhio che ha un bel caratterino, è un làghee. Nel 1998 Giorgio Bardaglio intervistò il prof. Gianfranco Miglio per il “Corriere di Como”. Miglio si raccontò così: “Non sono comasco pur essendo qui nato e vissuto. Io sono del lago e con la città c’è sempre stato una sorta di dualismo; non mi sono mai sentito interamente comasco. Io sono un làghee. Sapete cosa dicono dei làghee? Ghe scià un làghee, tri pass ìndree. Siamo tremendi. “ 

Sei tremendo come dicono?

No, purtroppo in alcuni casi non sono così tremendo… in alcuni casi avrei sognato di essere un pò più làghee. Non ho radici lariane, nel senso che sono nato a Monza. Però a tre anni ero già lì e penso di avere preso molto da questa zona; mia madre è del lago, mio padre era di Como (anche lui del lago alla fine, però non era considerato un làghee). Non sono nato in riva al lago ma sono cresciuto lì, ho cinquantadue anni ed un po’ di tempo lì ci sono stato.

Ho cercato sempre di mitigare la mia parte irruente, non sono riuscito e non ho voluto mitigare la mia parte emotiva, quella che è capace anche, purtroppo, di grandi cadute in quella tipica depressione che solo i làghee hanno (commozioni e silenzi). Non ho voluto tagliare la parte lunare e lunatica, non ho voluto tagliare la parte viscerale e dialettale, non solo in senso linguistico ma anche in senso esistenziale. Io sono della Tremezzina, il detto era ancora più feroce: tremezzen, trii parool e foe el fulcen – abbastanza traducibile “ tremezzino, tre parole e subito compare un falcetto”. Non fa più rima ma si capisce il senso. Un pochino come dire “sei di Mirabello, tre parole e subito fuori il coltello”.

I mie dubbi, le mie preoccupazioni, le mie gioie, la mia poetica derivano proprio dall’essermi immerso completamente in questo territorio, che è sia terra che acqua.

Deriva dall’abitudine che esisteva di portare sempre dietro una roncola, un potatoio, un falcetto in tasca; un attrezzo che poi ha preso proprio il nome di tremezzino, fatto con la mezzaluna forgiata in un certo modo particolare, qualcosa di molto tipico. Pensa che una volta, ai tempi dell’Imperial Regio Governo, esisteva una legge che proibiva di girare con questi attrezzi addosso il sabato e la domenica. Una copia di questo editto me l’hanno regalata quando mi sono sposato. Niente attrezzi che potessero ferire, perché ad ogni sbronza poteva venire fuori un disastro. Oggi il falcetto si usa ancora, ma purtroppo i problemi sono altri.

Il mio carattere lo si può dedurre dalle mie canzoni. I mie dubbi, le mie preoccupazioni, le mie gioie, la mia poetica derivano proprio dall’essermi immerso completamente in questo territorio, che è sia terra che acqua. Anche se non sono uno che sta tutto il giorno in barca o a fare il bagno, io il lago l’ho dentro, e credo di essere anche dentro ad un lago, metaforicamente parlando. Mi sento scorrere in continuazione su queste onde; sono onde a volte scomode, a volte malinconiche, come quando ti accorgi che ciò che hai vissuto da ragazzo, e che ti è stato riportato dai racconti e dalla tradizione, non è più attuale. Come quando vedi le attitudini dei giovani, il loro comportamento, le loro abitudini, quando vedi cambiare le costruzioni, l’ecologia, gli eco-mostri, quando vedi i nuovi mondi che arrivano ed eclissano quelli ci avevano fatto sognare e stare bene. Queste luci e queste ombre le ho ritrovate in tutta l’Italia, non è solo una cosa che riguarda il lago di Como. Il mio carattere non è tremendo, tende piuttosto a sprofondare in queste ombre ed in queste acque.

Ci chiedevano “ma da dove venite?” E quando dicevamo “Italia” non volevano crederci, anche perché poi abbiamo regalato un migliaio di dischi che ci eravamo portati da casa e tutti dicevano “non si è mai visto un italiano che regala dischi!!!”

Cristina – Davide Van De Sfroos è un simbolo della Lombardia e dei lombardi. Di una bella parte dei lombardi, senza barriere generazionali. A San Siro c’erano ragazzini, persone non più giovanissime, uomini e donne di tutte le età. Erano presenti anche alcuni miei amici provenienti da Lecce e dalla Sardegna, e sapevano tutte le tue canzoni a memoria. Questo fa ben sperare per il futuro. Pensi che tra cinquant’anni, nonostante la globalizzazione, il mondialismo e tutti i fenomeni che conosciamo bene, i giovani sapranno ancora apprezzare la Pulènta e galèna frègia 

Pulènta e galèna frègia – Polenta e gallina fredda. 1999. DVDS

Bella domanda. Sicuramente direi. Nel corso di questi anni, girando l’Italia, ho capito che uno che canta in dialetto lombardo viene ascoltato anche quando va lontano da casa. Si innesta anche il piacere di ascoltare qualcosa che sembra esotico; ricordo benissimo come rimasi davanti ai Tazenda a Sanremo quando cantarono con Pierangelo Bertoli. Non si era mai sentita una canzone dialettale se non in dialetto partenopeo. Bertoli sottolineava in italiano il sardo dei Tazenda e noi non capivamo il testo originale; ma poi via tutti a comprare il disco dei Tazenda, perché la parte più bella era proprio quella cantata in sardo. E quando senti la canzone Disamparados tutta il lingua sarda, sei contento che sia stata realizzata proprio così. Io sono stato alla Notte della Taranta, in feste sarde, siciliane, in festival diversi a nord, sud, est, ovest…persino a New Orleans (l’anno dopo il terribile uragano Katrina) ed anche lì la gente mi diceva good job man! senza nemmeno capire bene da dove venissimo. Avevo due musicisti di colore, nella band avevamo il violino, un componente blues, e loro sentivano questa lingua cantata che certamente non riconoscevano come inglese e nemmeno come italiano. Mi hanno scambiato per un cajun, uno di quei musicisti che scendendo dal Canada erano poi finiti nelle paludi della Luisiana. Ci chiedevano ma da dove venite? E quando dicevamo Italia non volevano crederci, anche perché poi abbiamo regalato un migliaio di dischi che ci eravamo portati da casa e tutti dicevano “non si è mai visto un italiano che regala dischi!!!”

State bene attenti alle hit parade; insieme altrunciatruncia troverete sempre un suono di violino o di fisarmonica che torna.

Sperare per il futuro? Si io ho delle speranze. Vedo che la tecnologia diventa spesso un’ossessione, ma vedo anche un movimento silenzioso che cresce. Ci sono tanti gruppi che provano a farsi il proprio disco anche in casa, me ne hanno regalati tanti in questi anni in tutta Italia. Non dischi necessariamente in dialetto, ma dischi che hanno a che fare con la tradizione della loro terra, con gli strumenti della loro zona. Questo è tutt’altro che un fenomeno moribondo. Quando una persona prende il raffreddore non si ferma mica in un angolo e si lascia morire. Reagisce e cerca di curarsi. Anche una lingua, quando è messa in pericolo, si difende, si aggrappa fortemente a cio’ che la circonda e cerca di proseguire la propria vita, non si lascia distruggere. Sradicare una cultura ed una lingua non è una cosa facile.

Nel passato, nella storia ci hanno provato diverse volte, con i bretoni, con gli irlandesi ed il loro gaelico, ed in tanti altri casi. Ma non è così facile, grazie a Dio. Cultura, lingua, usi e costumi possono avere dei momenti di crisi ma poi tornano forti. Cose che sembravano sparite sono poi tornate prepotentemente, perché la gente non sopportava di vivere senza quell’uso, quel costume, quella tradizione.

L’abbiamo visto nell’edilizia, nelle cure quotidiane, nell’erboristeria. Materiali che erano stati abbandonati con l’avvento di cose tremende come l’Eternit sono tornati. Il legno, la pietra, la bio architettura. E’ tornata una grande attenzione per l’impatto ambientale, per la bellezza del territorio; sulle rive dei laghi tornano a vedersi le costruzioni in tinta pastello. Nella cura della persona si ritorna ai vecchi princìpi alternativi, l’alimentazione torna all’equilibrio delle origini, ragazzi giovanissimi magari super laureati tornano alla terra, avviando aziende agricole biologiche ed agriturismi con attività agro-silvo-pastorali. Lo spirito del ritorno è forte. Non si può continuare a cadere senza tregua, ad un certo punto scatta la necessità e la voglia di aggrapparti e di tornare indietro a ciò che ti è stato tolto.

Anche nelle canzoni è così. Il folk puo’ anche far sorridere perché riporta alla mente il violino, il tamburello e la taverna, con i pirati che entrano nella taverna. Fa sorridere ma non muore mai. Sino a quando ci sarà la musica ci sarà il folk, che sia folk metal, elettronico o quello che credi. La festa di piazza ci sarà sempre. Lo scorso anno ho visto un’intera piazza di Orvieto ballare, ad Ariano Irpino la piazza era stracolma e tutti ballavano al suono della nostra musica e di quella di altri gruppi. La gente ha voglia di piazza. State bene attenti alle hit parade; insieme al trunciatruncia troverete sempre un suono di violino o di fisarmonica che torna. Perfino nelle menate spagnole di turno che arrivano ogni estate, c’è sempre una lambada, una macarena; un po’ perché la lingua spagnola copre mezzo mondo ed un po’ perché la canzone spagnola di turno (da Julio Iglesias fino ad Alvaro Solèr) c’è sempre stata e sempre ci sarà. Ed anche in queste canzoni la fisarmonica ed il momento folk c’è sempre perché… perché noi veniamo tutti da lì!

Claudio – Davide Bernasconi da Monza scrive su Il Corriere della Sera e riempie lo stadio di San Siro. Chi l’avrebbe mai detto… Ti faccio la domanda più banale del mondo, la più scontata, talmente scontata che va fatta per forza. I motivi del tuo successo. 

Questa domanda è talmente scontata che io me la faccio tutte le mattine. Me la faccio ogni volta che scendo a prendere la chitarra o che me la ritrovo in macchina, tutte le volte che sto per salire su un palco e vedo così tanta gente. Me la faccio eccome, ma cosa ci fanno tutti questi qui? Perché adesso, onestamente, dal punto di vista spettacolare e del physique du rôle non siamo mica Marilyn Manson (grazie a Dio!) oppure uno di quei personaggi che portano in scena il trucco che esce dal cilindro… Non sono nemmeno un cantante puro o un chitarrista virtuoso; sono il cantastorie, lo storyteller, quello che arriva con una voce sabbiosa dalla strada, dalla riva del lago e che canta. Canta poi anche cose non proprio immediate, benché sia molto immediata la mia, nostra, storia. Poi c’è anche il discorso del dialetto che potrebbe essere quasi un castigo che mi sono auto inflitto (per tanti lo è stato), un freno al successo più radiofonico, più mainstream. Quindi questa domanda il primo a farsela sono proprio io, ed ogni giorno arriva un pezzetto di risposta. Il cerchio non si è ancora chiuso. Sicuramente mi sono avvicinato tantissimo alle persone non inquadrate, non illuminate, non enfatizzate, non al centro del raggio d’azione della telecamera.

Persone che per un certo tempo non erano più state cantate, storie che appartenevano a tutti noi (grandi, bambini, genitori e nonni) venivano relegate in un armadio muffo, come se si trattasse di roba da lasciare in soffitta, perché i tempi cambiano… Senza capire che li dentro c’erano i germi del nostro futuro e senza capire che li dentro c’è la nostra storia, quella a cui noi ci appoggiamo. Senza capire che la vita di ogni persona è fondamentale, perché non ci sono persone di serie A o di serie B, senza capire che dietro ad ogni storia c’è anche la tua storia.

La canzone “Genesio”, che parla di un personaggio X (che posso definire un cocktail di personaggi che io ho conosciuto) è diventata un tormentone perché tutti ci riconoscono dentro un padre, oppure un nonno. 

La canzone Genesio, che parla di un personaggio X (che posso definire un cocktail di personaggi che io ho conosciuto), è diventata un tormentone perché tutti ci riconoscono dentro un padre, oppure un nonno. Quando nelle canzoni le persone trovano una rispondenza di questo genere, in quella lingua, le persone si illuminano e ti capita di trovarne anche ventimila dentro ad uno stadio come San Siro. Un ambiente dove non possiamo certo pretendere di fare i numeri dei cantati mainstream, come Tiziano Ferro, come Vasco, come i Coldplay, come i Depeche Mode. Entrare in un luogo mitologico come il Meazza portando questa canzone, significava alzare una bandiera, dimostrare che questo popolo c’è, c’è stato, esiste e non ha tutta questa voglia di scomparire davanti ai nostri occhi. Guai se lo facesse!

Il successo deriva dal fatto che, probabilmente, le canzoni sono le protagoniste di tutta questa storia. Non tanto io, la mia storia, il mio salire sul palco: io posso essere un buon autore, un buon cursore, un buon raccontatore, prima e dopo la canzone. Ma è la canzone ad essere diventata figlia di tutta questa gente. E come un figlio diventa il marito di qualcuno, l’operaio di qualcun altro, l’amico di un altro ancora, anche la tua canzone va e non è più tua del tutto. Tu ne sei il padre e gli vuoi bene, ma devi lasciarla andare per le strade del mondo. Allora il successo deriva dal fatto che la storia che abbiamo raccontato in tutti questi anni appartiene alla gente, e quando sei sul palco la gente la rivuole indietro.

Una piccola parentesi. A San Siro avevo molta paura pensando alle tre canzoni acustiche che avrei dovuto eseguire con l’accompagnamento del pianoforte, una addirittura con la sola chitarra acustica. In un contesto così grande, che non avevo mai sperimentato, pensavo che il casino fagocitasse tutto. Pensando così ho fatto un grande errore perché invece il pubblico ha dimostrato di avere adottato e sposato quelle canzoni. E di volere bene a quelle canzoni: hanno taciuto tutti ed hanno acceso le luci dei cellulari. Era una cosa a cui non ero pronto; la costellazione di queste luci (una volta si faceva con gli accendini) mi ha commosso e mi ha fatto intendere che io non avevo capito niente del rapporto tra le canzoni e la gente. Il successo è da attribuire al contenuto di questi brani che possono sembrare un po’ naif, un po’ muffi ed invece sono la nostra storia. Cosa è il successo? Ogni mattina me lo chiedo e mi do un pezzetto di risposta.

La prima parte della nostra intervista a Davide termina qui. Torneremo al più presto con la parte due…. Davide ha ancora molte cose da raccontarci.

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