Oggi ancora no, domani forse.

Oggi ancora no, domani forse.

foto copertina ©Francesco Scaccianoce


Prima o poi il coronavirus allenterà la propria presa e finirà di condizionare la nostra vita e le attività che venivano svolte ante lockdown riprenderanno.

Tra queste ci saranno anche le manifestazioni sportive, agonistiche ed amatoriali, dilettantistiche e professionistiche.

Prima del blocco l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia aveva promosso un convegno relativo alla condizione giuridica, retributiva e fiscale del calcio femminile, specialità sportiva in forte sviluppo ed ancora relegata in una sorte di limbo normativo.

Cerchiamo di fare chiarezza con l’ausilio di uno dei relatori del convegno, l’avv. Daniele Griffini – managing associate dello Studio legale Nctm.

Nel mentre le calciatrici della Nazionale femminile degli USA  (due volte vincitrici del Mondiale e campionesse in carica) si sono viste respingere in tribunale la richiesta di parità di retribuzione con la squadra maschile.

avv. Daniele Griffini – Nctm



Avvocato Griffini, il lavoratore sportivo è un lavoratore autonomo oppure un lavoratore subordinato?

Fino alla fine dei passati anni ’70 la qualificazione del lavoratore sportivo dal punto di vista giuridico era molto dibattuta e non esisteva un inquadramento univocamente accettato.  

Vi era chi riteneva che si trattasse di lavoratore autonomo e chi, invece, di lavoratore subordinato. Chiarire quale fosse l’inquadramento corretto era una necessità fondamentale; la posta in gioco era assai rilevante.

Qualificare il lavoratore sportivo come lavoratore subordinato significava accordargli le tutele tipiche del lavoro subordinato, con un ruolo centrale dei sindacati e dei contratti collettivi. Il lavoro autonomo apriva scenari totalmente differenti.

Per sciogliere il nodo fu necessario un gesto molto forte e clamoroso che sollevò un’attenzione mediatica enorme. La svolta avvenne nell’estate del 1978, nel pieno della sessione del calciomercato che avrebbe disegnato gli organici delle squadre di calcio per la stagione ’78-’79. 

Un pretore milanese, il dott. Costagliola, mandò i Carabinieri a compiere una perquisizione presso l’albergo Leonardo Da Vinci, dove si stava svolgendo il calciomercato, e ne decretò il “blocco” immediato.

Il pretore  Costagliola sosteneva la tesi che i calciatori fossero dei lavoratori subordinati e che pertanto il calciomercato violasse le norme sul collocamento della manodopera, dettate dalla legge n. 264/1969. 

Le società calcistiche cedenti (dovendosi considerare terze nel rapporto intercorrente tra il calciatore e le società calcistiche che ne richiedevano la prestazione) svolgevano secondo il pretore il ruolo, vietato dalla legge, di veri e propri mediatori. 


Mi immagino la reazione di un Paese che ancora oggi considera il calciomercato come un evento di importanza capitale.

Si trattò di uno tsunami mediatico.

Il Governo, allora presieduto da Giulio Andreotti,  intervenne con un decreto d’urgenza (il decreto legge 14 luglio 1978, n. 367) per “sbloccare” il calcio-mercato.

Il decreto si limitò a stabilire che le norme sul collocamento (di cui alla legge n. 264/1969) non si dovevano applicare al trasferimento dei calciatori, trovando quindi una soluzione per far ricominciare il calciomercato.  Di fatto rinviando la soluzione del problema di fondo, ossia chiarire se i calciatori dovessero ritenersi o meno dei lavoratori subordinati. 


Quando il legislatore fece chiarezza in modo definitivo?

Per risolvere il problema di fondo il Governo incaricò un’apposita commissione, con il compito di elaborare un disegno di legge.
Il disegno di legge elaborato dalla commissione (ed approvato dal Senato)  inquadrava i professionisti sportivi come lavoratori autonomi.

La Camera dei Deputati, tuttavia, apportò alcuni importanti emendamenti, capovolgendo di fatto la prospettiva del provvedimento ed inquadrando i lavoratori dello sport come lavoratori subordinati, sia pur dotandoli di alcune peculiarità.

Il disegno di legge tornò così al Senato, che lo approvò e lo trasformò nella legge n. 91/1981, tuttora vigente. Da quel momento i professionisti sportivi diventarono, sia pur con una serie di peculiarità, lavoratori subordinati.


Come si adeguarono alla nuova normativa le differenti Federazioni, come ad esempio la FIGC per il calcio?

La legge n. 91/1981, all’art. 2, stabilisce che per godere dello status di professionista sportivo (e quindi di lavoratore subordinato) non basta svolgere in maniera continuativa e remunerata attività sportiva: occorre anche conseguire la “qualificazione dalle federazioni sportive nazionali”.

In base all’art. 2 della legge n. 91 e all’art. 5 del d.lgs. n. 242/1999 le Federazioni possono decidere a chi attribuire la qualificazione di professionista sulla base delle direttive del Comitato Olimpico Nazionale (CONI). 

Nel dettare i principi fondamentali degli Statuti delle Federazioni il CONI ha stabilito una regola fondamentale (in particolare riguardo il principio n. 13).

L’istituzione del settore professionistico all’interno di una federazione sportiva è possibile solo a condizione che il fenomeno abbia notevole rilevanza economica.

Le Federazioni che hanno istituito al loro interno un settore professionistico sono attualmente 4: la FederGolf, la FIP (Federazione Italiana Pallacanestro) , la FederCiclismo e la FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio).

Fino a qualche anno fa, rispettivamente sino al 2011 ed al 2013, avevano un settore professionistico anche la FederMoto e la Federazione Pugilistica Italiana.
Questo significa che anche gli atleti di vertice delle Federazioni oggi prive di un settore professionistico rimangono contrattualmente dei dilettanti, con tutto quello che ne consegue, ad esempio per quanto riguarda  il trattamento pensionistico. 

Sveliamo allora questo fondamentale “principio n.13 del CONI”.

Il principio fondamentale n. 13 dettato dal CONI consente alla singola Federazione (che abbia istituito al suo interno il regime professionistico) di non estenderlo automaticamente a tutti i suoi tesserati, per riservarlo solo a coloro che rispondano ai requisiti fissati dalla Federazione stessa.

Per quanto riguarda il calcio, la FIGC riserva la qualifica di professionisti solo ai “calciatori che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità, tesserati per società associate nella Lega Nazionale Professionisti o nella Lega Professionisti Serie C” (art. 28 NOIF).

Sono al contrario NON professionisti (cioè dilettanti) “i calciatori che, a seguito di tesseramento, svolgono attività sportiva per società associate nella L.N.D., giocano il ‘Calcio a Cinque’, svolgono attività ricreativa, nonché le calciatrici partecipanti ai campionati di Calcio femminile” (art. 29 NOIF).


Il gatto si morde la coda; se non sei un professionista non ti è concesso “lavorare”.

Esatto. La FIGC stabilisce che “per tutti i ‘non professionisti’ è ESCLUSA ogni forma di lavoro, sia autonomo che subordinato” (art. 29 NOIF).  Quindi, fino a che non si è tesserati per società affiliate alle leghe professionistiche, non si può fare del calcio un lavoro.

In alcuni casi è però obbligatorio o facoltativo stipulare accordi economici. In particolare, gli artt. 94- ter e 94-quinquies NOIF stabiliscono che le calciatrici della Serie A e B femminili debbano stipulare accordi annuali o pluriennali che prevedano un’indennità annuale lorda non superiore a € 31.000 (oltre eventualmente a rimborsi spese e premi entro tetti prestabiliti), e che gli accordi pluriennali (di durata massima pari a tre anni) possono prevedere una ulteriore indennità. 

Invece, le calciatrici tesserate per società partecipanti a competizioni nazionali di calcio a 11 organizzate dalla Lega Nazionale Dilettanti possono stipulare accordi annuali come quelli per i calciatori della D maschile. 


Silenzio assoluto in materia o qualcosa si muove a livello legislativo?

Qualcosa si muove. La “Legge di Stabilità 2020” si è posta il “fine di promuovere il professionismo nello sport femminile ed estendere alle atlete le condizioni di tutela previste dalla normativa sulle prestazioni di lavoro sportivo”.
L’art. 1, comma 181, di tale legge prevede che “le società sportive femminili che stipulano con le atlete contratti di lavoro sportivo, ai sensi degli articoli 3 e 4 della legge 23 marzo 1981, n. 91, possono richiedere, per gli anni 2020, 2021 e 2022, l’esonero dal versamento del 100 per cento dei contributi previdenziali e assistenziali, con esclusione dei premi per l’assicurazione obbligatoria infortunistica, entro il limite massimo di 8.000 euro su base annua”. 

sen. Tommaso Nannicini

Questo non è un passaggio al professionismo, questa è una disposizione di natura fiscale.


Contrariamente a quanto potevano far pensare i titoli dei primi commenti, l’art. 1, comma 181, della “Legge di Stabilità 2020” non introduce il professionismo femminile.
La stipulazione di contratti professionistici resta infatti consentita solo se la Federazione di appartenenza riconosce il professionismo e quindi al suo interno, include espressamente quello femminile.

Il senatore Tommaso Nannicini, promotore della norma, si è detto consapevole della mancanza di questo fondamentale “tassello” ed ha affermato che la norma di cui parliamo mirerebbe soltanto a fare da sprone alle Federazioni. Le Federazioni stesse dovrebbero quindi riconoscere il professionismo femminile ed aprire alla possibilità di stipulare contratti professionistici.

Rimane il dubbio però che quanto previsto dall’art. 1, comma 181, possa non costituire un reale incentivo economico per l’istituzione del professionismo femminile.


Questa è la situazione attuale in Italia. In Europa il professionismo femminile invece esiste?

Le statistiche europee rivelano che il professionismo femminile è riservato a pochissime atlete.

Nella stagione 2016/2017 erano registrate in area UEFA 1.270.481 calciatrici, di cui solo 2.853 professioniste o semi-professioniste.  La percentuale di professionismo e semi-professionismo nel calcio femminile europeo è dunque complessivamente pari allo 0,22% (2.853 : 1.270.481 = x : 100).

La percentuale risulta addirittura poco più alta se si considerano soltanto i principali paesi ad elevata tradizione calcistica dell’Europa centro-settentrionale, che riconoscono il professionismo o il semiprofessionismo (Inghilterra, Francia, Germania). 

In questi paesi sono registrate in tutto 159.535 calciatrici over 18 e soltanto lo 0,45% di esse (721 unità su 159.535) sono professioniste o semiprofessioniste. Questo dato si sposa, del resto, con quello relativo al numero di club con calciatrici professioniste: 9 in Inghilterra, 11 in Francia, 12 in Germania. 


©Francesco Scaccianoce

Se il calcio femminile italiano passasse al professionismo, riuscirebbe a sostenersi economicamente?

Esiste una ricerca conclusa nel novembre 2019 dall’Università di Stirling per la UEFA, con il supporto della FIGC, mediante questionari sottoposti a 507 club femminili dell’area UEFA.

Da tali questionari infatti, cui solo 69 club (di cui 8 italiani) hanno risposto in maniera completa, emerge che la maggior parte dei club ha un budget inferiore a € 500.000 (il 43,7% addirittura inferiore ad € 100.000), che solo il 12,7% riesce a generare profitti, che i ricavi sono dominati dal contributo dei proprietari dei club, con un ruolo marginale dei diritti tv, del merchandising e del ticketing, e che circa il 50% delle calciatrici delle prime squadre non percepisce alcun compenso. 

Quando è stato chiesto ai club quali fossero le difficoltà principali affrontate nella propria attività, tutti hanno individuato nella “mancanza di ricavi commerciali”, nella “sostenibilità d’impresa” e nell’“interesse degli spettatori” i tre ostacoli più importanti per la crescita futura di questo sport.

Nell’estate 2019 l’Atalanta Mozzanica ha deciso di non iscriversi al corrente campionato di Serie A femminile: la società orobica ha reso noto alla stampa che, senza il supporto dell’Atalanta, essa non è in grado di sostenere i costi di gestione.


Le statistiche relative al calcio maschile italiano confermano la correlazione tra numero di professionisti e sostenibilità economica. 

I calciatori professionisti, nei campionati italiani, sono solo una piccola percentuale rispetto al totale dei tesserati. Infatti, escludendo dal computo il settore giovanile e scolastico, i tesserati uomini sono in tutto 363.280 e solo 12.125 sono quelli, considerando anche i giovani di serie, che praticano attività professionistica. Ciò significa che solo il 3,34% dei calciatori riesce a raggiungere l’apice (12.125 : 363.280 = x : 100).

In tempi recenti si è posta in dubbio la sostenibilità del professionismo per la Serie C. In particolare, nell’ottobre 2018 l’allora presidente della Lega Pro Gabriele Gravina aveva denunciato l’insostenibilità del professionismo per la Serie C; nell’estate 2019, il Foggia Calcio non si è potuta iscrivere al campionato per non essere riuscito a pagare gli stipendi; in concomitanza con la “Legge di Stabilità 2020”, la Virtus Verona ha recentemente invocato la necessità di misure di defiscalizzazione per far sì che il business delle squadre della Serie C possa essere sostenibile. 


Non vedo grandi prospettive.

Il professionismo nel calcio femminile potrà essere solo per il vertice della “piramide” del movimento calcistico femminile e l’ampiezza del “vertice” della piramide dipenderà dalla crescita economica del calcio femminile.

Il parametro per monitorarne la crescita è rappresentato dai ricavi dell’impresa calcistica, in termini di biglietteria, di sponsor, di attività commerciali e soprattutto di diritti audiovisivi. 


Grazie avvocato per la puntualizzazione tecnico-normativa. 

Ora la palla passa alla politica (sportiva e nazionale) che deve cercare, e possibilmente trovare, i metodi che possano consentire al calcio femminile una reale emancipazione che, come visto, non può prescindere da un rafforzamento economico dell’intero movimento sportivo.


©Francesco Scaccianoce

Le fonti.- 

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