La recente scarcerazione di numerosi condannati per mafia (motivata con una situazione incompatibilità tra lo stato di carcerazione e la patologia da Covid19 patita) ha creato uno stato di forte tensione nel Paese.
Ne parlo con l’avvocato Antonino Salsone.
L’avv. Antonino Salsone è nato il 27 aprile 1971 a Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria ed è il figlio primogenito di Filippo Salsone.
Laureatosi nel 1995 in Giurisprudenza a Messina, nel 1997 si trasferisce in Lombardia dove tutt’ora risiede. Titolare di un rinomato studio legale Antonino Salsone è sposato con una collega avvocato, Giudice di Pace in un capoluogo di provincia lombardo, ed è papà di tre ragazzi.
Suo padre, Filippo Salsone, graduato della Polizia penitenziaria, venne ucciso dalla mafia sulla porta di casa il 7 febbraio del 1986.
Filippo Salsone è stato insignito, alla memoria, con la Medaglia d’Oro al Merito Civile. L’onorificenza è stata appuntata al petto del figlio Antonino dalle mani del Presidente della Repubblica nel maggio del 2010.
Avv. Salsone quale è stato il primo pensiero che le è passato per la mente quando ha visto uscire dal carcere mafiosi di elevata statura criminale grazie a contingenze che possiamo classificare genericamente con la dicitura “emergenza Covid-19”?
Ho fatto due pensieri concatenati: il primo, istintivo e immediato, è volato verso il cielo e ho immaginato il viso sconfortato di mio padre e del povero Sergio Cosmai e di tutti coloro che, come loro, hanno pagato con la vita la fedeltà allo Stato e ai valori su cui è fondata la Repubblica Italiana.
Il secondo, più ponderato ma figlio del primo, ha riguardato le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, ho immaginato le loro amarezze, le inquietudini, i sacrifici, la rabbia di sentirsi impotenti e di vedersi privati in modo subitaneo e inaspettato del loro ruolo di capaci custodi della salute e della vita delle persone detenute, la stoicità del loro servizio e l’altissimo senso del dovere dimostrato anche nelle recentissime rivolte del mese di marzo, in cui, lo voglio ricordare, hanno perso la vita 12 detenuti, molti dei quali tossicodipendenti e quindi i più deboli all’interno della società carceraria e forse anche quelli più sacrificabili da parte di coloro, i veri delinquenti, che hanno fomentato le rivolte per scopi evidentemente malavitosi.
I miei pensieri sono stati questi e non nascondo che le emozioni provate sono state assai spiacevoli e sono tuttora le compagne della mia giornata.
Ricostruiamo brevemente i fatti.
I fatti sono di chiarezza lapalissiana: 375 detenuti sottoposti al regime di alta detenzione del c. d. “41 bis”, e cioè persone condannate in via definitiva per reati di assoluta gravità e di particolare odio sociale, sono state scarcerati.
Queste persone, da quanto è emerso dalle cronache giornalistiche degli scorsi giorni, sono state poste agli arresti domiciliari o sono state loro applicate altre forme alternative alla detenzione in carcere. E, da quanto si è appreso anche oggi, altri 430 detenuti qualificati come pericolosi e anch’essi sottoposti al regime del c.d. “41-bis”, hanno chiesto di essere scarcerati e aspettano la decisione dei giudici competenti.
Questi sono i fatti, tutto il resto sono parole.
Tra le due tradizionali correnti di pensiero che anche in questo momento si confrontano, Lei, che è anche un giurista, si sente garantista ad ogni costo o giustizialista estremo?
Intanto, poiché prima di essere un giurista sono una persona, tra le due correnti di pensiero, entrambe rispettabili, mi dichiaro appartenente alla prima.
Io credo fermamente nell’uomo e sono convintamente garantista. Per me, in tema di responsabilità penale, la bussola è innanzitutto rappresentata dall’art. 27 della Costituzione e dal dovere dello Stato di non comminare pene contrarie al senso di umanità e invece tese alla rieducazione del condannato. Solo così facendo lo Stato rimane forte e giusto e non degrada al livello di coloro che appartengono al c.d. “antistato”.
Precisato ciò, occorre altrettanto fermamente ribadire che il garantismo non deve essere scambiato per debolezza. Se io sono garantista verso il mio prossimo, significa che tollero la diversità delle sue idee ma non l’illiceità o l’inciviltà dei suoi comportamenti, che invece devono essere sanzionati esemplarmente da uno Stato giusto ma nel contempo forte e autorevole.
E qui faccio un’altra considerazione, che per me ha importanza pari alla prima: accanto alla garanzia verso “Caino” lo Stato forte e giusto deve prestare protezione e tutela anche ad “Abele”. Quindi, senz’altro sì al garantismo, ma in un sistema penale che preveda una volta per tutte certezza tassativa ed effettiva della pena, celebrazione veloce del processo in un’ottica di reale parità tra accusa e difesa, statuizioni giudiziali temporalmente prossime al fatto-reato, ristoro effettivo dei patimenti subiti dalla vittima del reato.
Occorre recuperare la fiducia del cittadino verso il sistema giustizia di questo Paese e ciò è compito certamente degli operatori, ma, innanzitutto, del decisore politico, che ha il mandato e l’onere di farlo.
Usiamo ora la ratio del giurista. Quanto è accaduto è rispettoso delle leggi vigenti?
Per rispondere alla sua domanda occorre prima comprendere quale è stata la ragione che ha causato il fenomeno.
Intanto deve essere confutata una circostanza abbastanza ricorrente nella polemica di questi giorni: la norma contenuta nel decreto “Cura Italia” del 17 marzo ha previsto, per evitare il sovraffollamento delle carceri nel periodo di massima emergenza pandemica, la scarcerazione dei detenuti con pena non superiore a 18 mesi e non reclusi per gravi delitti. I mafiosi ne erano chiaramente esclusi.
Il cortocircuito si è verificato dopo. Intorno al 20 di marzo, l’ex Capo del DAP, il dr. Francesco Basentini, ha emesso una circolare in base alla quale si segnalavano i rischi sanitari per i detenuti affetti da particolari e gravi patologie (da malattia oncologica, da HIV, all’apparato cardiocircolatorio, all’apparato respiratorio). A quel punto, indipendentemente dalla norma, il perimetro dei “beneficiari” si è molto allargato, fino a comprendere mafiosi di “alto lignaggio”.
I Magistrati di Sorveglianza, considerato il rischio segnalato, non hanno potuto fare altro che incidere sull’esecuzione della pena e comportarsi di conseguenza. A loro non può essere mosso alcun addebito.
Le riporto un commento raccolto qualche giorno fa per strada. “In corso di pandemia abbiamo visto una rivolta violentissima nelle carceri. Morti, evasi, devastazioni. Poi di colpo tutto si è sopìto. A distanza di pochissimo tempo dai tumulti i boss vengono scarcerati. Puzza di accordo Stato-Mafia”. Le sembra plausibile?
No. Mi sembrano le solite frasi di strada che gridano al complotto e al complottismo.
Io ho piena fiducia nelle Istituzioni e negli uomini che ne fanno parte. Non credo proprio che le rivolte carcerarie del mese di marzo siano state sopite per via di accordi sotterranei. E poi che bisogno ci sarebbe stato? Pur nella sua oggettiva gravità e nella sua portata purtroppo luttuosa, il fenomeno ha riguardato una parte minoritaria delle carceri italiane e della popolazione detenuta.
Le rivolte sono state dominate e risolte grazie alla professionalità e all’eroismo della Polizia Penitenziaria e, all’esterno delle varie case circondariali, dei Carabinieri, della Polizia e della Guardia di Finanza. E all’impegno costante ed efficace delle Procure e della Magistratura di Sorveglianza.
Il giorno sei di maggio il quotidiano La Stampa titolava: “Tornino in cella”: adesso Bonafede riesamina la lista dei boss.
Pare che il Ministro della Giustizia stia studiando una norma che consenta ai magistrati di sorveglianza di rivalutare le scarcerazioni già disposte di boss della criminalità organizzata.
A suo avviso si tratta di un atto meritorio che sana un vulnus normativo oppure è solo un volere chiudere la stalla dopo che si sono fatti scappare i buoi?
Ho già detto quale, a mio parere, è stata la ragione di fatto che ha portato alle centinaia di decisioni di scarcerazione.
Però il deprecabile fenomeno ha una causa di natura esclusivamente politica: il Ministro Bonafede, e con lui l’ex Capo del DAP, non hanno compreso le dimensioni e le conseguenze del loro comportamento e delle loro decisioni.
E non possono neppure invocare l’imprevedibilità. La virulenza pandemica in Italia è stata accertata sin dal 24 febbraio scorso con il caso “Codogno”. Già agli inizi di marzo il Paese era piegato sotto il terribile maglio del virus. L’8 marzo scorso il Presidente del Consiglio ha emanato il suo primo DPCM.
Quindi, ancora prima delle rivolte di metà marzo, il Ministro e l’ex Capo del DAP erano perfettamente consapevoli della situazione ed erano consci della necessità di assicurare alla popolazione carceraria il c.d. “distanziamento sociale”. E proprio qui sta il punctum dolens: il Ministro avrebbe dovuto capire per tempo e in pieno le conseguenze della circolare del DAP e quindi, se anch’egli convinto di adottare delle misure di distanziamento, operare concretamente per adibire reparti o anche istituti o altri luoghi di detenzione a tale specifico scopo (ad esempio alberghi od ospedali) . Ma non l’ha fatto.
E poi, mi chiedo, ma visto che i detenuti sottoposti al regime di 41 bis già subiscono l’isolamento della condizione di detenzione, quale sarebbe potuto essere per loro il pericolo di contrazione del contagio?
In questo si è sostanziata la responsabilità politica del Ministro Bonafede, che non soltanto non ha compreso la dimensione e le conseguenze della circolare dell’ex Capo del DAP, ma, anche dopo le prime scarcerazioni e la “scoperta” del fenomeno, nulla ha fatto per bloccarlo e consentire la prosecuzione in carcere della pena dei boss mafiosi.
Come spesso accade nel nostro Paese la pubblica opinione si divide ed inizia a prendere posizione a favore di Tizio ed a discapito di Caio. La stampa più attenta analizza e rendiconta; quella più schierata combatte al fianco dei propri paladini, talvolta a prescindere. Una certa politica annusa attenta, tenendo sempre a mente l’antico motto latino “Vox Populi, Vox Dei”. Non le sembra un atteggiamento un tantino barbaro?
La voce del popolo è importante, ma non può e non deve condizionare l’azione politica e di governo, così come non condiziona certamente l’azione del potere giudiziario. Voglio usare un’immagine per essere più chiaro.
Il popolo non sempre è buon giudice: tra Gesù Cristo e Barabba il popolo scelse Barabba. E mi chiedo: chi condannò il Cristo alla crocefissione, il popolo ebbro e fanatico, oppure Pilato, decisore indolente e vile?
Il motto latino che Lei ha citato è una vulgata che deve essere interpretata nella sua portata effettiva: la voce del popolo deve essere sentita, ma, per l’appunto, la voce, non il brusio retrivo e istintivo.
E il decisore politico, per fungere da vera e autorevole guida, deve avere l’intelligenza, la capacità e la lungimiranza di ascoltare il popolo, di comprenderne le esigenze e di soddisfarle, ma senza farsi soggiogare e senza paura di non compiacere.
E il decisore politico, per fungere da vera e autorevole guida, deve avere l’intelligenza, la capacità e la lungimiranza di ascoltare il popolo, di comprenderne le esigenze e di soddisfarle, ma senza farsi soggiogare e senza paura di non compiacere. Solo così agendo il decisore può essere a posto con la propria coscienza, agire con serietà e senno e portare effettivo benefizio, benessere e felicità al popolo.
Voglio anche aggiungere che sono inutili e altamente difficili da attuare i tentativi del Guardasigilli di porre rimedio alla scabrosa situazione. Non siamo nel 1991 e dubito molto che possano essere cambiate in corsa le regole dell’esecuzione penale. E non credo proprio che a distanza di due mesi da una recentissima sentenza della Corte Costituzionale che ha affermato che è inammissibile impedire l’applicazione delle misure alternative al carcere per fatti accaduti in tempi precedenti all’entrata in vigore di una eventuale legge, il Governo abbia voglia di andare contro la Corte con un decreto legge di effetto pari al famoso e coraggioso “decreto Martelli”. Oggi vige il principio che il condannato deve conoscere prima le modalità della pena.
Dubito dunque che il decreto legge paventato dal Ministro Bonafede possa essere adottato dal Governo (e ancora più forti dubbi ho circa la firma del Presidente della Repubblica).
Inoltre, mi si permetta una chiosa: le azioni, specie in questa materia delicatissima, non si annunciano, ma si fanno, anche nottetempo. Annunciare per giorni un decreto legge per riportare in carcere i mafiosi significa indure qualcuno o molti tra loro a togliere dall’imbarazzo il Ministro ed a darsi a una prudente latitanza.
Ribadisco che occorre agire con serietà e senno e in questo caso, purtroppo, e mi spiace molto rilevarlo, il Guardasigilli non si è dimostrato all’altezza del suo delicatissimo compito.
Ha avuto modo di confrontarsi con esponenti delle Forze dell’Ordine, della Polizia Penitenziaria e della Magistratura riguardo le scarcerazioni di mafiosi di alto rango? Che aria tira?
Ho tanti amici tra le Forze dell’Ordine, tra la Polizia Penitenziaria e anche tra i magistrati. Non v’è dubbio che assistere alla scarcerazione di un numero così considerevole di mafiosi ha creato tra loro sconforto e anche desolazione emotiva. Ma v’è un dato ancora più importante.
Il deprecabilissimo fenomeno ha provocato il forte disorientamento dell’opinione pubblica, che giustamente non comprende come è possibile che persone detenute per reati così odiosi possano continuare l’esecuzione della pena nel conforto delle proprie abitazioni e comodamente seduti sul divano, magari tornando a tessere le loro trame malavitose.
E soprattutto i giovani subiscono questo disorientamento e pensano che lo Stato abbia abdicato a uno dei suoi doveri fondamentali e cioè quello di assicurare l’esecuzione della pena e di garantire la sicurezza sociale.
Il Ministro Bonafede non ha compreso il disorientamento che è stato provocato nel popolo, nei giovani, tra le Forze dell’Ordine, nella Magistratura. E in questo consiste la sua piena responsabilità politica.