Un boato, il cratere, la morte.

Un boato, il cratere, la morte.

Alle 8.05 di venerdi 29 luglio 1983 una 126 parcheggiata davanti al civico 59 di via Giuseppe Pipitone Federico con all’interno 75 kg di tritolo viene fatta esplodere. Provocherà la morte del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, dei carabinieri Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, addetti alla scorta del magistrato e del portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Per pura casualità l’autista del dottt. Chinnici, Giovanni Paparcuri sarà l’unico a sopravvivere alla strage.



Avevo pensato di scrivere un ricordo della vita e della morte del dott. Rocco Chinnici, morte avvenuta il 29 luglio 1983 a Palermo.

Avevo già raccolto tutta la documentazione, le immagini (che utilizzerò comunque in questa pubblicazione) e stabilito lo schema del pezzo.

Ho poi letto la ricostruzione ufficiale che fece il Consiglio Superiore della Magistratura in occasione del trentacinquesimo anniversario della morte di Chinnici ed ho deciso di accantonare i miei appunti e di proporla integralmente.

Fonte: www.csm.it


La vita professionale

Rocco Chinnici nasce a Misilmeri, nelle campagne intorno a Palermo, il 19 gennaio 1925.

Dopo gli studi al liceo classico Umberto I nel 1943 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Palermo contemporaneamente lavorando presso l’ufficio del Registro di Misilmeri. Si laurea nel 1947. Prova a sostenere, senza successo, il concorso per diventare magistrato militare (arriva secondo quando unico era il posto bandito).

Nel 1953 entra invece nella magistratura ordinaria: svolge il periodo di tirocinio a Trapani, ove presta giuramento di fedeltà alla Repubblica il 31 marzo 1953. Il 4 settembre 1953 viene nominato uditore giudiziario con funzioni e, con D.M. del 31 agosto 1955, viene promosso ad aggiunto giudiziario.

La prima sede cui viene assegnato è la pretura di  Partanna dove rimarrà per dodici anni, dal 1954 al 1966, alternando applicazioni alle Preture di Gibellina, Santa Magherita Belice ed al Tribunale di Trapani. A Partanna continuano a ricordarlo come lu preturi; gli verrà dedicata una piazza in sua memoria, dopo la tragica scomparsa.

Il piccolo ufficio del centro agricolo della valle del Belice sarà importante per la formazione professionale del magistrato, anche per la varietà delle controversie trattate (dagli abigeati alle liti condominiali a quelle familiari) nonchè per la crescita delle qualità umane che poi lo caratterizzeranno.

A Partanna, del giudice Chinnici ricordano infatti non solo la professionalità ma anche il rigore morale, l’umiltà e la disponibilità ad ascoltare i problemi e le preoccupazioni degli abitanti del piccolo paese del trapanese. Consegue la promozione a magistrato di Tribunale con D.M. del 31 agosto 1958.

Nel rapporto informativo redatto nel febbraio 1962, dai dirigenti degli uffici giudiziari di primo grado di Palermo, il profilo professionale di Rocco Chinnici viene semplicemente definito come quello di “uno dei migliori magistrati di questo Circondario” mentre sotto il profilo umano vengono sottolineate la “adamantina correttezza” ed il ” nobile e leale contegno” che insieme a “l’indipendenza e la serenità poste nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali gli fanno meritare la stima incondizionata degli uffici superiori, del Foro e del pubblico”.

Il 1966 è l’anno della svolta. Si trasferisce a Palermo: inevitabilmente troverà una città ed una mole di lavoro ben lontane dall’esperienza sin lì maturata. Prenderà possesso delle nuove funzioni il 18 maggio 1966: si insedierà presso l’Ufficio istruzione. Sarà prima giudice istruttore, poi consigliere istruttore aggiunto, e infine guiderà l’Ufficio dagli inizi del 1980 fino al giorno della sua tragica scomparsa.

Nel trasmettere il fascicolo personale del dott. Chinnici alla Corte di appello di Palermo, il Presidente del Tribunale di Trapani il 18 giugno 1966 osserverà come il magistrato “durante il lungo periodo in cui ha prestato servizio quale Pretore presso il mandamento di Partanna, ha esplicato le sue funzioni con scrupolo, osservanza del dovere, dimostrando doti di intelligenza, di comprensione e di preparazione giuridica non comuni” e che lo stesso “...si è particolarmente distinto per il suo ingegno, per la sua correttezza, per la sua indipendenza e la serenità poste nell’esercizio delle sue funzioni, meritando la stima incondizionata dei Superiori, del Foro e del pubblico“. 

Le stesse doti dimostrate negli anni della permanenza a Trapani (ed a Partanna) saranno manifestate ed apprezzate anche negli anni successivi, benchè in un ambiente più vasto e difficile che necessariamente sarà caratterizzato da una mole di lavoro esponenzialmente in crescita, come i “problemi” giudiziari che la stessa città offriva.

L’intensa attività svolta e la concreta capacità di farvi prontamente fronte sono testimoniate anche dagli elogi che gli verranno tributati dai “superiori” tra il 1968 e il 1969. La qualità del lavoro prestato – sottolineata anche dalle statistiche – ed i conseguenti elogi ricevuti sono oggetto di esame nel parere per la nomina a magistrato di Corte di appello che il Consiglio giudiziario di Palermo licenzierà il 29 marzo 1969 con esito favorevole.

Con provvedimento del 27 giugno 1969 il Consiglio Superiore della Magistratura delibererà la nomina del dott. Rocco Chinnici a magistrato di Corte di appello. Testimonianza dell’abnegazione per il servizio, della caratura morale, della serietà e del sacrificio con il quale viveva la propria funzione è dimostrata anche da un altro particolare episodio: il 23 gennaio 1970 il giudice Rocco Chinnici, rassegna le dimissioni dall’incarico (tra l’altro remunerato) di assessore presso il Commissariato agli usi civici della Sicilia in quanto non più compatibile con l’attività giudiziaria che lo stesso è chiamato a svolgere. Il gesto – non comune – è alla base dell’elogio che il Presidente della Corte di appello di Palermo gli destinerà il 27 gennaio 1970.

Nell’ottobre del 1974 presenta domanda per il posto di Consigliere Istruttore aggiunto.  Lo spessore professionale del dott. Chinnici è ben disegnato nelle parole del dirigente dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, il quale utilizza espressioni certamente non convenzionali per rivolgergli un elogio.

Il 6 febbraio del 1974 il dott. De Blasi scriverà:” Da quando dirigo l’Ufficio Istruzione, e sono circa quattro anni, ho adottato il criterio di non rivolgere direttamente alcun elogio ai giudici istruttori, riservandomi di farlo, quando lo meritavano, solo a quelli che lasciavano l’ufficio. Con lei ritengo di fare un’eccezione in quanto avverto che è un dovere ed io lo manifesti e renda nota l’alta considerazione che ho di lei..” ed ancora “Solo il sacrificio di giudici che operano come lei senza alcun limite alla loro attività, può consentire che si possa procedere senza il verificarsi di gravissime disfunzioni. E’ significativo a proposito che la sua sezione ha sempre avuto ed ha il più basso numero di processi pendenti con notevole distacco dalle altre, malgrado numerosi sono stati i processi particolarmente difficili e delicati che io le ho assegnato“. 

Anche il Presidente del Tribunale di Palermo prenderà spunto dalle parole del Consigliere De Blasi per aggiungere il proprio personale elogio al dott. Chinnici sottolineando, tra l’altro, che: “E’ da ascrivere, anche, tra i meriti della S.V., il risultato soddisfacente, con il tirocinio presso la Sua Sezione – che l’elevato rendimento contraddistingue – dagli uditori giudiziari, i quali, oltre a trarre, dai Suoi insegnamenti, particolare profitto, hanno ricevuto, dal Suo esempio, vivo incitamento ad intraprendere, con entusiasmo e con consapevole senso di responsabilità, l’esercizio delle funzioni giudiziarie“.

Il 28 novembre del 1974 il Consiglio Superiore delibererà la nomina del dott. Rocco Chinnici a Consigliere istruttore aggiunto. Il 27 gennaio 1975 entrerà nel possesso delle nuove funzioni.

Il Consiglio giudiziario presso la Corte di appello di Palermo in data 19 maggio 1976 esprimendo all’unanimità parere favorevole alla nomina del dott. Rocco Chinnici a magistrato di cassazione, ripercorrendo gli aspetti salienti della carriera del magistato ne evidenzierà le doti non ordinarie ribadendo che: “Il dr. Chinnici è magistrato di non comune operosità, di notevole capacità e di vasta esperienza […] è da annoverare fra i migliori magistrati di questo Tribunale e meritatamente gode di generale estimazione. Non comune è l’impegno con il quale profonde nell’esercizio del proprio ministero le doti che lo contraddistingono: intelligenza, preparazione, esperienza, capacità, fermezza (manistata anche nella direzione dei dibattimenti penali) scrupolosità, indipendenza, zelo, vigile senso di responsabilità, spiccata attitudine alle funzioni direttive”.

L’operosita ed il non comune attaccamento al dovere del dott. Chinnici sono ulteriormente documentati da una nota del dirigente dell’Ufficio Istruzione del 7 ottobre 1977 dalla quale si evince che in quell’anno la sezione retta dal dott. Chinnici risulta avere la più alta percentuale ed il più alto numero di deflazione delle pendenze dei procedimenti penali.

Rocco Chinnici guiderà di fatto l’ufficio Istruzione dal febbraio 1979 (data della scomparsa del dott. De Blasi): il 5 dicembre 1979 il Consiglio Superiore delibererà la nomina dello stesso a Consigliere Istruttore. Nel plenum si alterneranno le diverse opinioni su un tema di estrema attualità: il peso da riconoscere all’anzianità di servizio rispetto alle specifiche competenze maturate e possedute; in un periodo tra l’altro in cui il requisito dell’anzianità aveva pressochè prevalenza nella ponderazione comparativa fra i candidati, verrà data rilevanza, invece, all’esperienza acquisita e alla specificità del ruolo ricoperto dal dott. Chinnici. A qualche anno di distanza, analoga situazione fu decisa in modo diverso nei confronti di Giovanni Falcone.

Il dott. Chinnici prenderà formalmente possesso del nuovo posto e delle nuove funzioni di Consigliere Istruttore il 28 febbraio del 1980.

Il 26 maggio del 1981 conseguirà l’ultima progressione in carriera: gli verrano conferite le funzioni direttive superiori. Come per le altre valutazioni, anche nel caso di specie, il rapporto dei vertici dell’ufficio rappresenteranno l’immagine di un magistrato fuori dal comune.

L’impegno antimafia dentro e fuori le aule di giustizia

Quando Rocco Chinnici arriva a Palermo si era appena consumata la prima guerra di mafia. L’omicidio di un boss locale nel 1966 e, soprattutto la strage di viale Lazio del 1969 interromperanno la “tregua”. Alcuni uomini con addosso uniformi da agenti di polizia, e appartenenti a diverse famiglie mafiose, entrarono negli uffici del costruttore Girolamo Moncada, siti in viale Lazio, a Palermo, covo del boss Michele Cavataio, detto il Cobra, capo della famiglia dell’Acquasanta e ritenuto colpevole di avere scatenato la prima guerra di mafia.

Quello per l’omicidio di Francesco Mazzara e soprattutto quello per la strage di Viale Lazio, saranno i primi processi di mafia istruiti dal giudice Chinnnici. A partire dal 1970, si occuperà del fenomeno mafioso arrivando a comprendere l’esistenza dei legami internazionali e di quelli con ambienti politico-istituzionali dell’associazione criminale.

Di questi intrecci, dell’importanza degli appalti e della commistione fra “uomini d’onore” e politici ed imprenditori, nonchè di quella escalation mafiosa che, secondo Rocco Chinnici, aveva posto le basi nell’omicidio del boss lolcale Francesco Mazzara e nella strage di viale Lazio, nonchè dei rapporti e delle differenze fra la mafia siciliana e le ‘ndrine calabresi, può trovarsi testimonianza in una relazione tenuta per il Consiglio Superiore della magistratura nei primi giorni di giugno del 1982 dal titolo “La mafia oggi e sua collocazione nel più vasto fenomeno della criminalità organizzata“.

La vasta conoscenza che il dott Chinnici aveva del fenomeno mafioso è ben testimoniata in un altro suo scritto dal titolo “La mafia: aspetti storici e sociologici e sua evoluzione come fenomeno criminoso“: una completa ricostruzione storica e sociologica della mafia dal periodo preunitario a quello contemporaneo.

Chinnici è il primo ad intuire le relazioni tra la mafia siciliana e la mafia “esportata” negli Usa ed al fiorente business del narcotraffico, oltre a comprendere che il problema mafioso deve essere affrontato da più fronti: quello giudiziario e quindi attraverso la repressione dei reati ma ancor di più quello sociologico, didattico, educativo.

Sotto il primo aspetto modifica totalmente il metodo di lavoro dell’ufficio: ogni magistrato seguiva i propri processi e, se da un lato significava grande autonomia, dall’altro comportava l’estrema parcellizzazione delle conoscenze. Inoltre, spesso, i processi venivano celebrati per singoli episodi, per perseguire singoli reati. Egli intuì che un fenomeno radicato, globale, come quello della criminalità mafiosa necessitasse di essere affrontato nel complesso e non combattendo reato per reato, processo per processo. Decise di costituire un gruppo: chiamò a se Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e dopo  Giuseppe Di Lello e con loro istituisce a livello informale quello che sotto la guida di Antonino Caponnetto prenderà il nome di pool antimafia.

Insieme ai “suoi” mette a punto “il processo dei 162” precursore del maxi processo Abbate Giovanni +746 che vedrà la luce dopo la sua morte.

In una raccolta (postuma) di suoi scritti dal titolo L’Illegalità Protetta può leggersi una delicata e commossa prefazione di Paolo Borsellino che rappresenta anche il riconoscimneto del lavoro e dell’acume giudiziario del “suo capo” e dell’intuizione dell’assoluta necessità del coordinamento investigativo, del lavoro in pool: “A capo della struttura giudiziaria più esposta d’Italia, si prefisse di potenziarla opportunamente e renderla efficace strumento di quelle indagini nei confronti della criminalità organizzata, troppo a lungo trascurate in precedenza. Uno per uno ci scelse: noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il così detto «pool antimafia»  […] Credeva fermamente nella necessità del lavoro di equipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione delle informazioni tra «i suoi» ” Ed ancora: ” Gli era così chiara l’unitarietà e l’interdipendenza fra tutte le famiglie mafiose e palese la connessione fra tutti i loro principali delitti (concetti che oggi fanno parte del patrimonio comune di chiunque si occupi di criminalità mafiosa, sebben talune poco convincenti decisioni della Cassazione li abbiano posti recentemente in dubbio) che a lui risalgono la paternità o almento l’ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia.”

Si batte, insieme a Gaetano Costa, per ottenere anche strumenti più efficaci di contrasto, perché venisse riconosciuta una propria specificità al reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e perché i giudici potessero indagare ed intervenire sugli ingenti patrimoni illeciti che la mafia gestiva. E’ del settembre 1982 la legge Rognoni-La Torre che consentirà alle indagini di fare il salto di qualità.

La sua attività non si esaurisce nelle aule di giustizia convinto che la lotta alla mafia e al traffico di stupefacenti, che in quegli anni mieteva numerosissime vittime, dovesse essere combattuto sul piano culturale, necessitando tanto un cambiamento sociale che un diverso approccio educativo. Era convinto che il problema (quello della droga e quello della criminalità mafiosa) fosse prima che un problema giudiziario un problema sociale, culturale, umano e che la speranza di cambiamento risiedesse nelle nuove generazioni. 

Comincia a portare la propria testimonianza nelle aule scolastiche, incontra professori studenti partecipa a dibattiti e tavole rotonde portando esempi di casi concreti e, di sicura novità per il periodo, parla apertamente di mafia. L’attenzione per il problema delle droghe, della tossicodipendenza e della necessaria informazione a fini preventivi è testimoniata anche da un saggio che il dott. Chinnici predispose per un corso di aggiornamento per presidi e docenti delle suole secondarie (svoltosi a Palermo nel 1977) dal titolo “Aspetti e problemi della legge 22 dicembre 1975 n. 685

Credeva che i ragazzi dovessero e potessero difendersi cambiando mentalità e avrebbero potuto farlo solo con un adeguata formazione ed informazione, in modo da poter sempre riconoscere, e quindi liberamente scegliere, la giusta direzione

In tal senso, nella raccolta di atti citata, può leggersi: “ La mia fiducia è nelle nuove generazioni. Nel fatto che i giovani, credenti, non credenti, della sinistra, democratica, di nessuna militanza politica, si ribellano, respingono il potere della mafia. Questa è la grande speranza che sta germogliando. E’ necessaria però un’opera di più ampia sensibilizzazione. Specialmente in rapporto al fenomeno droca e ai centinaia e centinaia di milioni che la sua organizzazione comporta. La nostra società corre un gravissimo pericolo. Ecco perché i giovani devono insorgere contro la mafia e la sua droga, con tutte le forze e il coraggio che hanno. […] Abbiamo i grossi problemi della crisi economica, della politica, e si è portati a sottovalutare quello della droga i cui effetti deleteri non li vediamo ancora, ma li vedremo fra dieci anni. Perché il tossicodipendente diventa un peso per la società, oltre che per le famiglie. […] I nuovi accattoni sono i drogati. I furti nell’appartamento, delle autovetture! La piccola rapina al portinaio dello stabile è opera spesso di drogati, perché il delinquente non rischia di rubare il portafogli con il rischio di venire arrestato. Ecco il problema, che prima di essere giudiziario è sociale, civile, umano”.

Precorreva i tempi. Riteneva di dover combattere prima di tutto l’omertà, il silenzio, l’acquiescienza ad un sistema in quanto riteneva che l’illegalità trova sempre terreno fertile dove prosperano ignoranza e povertà e dove quindi è difficile per i giovani vedere vie d’uscita.

In un passo della relazione svolta per un incontro organizzato dal Consiglio Superiore nel 1982 dal titolo Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso osserverà: “La lotta alla mafia deve partire dagli aspetti morfologici del fenomeno: contro l’infiltrazione mafiosa è necessario l’avvio di un processo di disinquinamento seguendo i principi di una bonifica sociale. Occorre, infatti, prendere atto che la mafia svolge nella società un ruolo di un istituzione, amministrando il proprio potere al fine di garantirsi sempre più diffusi e radicati inserimenti ed un costante reclutamento; la mafia non recluta solo nelle carceri ma dovunque si ponga ai giovani la scelta fra l’emarginazione e il prestigio, il ruolo sociale, il denaro facile, la carriere ed il successo – pur con gli enormi rischi connessi – del mafiosoTagliare le basi sociali del reclutamento significa recidere le radici stesse dell’organizzazione…

“…questa è una città nella quale non si può vivere…”

Il 25 febbraio 1982 sotto falso nome raggiunge il Csm (lo confermerà lui stesso avanti alla prima commissione del Consiglio) per riferire in audizione relativamente agli accertamenti che il Consiglio stava operando a seguito di una nota sottoscritta da diversi sostituti procuratori della Procura di Palermo in merito a notizie stampa circa l’avvenuto isolamento del Procuratore Gaetano Costa a seguito della convalida di 28 arresti nei confronti di persone sospettate di appartenere a cosche mafiose.

La lettura completa dell’audizione disegna e consente di comprendere il quadro in cui il Consigliere istruttore è costretto a vivere e lavorare.

Ripercorrendo attraverso alcuni stralci quell’ audizione è possibile ricostruire i fatti, il clima, le tensioni, le preoccupazioni; racconta dell’isolamento di Gaetano Costa, Procuratore capo a Palermo, ucciso nell’ agosto del 1980, che sente vicino a quello che egli stesso sta vivendo, narra della difficoltà di vivere lavorare e cercare di difendere la legalità a Palermo e delle minacce di morte di cui è – o meglio erano (entrambi) – destinatari:

“…il quadro generale lo posso fare anche in rapporto al mio ufficio, perchè io, per ragioni ovvie, mi  occupavo dell’ufficio istruzione ed ovviamente dovevo mantenere dei rapporti con la Procura della Repubblica; quei rapporti, intanto istituzionali, e poi sul piano personale avevo rapporti con Costa […].Voi sapete che il procuratore Costa veniva da Caltanissetta quindi non era un palermitano; la sua nomina non dico che non era stata accolta bene, ma comunque aveva un po’ destato qualche perplessità perchè si diceva con tanti magistrati di Palermo si doveva nominare Costa.

Costa venne a Palermo nel 1978, nell’estate, preceduto da fama di buon magistrato  che aveva molta  professionalità,  in quanto aveva fatto  sempre dapprima il  sostituto  e poi il procuratore della Repubblica,  Un uomo impegnato perchè il  suo passato  era noto a tutti:   un passato di  combattente per la libertà,   era stato partigiano  e questo non sappiamo  se a Palermo poteva essere accolto bene oppure no perlomeno in certi ambienti.

[…] Parlammo di processi ed io ebbi la sensazione che Costa fosse molto, ma. molto prudente, perchè era nuovo dell’ambiente e lui studiava l’ambiente; non solo esterno, ma anche 1’ambiente del palazzo di giustizia. Costa, qualche volta mi manifestò delle perplessità di ordine generico – su questo desidero essere puntuale e preciso – ma perplessità diciamo caratterizzate da una certa diffidenza: mi diceva, parlando di Palermo: «in questa città non c’era da fidarsi di nessuno»; questo poi me lo ribadì in maniera più precisa e concreta quando, dopo l’arrivo di questi processi, dopo la presa di posizione dell’ufficio istruzione, incominciarono ad arrivare delle minacce di morte a me direttamente con telefonate a casa, di cui alcune registrate. L’ultima specialmente. Io dovevo riferire oltre che portare il  rapportino scritto. Mi  ricordo, una delle ultime volte proprio per la telefonata più brutta, nella quale mi  si  disse  «Il nostro tribunale ha deciso che lei deve morire e l’ammazzeremo  dovunque lei  si trovi».

[…] Io andai da Costa e questi, sconsolato, mi disse: «questa è una città nella quale non si può vivere» ed io ebbi il sospetto, poiché  Costa non l’avrebbe mai ammesso, avevo imparato a conoscerlo che anche lui avesse ricevuto qualche minaccia, altrimenti non si spiegherebbe questa frase così stringata e sibillina, «questa è una città nella quale non si può vivere».

[…] Io ho avuto la prima telefonata di minaccia. Mi si disse testualmente «sono l’avvocato Russo D’Agrigento», non era un professionista. Da come parlava si sentiva molto bene che era un mafioso. E’ stata sempre la stessa persona che mi ha telefonato tre o quattro volte in maniera chiara e aperta. Poi telefonate a mezze voci, venivo svegliato di notte, alzavo il microfono e non sentivo niente le prime parole furono queste: «che intenzioni ave lei con i processi di Palermo?» Perchè allora si diffuse la voce che ero stato io, perchè vicino a Costa, perchè amico di Costa e che per le mie convinzioni aveva quasi imposto al collega Falcone (con ciò offendendo me e Falcone) ad emettere i mandati di cattura. E allora è sintomatico il tenore di questa telefonata «che intenzioni ave lei di fare con i processi di Palermo»  non con il suo processo perchè io avevo il processo che istruivo io, processo «Sollera- Bontade» e compagni con i processi di Palermo. Poi sempre su questa scia, altre telefonate; l’ultima, la più brutta, quella in cui mi si dice «Il nostro tribunale l’ha già condannata l’ammazzeremo comunque ».

[…] Quando andai da Costa per riferire a voce il contenuto delle telefonate, Costa ebbe quella frase “Palermo  è una città nella quale non si può vivere”.[…] continuo  a ricevere dall’America le minacce ora per iscritto. Me ne hanno mandata una che  è magari in una forma elegante perchè  ci sono le  sette beatitudini: beato  chi ti farà del male,  beato  chi parlerà  sempre male di  te,  beato  chi ti distruggerà  ecc.  Questa mi è arrivata per cartolina postale tre mesi  fa;  un’altra mi  è arrivata un mese fa,  pure dall’America.”.

Le difficoltà di Chinnici e Costa sono le stesse incontrate da Piersanti Mattarella; tutti lottavano contro il medesimo nemico, tutti cercavano di far rispettare la legalità; tutti hanno cercato di fare, in modo corretto, solamente il proprio dovere:

…uno degli  atti del presidente Mattarella fu quello di  fare  annullare questi appalti; infatti le  scuole non sono state più costruite […] il presidente Mattarella voleva, mettere  ordine  e legalità nei  settori della vita regionale dove ordine e legalità non esistevano;  c’era corruzione  e un po’ di tutto. Ci  fu l’inchiesta Cardillo, che  era allora, assessore  regionale ai lavori pubblici, ma il presidente Mattarella cercò  e fece di tutto per eliminare tutte quelle situazioni abnormi  che c’erano alla regione siciliana

…la morte di Costa mi ha veramente scioccato perché Costa era da appena due anni a Palermo e Costa fu ucciso quando, presa già conoscenza di quello che era veramente l’ambiente palermitano, incominciò ad indirizzare una azione veramente efficace nei confronti della mafia. Costa è stato ucciso per aver voluto compiere il dovere di magistrato.

La ragione di tutto per Chinnici è semplice:

“...Palermo è una città sonnolente, Palermo è una città piena di mafia, non è soltanto a livello della gente comune che si evita di parlare, ma anche a certi livelli…

Chinnici è preoccupato anche per la sicurezza dei suoi più stretti collaboratori – il nascente pool – per l’esiguo numero di magistrati su cui può contare e per la conseguente personalizzazione delle istruttorie e dei processi :

“ Io sono venuto qui per dare il massimo della collaborazione per dire tutto quello che sapevo perchè avevo il dovere giuridico, ma soprattutto morale di dire, io vi prego di tenere presente questo fatto,che a Palermo c’è una situazione di estremo disagio, io non so a chi affidare i processi perchè non ho magistrati, e guardate che le minacce non le ho avute soltanto io. Una domenica ho trepidato fino a quando non ho saputo che il collega era a casa, perchè, mi telefonano i carabinieri preoccupatissimi, perchè dall’Ucciardone, era partitol’ordine di uccidere Borsellino; una notte alle undici mi arriva una telefonata, e mi informavano che dall’America avevano saputo che Falcone doveva essere ucciso in America; non si può vivere,  anche se uno ha un buon sistema nervoso, non si può vivere in questo modo, perchè se io avessi 12, 14 giudici istruttori io dividerei i processi.

[…] Di fatto, giudici ai quali posso affidare questo tipo di processi (e con ciò non voglio creare giudici di serie A e giudici di serie B) debbo dire che ne ho soltanto 2 o 3 al massimo….”.

* * * *

Stava per chiudere il cerchio attorno ai mandanti e agli esecutori dei delitti di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, per i quali pensava ci fosse un’unica regia, non ebbe il tempo di concludere quel lavoro.

Alle 8.05 di venerdi 29 luglio 1983 una 126 parcheggiata davanti al civico 59 di via Giuseppe Pipitone Federico con all’interno 75 kg di tritolo viene fatta esplodere. Provocherà la morte del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, dei carabinieri Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, addetti alla scorta del magistrato e del portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Per pura casualità l’autista del dottt. Chinnici, Giovanni Paparcuri sarà l’unico a sopravvivere alla strage.

Ai partecipati funerali solenni celebrati nella chiesa di San Domenico, il cardinale Salvatore Pappalardo avrà modo di ricordare nella sua omelia che: “…Si è parlato, in questi ultimi tempi, di volere erigere un monumento alle vittime della mafia: è un gesto che, dove e come lo si voglia fare, può avere il suo significato, ma certo il monumento più valido è il nome onorato che questi caduti lasciano ai loro figli e alla nazione tutta: è l’esempio del dovere compiuto fino al sacrificio”.

E’ il primo attentato contro un magistrato con l’utilizzo di esplosivo. Quel metodo verrà utilizzato dalla mafia altre sole due volte…

Il “diario”

Poche pagine con appunti scritti di pugno dal Consigliere istruttore, su di una agenda della Banca sicula di Trapani rinvenute tra le carte del giudice e consegnate dalla famiglia all’allora procuratore della Repubblica di Caltanissetta: questo è il cd. “diario” di Rocco Chinnici.

Vi si possono ritrovare appunti presi in modo disordinato: a volte specificando date e orari altre volte brevi note sporadiche o lunghi “sfoghi” giornalieri, senza mai seguire l’ordine cronologico del calendario.

Il manoscritto (la cui trascrizione è pubblicata nel resoconto stenografico della seduta del 28 settembre 1983 della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia, qui disponibile) appare come il tentativo di lasciare su carta pensieri, appunti, considerazioni in merito alle situazioni che viveva, o alle sensazioni provate rispetto a circostanze vissute  in un periodo complicato della vita professionale e per le quali avesse bisogno di fissare, nero su bianco, una propria, diretta, testimonianza.

Le minacce di morte si facevano incalzanti, consigliò anche a Falcone di fare lo stesso…scrisse 32 pagine di suo pugno, fino ad un mese dalla strage.

Dopo la morte di Chinnici, in audizione avanti alla prima commissione del Consiglio il 6 settembre 1983 sul punto Giovanni Falcone commenterà: “Il collega Chinnici prendeva appunti su tutti gli episodi che gli apparivano inconsuenti e questo perché temeva che le persone che potessero volere la sua morte avrebbero potuto annidarsi anche all’interno del palazzo di giustizia. Egli mi sollecitava a fare altrettanto, dicendomi che in caso di una mia morte violenta gli appunti avrebbero potuto costituire una traccia per risalire agli assassini…

La procura di Caltanissetta trasmetterà il “diario” al Consiglio Superiore (salvo alcune pagine che “tratterrà” sotto il vincolo del segreto istruttorio) vista anche la richiesta formulata da alcuni magistrati palermitani che – in seguito alla fuga di notizie ed alla pubblicazione su alcuni giornali dell’epoca di ampi stralci degli appunti – si erano visti nominativamente indicati dagli organi di stampa con conseguente imbarazzo e preoccupazione nelle Istituzioni e negli uffici giudiziari coinvolti.

Nelle pagine, delle quali si riporta qualche stralcio, può leggersi della situazione degli uffici giudiziari di Palermo delle relazioni tra alti magistrati ed i vertici del sistema politico, della “prudenza” degli stessi magistrati di fronte ad alcune indagini e, sullo sfondo, dell’inquinamento politico mafioso del sistema degli appalti nella Regione.

Gli appunti del 10 dicembre 1981 e 18 maggio 1982, che riportano alcune conversazioni con l’allora Procuratore generale Giovanni Pizzillo, l’ultima delle quali particolarmente accesa, sono emblematici nel testimoniare la situazione della magistratura palermitana in generale e dell’isolamento di Chinnici e dell’ufficio da lui diretto:

10 dicembre 1981 – ore 12.30

Mi telefona Pizzillo, ha letto della mia relazione su «Mafia oggi» a Monreale organizzata dall’Arci di Monreale di ieri sera. Mi consiglia prudenza essendo io troppo esposto. Aggiunge di aver raccolto voci secondo le quali io mi appresti ad entrare nel PCI per seguire l’esempio di Rizzo. Insiste perché io non intervenga più in convegni, come quello di Messina nel mese di ottobre di quest’anno su «Mafia e potere». Il tono è molto cordiale. Si dimostra alquanto preoccupato per il fatto che io sono «troppo esposto». Qualche giorno fa mi aveva per la terza volta chiesto di sollecitare Barrile ed archiviare gli atti relativi contro i Salvo (e però non ha mai pronunziato il cognome Salvo).”

 E il 18 maggio 1982:

Vado da Pizzillo per chiedere di applicare un pretore in sostituzione a La Commare dal momento che il Consiglio Superiore della magistratura ha deciso che la competenza è del presidente della Corte. Mi investe in malo modo dicendomi che all’ufficio istruzione stiamo rovinando l’economia palermitana disponendo indagini ed accertamenti a mezzo della Guardia di finanza. Mi dice chiaramente che devo caricare di processi semplici Falcone in maniera che «cerchi di scoprire nulla perché i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla». Osservo che ciò non è esatto in quanto sono stati proprio i giudici istruttori di Palermo che hanno – inconfutabilmente- scoperto i canali della droga tra Palermo e gli USA e tanti altri fatti di notevole gravità. Cerca di dominare la sua ira ma non ci riesce. Mi dice che verrà ad ispezionare l’ufficio (ed io lo invito a farlo); è indignato perché ancora Barrile non ha archiviato la sporca faccenda dei contributi (miliardi per la elettrificazione delle loro aziende agricole); l’uomo che a Palermo non ha mai fatto nulla per colpire la mafia che anzi con i suoi rapporti con i grossi mafiosi l’ha incrementata, Pizzillo con il complice Scozzari ha « insabbiato » tutti i processi nei quali è implicata la mafia, non sa più nascondere le sue reazioni e il suo vero volto. Mi dice che la dobbiamo finire, che non dobbiamo più disporre accertamenti nelle banche.”

Altro personaggio ripetutamente citato negli appunti è Francesco Scozzari, Sostituto procuratore della Procura della Repubblica di Palermo. Chinnici, nell’audizione del 25 febbraio 1982, ne aveva  sottolineato alcune criticità, soprattutto in relazione al processo per la strage di viale Lazio nonchè le “voci” che circolavano sul conto del sotituto procuratore negli uffici giudiziari palermitani:

15 dicembre 1981.

Ciccio Scozzari è l’essere più immondo che esista, vigliacco,servo dei mafiosi (il suo comportamento al processo di viale Lazio ne è la riprova). Per invidia o per imposizione della mafia mi ha combattuto da quando sono a Palermo….”

Giovanni Falcone nell’audizione del 6 settembre 1983, sul punto commenterà: “Sul dott. Scozzari il collega Chinnici esprimeva giudizi molto pesanti, non adoperando però parole oltraggiose, perchè questo non era nel suo stile. Non mi ha mai racccontato fatti specifici, tranne che il padre del dott. Scozzari, che faceva l’avvocato a Misilmeri, paese dove lui stesso era nato, era in odore di mafia […] Su Scozzari posso dire che la fama di essere legato ad ambienti poco chiari è diffusa a Palermo e risale al processo di Viale Lazio, quando ebbe a chiedere l’insufficienza di prove per gli imputati in qualità di P.M; personalmente non ho elementi per dare un giudizio su di lui, perchè non è mai stato pubblico ministero in processi da me curati, nè mi ha mai raccomandato qualche causa. […] Tuttavia alcuni elementi sul collega Scozzari risultano da un processo che recentemente mi è stato affidato in istruttoria formale. I colleghi della Procura che avevano istruito il processo in sommaria […] mi hanno informato che vi erano delle intercettazioni telefoniche che riguardavano anche il collega Scozzari; hanno aggiunto che poichè erano ininfluenti ai fini del processo in corso, si erano limitati ad avvertire il procuratore Generale.”

Ed ancora:

“30 settembre 1979.

[…]Circola insistente la voce che i mandati di cattura nel processo di Falcone li ho fatti emettere io. L’avvocato Campo mi dice testualmente: «Come, dopo che a seguito del processo dei 114 c’era stato promesso che non si sarebbero fatti più processi per associazione a delinquere, si ritorna di nuovo alle associazioni » ? Se mi succederà qualche cosa di grave i responsabili sono due: 1) il grande vigliacco Ciccio Scozzari; 2) l’avvocato Paolo Seminara.” Insieme a Scozzari e Pizzillo si fanno poi anche i nomi di Ugo Viola e Vincenzo Pajno

“15 maggio 1982. – Ore 11,30.

Viene a trovarmi Giovanni Falcone. Mi riferisce di essere stato convocato da Viola, il quale mi richiede spiegazioni del perché alle notizie di stampa circa le telefonate intercorse tra familiari e parenti di Salvo (Nino) e « Roberto » (Buscetta ?) Falcone risponde che le telefonate sono state riportate nella sua sentenza. L’episodio è indicativo del rapporto di amicizia di Nino Salvo oltre che con Pizzillo, anche con Viola e Pajno. Quest’ultimo infatti l’altro ieri sempre nella forma gesuitica che gli è congeniale mi ha telefonato per dirmi che era andato a trovarlo Nino Salvo indignato per il fatto delle notizie riportate dalla stampa sulle telefonate di cui Viola parlò con Pizzillo. Ma perché Nino Salvo non viene all’ufficio istruzione ? Mi chiama Viola, mi chiede reiterando la richiesta del giorno prima la richiesta di prosciogliere l’ingegnere Tedesco imputato di gravi reati nel processo contro Maligno + 13 (scandalo del Belice). Faccio presente che l’ingegnere Tedesco è tra i più gravemente responsabili; ciò malgrado Viola insiste. Contrariamente al suo stile la richiesta è quasi perentoria. È ovvio che l’ingegnere Tedesco sarà rinviato a giudizio. Faccio una riflessione: Pizzillo è quello che è, stupido, prepotente, bifronte, notoriamente invadente; non c’è giudice civile o penale, non solo di Palermo presso il quale egli non sia intervenuto per raccomandare gente che gli sta a cuore.        Certo, Viola non è Pizzillo ma… si avvicina pur se in maniera, quasi sempre elegante.”

Negli appunti si rinvengono anche riferimenti a Giovanni Falcone. Quest’ultimo come evidenziato, avrà poi modo di spiegare al CSM (audizione del 6 settembre 1983) quale fosse il rapporto di profonda amicizia rispetto e comprensione esistente tra lui ed il dott. Chinnici e quale fosse il clima, le difficoltà e le inquietudini in cui, soprattutto negli ultimi tempi era costretto a vivere e lavorare il Consigliere Istruttore.

“ 7 dicembre 1982

Ieri, domenica, verso le ore 20 è venuto a casa mia l’ingegnere Eduardo Romano. Sono a letto perché influenzato. Chiede di parlare con me, entra nella mia stanza terrorizzato. Davanti l’ingresso di casa mia si era incontrato con Nino Madonia, da me rinviato a giudizio in stato di arresto per le bombe di Capodanno. Mi riferisce che il Madonia dopo avergli insistentemente richiesto chi andava a cercare nello stabile (alla domanda l’ingegnere rispose che andava da un suo zio signor Romano) ad analoga domanda rispose che andava a trovare il suo amico che aveva l’abitazione nella scala B. L’ingegnere Romano ebbe la sensazione che non è niente vero perciò telefonò al maresciallo Trapassi, al dottor D’Antone. In serata, il Madonia non viene trovato. Oggi a casa nel primo pomeriggio mi portano un espresso. È diretto: giudice istruttore capo Rocco Chinnici, tribunale di Palermo, figura impostato e recapitato lo stesso giorno, il 6 dicembre 1982. La lettera è del seguente tenore «Non si muove foglia che Giovanni Falcone non voglia»; il no di non voglia è sottolineato due volte. È minaccia? Mi si vuol mettere contro anche Giovanni Falcone?”

Anche quella lettera sarà rinvenuta tra i suoi appunti. Il messaggio sembra precorrere la strategia utilizzata anni dopo dal cosiddetto “Corvo” di Palermo.

Il 22 giugno 1983 l’ultimo appunto:

Giovanni Falcone è preoccupatissimo, alle ore 13 viene da me, mi dice che domani in elicottero andrà a Caltanissetta per incontrarsi con il sostituto Favi di Siracusa. Un detenuto ha fatto sapere a Favi che si prepara un attentato contro Falcone, ad organizzarlo sarebbero gli industriali e le cosche catanesi. Il cavaliere del lavoro Rendo, secondo il detenuto, viene informato dall’alto commissario De Francesco di tutta l’attività di Falcone. Incredibile. Forse Falcone negherà di avermi fatto simili confidenze. Ma me le ha fatte !”

L’attentato, come noto, un mese dopo avrà un altro destinatario.

In seguito alla divulgazione di parte degli appunti ad opera di alcuni organi di stampa, e della richiesta di accertamenti sollecitati dai magistrati maggiormente coinvolti dagli appunti (Ugo Viola, Vincenzo Pajno, Francesco Scozzari), il Consiglio Superiore della Magistratura venne convocato in seduta plenaria, alla presenza del Ministro della Giustizia Mino Martinazzoli, l’8 settembre 1983.

Nella seduta, in seguito alla lettura degli appunti, venne illustrata l’attenta e approfondita attività istruttoria svolta dalla prima Commissione nelle sedute di fine agosto ed inizio settembre, passando poi all’analisi ed al commento del contenuto del cd. “diario” del dott. Chinnici.

Il plenum decise di aprire una pratica di trasferimento d’ufficio ex art. 2 della legge sulle guarentigie della magistratura nei confronti del dott. Francesco Scozzari, ritenendo che gli appunti non contenessero elementi utili per provvedimenti di competenza del Consiglio nei confronti di altri magistrati.Il dott. Francesco Scozzari presenterà poco dopo le proprie dimissioni dall’ordine giudiziario. Il Consiglio Superiore delibererà l’accettazione delle stesse il 23 dicembre 1983.

Le tappe della vicenda processuale relativa all’omicidio di Rocco Chinnici e della sua scorta

Dodici sentenze, l’omicidio di un giudice – Antonino Saetta – reo di essere stato intransigente e rigoroso anche nel processo di appello del cd. Chinnici I, le ombre legate alla sentenza pronunciata nel secondo giudizio di rinvio a Messina e l’ultimo capitolo nisseno sono gli atti che compongono la vicenda processuale relativa alla strage di via Pipitone Federico:

  • Corte assise Caltanissetta  24 luglio 1984 (pres. Antonino Meli): per la strage di via Pipitone  verranno condannati all’ergastolo Michele e Salvatore Greco (ritenuti i mandanti della strage e latitanti all’epoca del processo) Pietro Scarpisi e Vincenzo Rabito verranno invece condannati a 15 anni di reclusione per associazione mafiosa;
  • Corte assise appello Caltanissetta 14 giugno 1985 (presidente Antonino Saetta): il giudice del gravame confermerà l’ergastolo per i fratelli Greco (ancora latitanti) inasprendo le pene per Pietro Scarpisi e Vincenzo Rabito: 22 anni di reclusione;
  • Corte di cassazione 3 giugno  1986 (presidente Corrado Carnevale): nel giudizio di legittimità il il rappresentante della Procura Generale (Antonino Scopelliti) chiederà la conferma della sentenza di appello, ma la prima sezione penale, presieduta dal giudice Corrado Carnevale addurrà l’esistenza di vizi procedurali in particolare nell’impiego delle testimonianze dei pentiti ed annullerà la sentenza della Corte d’assise di appello di Caltanissetta;
  • Corte assise Catania 1 luglio 1987  (presidente Giacomo Grassi): il giudice di rinvio confermerà in toto la sentenza emessa dalla Corte d’assise di appello di Caltanissetta. In aula è presente anche Michele Greco (detto il papa) la cui latitanza era stata interrotta da pochi giorni dall’arresto dello stesso;
  • Corte Cassazione 18 febbraio 1988 (presidente Zucconi Galli Fonseca): le sezioni unite penali, nonostante le richieste di conferma della Procura, annulleranno la sentenza impugnata limitatamente al reato di strage rinviando per nuovo giudizio alla Corte di assise di appello di Messina;
  • Corte assise appello Messina 21 dicembre 1988 (presidente Beppe Recupero); nel secondo giudizio di rinvio i fratelli Greco (tra l’altro già condannati nel maxiprocesso a Cosa Nostra) vengono assolti dal reato di strage e condannati soltanto per associazione mafiosa;
  • Corte Cassazione 9 gennaio 1990  (presidente Raffaele Dolce): la quinta sezione della Corte di Cassazione confermerà la sentenza dei giudici di Messina e rinvierà alla Corte di assise di appello di  Reggio Calabria per la ridefinizione della pena per i fratelli Greco (che verranno condannati a 8 e 6 anni in data 6 novembre 1990);
  • Corte di Cassazione 26 giugno 1991 (presidente Stanislao Sibilia): rigettando i ricorsi degli imputati confermerà la sentenza della Corte di assise di appello di Reggio Calabria;
  • Corte assise Caltanissetta  14 aprile 2000 (presidente Ottavio Sferlazza): le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia nel 1995 consentono alla Procura di Caltanissetta di chiedere il rinvio a giudizio di 19 persone nell’ambito del cd. “Chinnici bis” (procedimento penale a carico di  “Riina Salvatore + 18). La sentenza n.14/2000 della Corte di assise di Caltanissetta condannerà all’ergastolo per la strage di via Pipitone Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele e Stefano Ganci, Antonio e Francesco Madonia, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Calò, Salvatore e Giuseppe Montalto, Vincenzo Galatolo, Matteo Motisi e Giuseppe Farinella;
  • Corte assise appello Caltanissetta 24 giugno 2002 (presidente  Antonio Maffa) confermerà la sentenza applicando alcune riduzioni di pena;
  • Corte di cassazione 21 novembre 2003 (presidente Renato Fulgenzi) rigettando i ricorsi degli imputati confermerà la sentenza della Corte di assise di appello di Caltanisseta del 24 giugno 2002.                                   

I documenti pubblicati

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