Il bene comune

Il bene comune

Un sorriso aperto, una stretta di mano franca e salda, un benvenuto sincero e cortese. Così Camillo de Milato mi riceve a Milano presso l’ufficio di presidenza dell’Asilo Mariuccia, una delle più radicate ed amate istituzioni meneghine.

Nativo di Francavilla Fontana, de Milato è stato un Generale di Divisione dell’Esercito Italiano sino al 2012. O meglio, è un generale dell’Esercito Italiano, anche se dal 2012 è inquadrato nei ranghi della Riserva. Un militare di lungo corso come lui la greca e le stellette le porta sempre, magari sulla giubba civile non si vedono, ma a pelle ci sono sempre. 

Laureato, con Master di II livello, in Scienze Strategiche presso l’Università di Torino e, con il massimo dei voti e lode, in Scienze delle Relazioni Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste, attualmente è presidente della Fondazione Asilo Mariuccia e dell’ Associazione Regionale dei Pugliesi di Milano. Nel corso della gestione commissariale del prefetto Tronca ha ricoperto l’incarico di sub commissario all’ambiente di Roma Capitale.

Sposato, de Milato è padre di due figli e recentemente è stato insignito con uno dei “nastrini” più belli che un uomo possa appuntarsi al petto, quello di… nonno.

Prima di iniziare la nostra lunga chiacchierata mi presenta due dei suoi stretti collaboratori, il Direttore Generale Thomas Parma e la responsabile dell’Area Comunicazione Anna Renna, che saranno parte attiva della nostra intervista. “Non un uomo solo al comando caro Claudio..noi siamo una squadra!” 

Ti riporto indietro di qualche anno, vorrei che tu mi raccontassi qualcosa dell’Esercito italiano di un tempo e di come si è evoluto sino ad oggi, in particolare dopo la fine della leva obbligatoria.

Mi torna subito in mente un’immagine. Entro per la prima volta in Accademia (Accademia Militare di Modena – ndr) il 22 ottobre del 1971 ed in camerata trovo la nebbia. La prima notte passata in quello stanzone piango, piango per la mancanza di mia mamma. Stavo inseguendo un sogno, sentivo dentro di me la voglia di mettermi al servizio dell’Italia, pronto a difenderla dalle minacce che avrebbero potuto arrivare da forze esterne. Mio padre era un geometra, impiegato a Taranto presso il Genio della Marina ed il suo diretto superiore era un colonnello dell’esercito. Un altro ricordo che mi arriva prepotente riguarda proprio lui, quando qui a Milano diventai comandante delle Voloire (*) presso la Caserma Santa Barbara di piazzale Perrucchetti; piangeva per la commozione e l’emozione. Quando poi sono stato promosso generale, volava.

(*) Voloire, reggimento di artiglieria terrestre a cavallo.

Nel 1975 in reparto, da tenente, ricordo come ci fossero giovani di leva che nemmeno conoscevano l’uso dell’acqua e la cosa si notava molto…a naso, anche da lontano. Li dovevamo spingere a forza sotto la doccia per potergli consentire di fare una vita di comunità accettabile. Erano altri tempi. I coscritti giungevano da ogni parte d’Italia, portando con se la nostalgia per la mamma e la fidanzata (le licenze erano poche), ed imparavano giorno dopo giorno a socializzare, fortificando anche delle belle amicizie.

Poi piano piano l’Esercito è cambiato, è diventato più professionale sino a quando nel 2000 sono entrate nei ranghi le donne. Con loro l’Esercito ha fatto un altro passo in avanti, in quanto le giovani ragazze erano molto preparate e mature; hanno dato una scossa all’ambiente permettendo anche alla componente maschile di migliorarsi velocemente. Ad esempio il famoso “linguaggio da caserma” è venuto meno e si è alzata la soglia di attenzione comportamentale.

Da un punto di vista tecnico quale è stato l’elemento che ha separato definitivamente il vecchio ed il nuovo Esercito italiano?

La professionalità, che non è sinonimo di attività a carattere professionistico, retribuito e non di leva. Per professionalità intendo il cambio di paradigma che  ha codificato un modo nuovo di intendere il ruolo del militare. Più professionale, meno idealista. L’entrata tra le fila delle donne ha reso l’esercito più pragmatico. 

Camillo de Milato

La leva obbligatoria ha rappresentato, per quasi tutti noi non più giovanissimi, un momento di svolta epocale. Si usava dire che in caserma entravi ragazzino e ne uscivi quasi uomo. Quante volte ci scappano frasi del tipo “si vede che non hai fatto il militare” quando ci troviamo davanti a post adolescenti un pochino confusi. E’ stata una buona scelta quella di sciogliere i ranghi?

Sino agli anni ’90 il servizio militare di leva rappresentava un grande incentivo a diventare uomini, a maturare. Ma tutto cambia, la società si trasforma. Alle soglie del 2000, quando l’Esercito è diventato professionale, il 90% dei ragazzi lombardi si dichiarava obiettore di coscienza. Non aveva più senso sostenere una struttura, costosa, che non incontrava più il favore degli italiani. Credo che oggi, se ci fosse ancora la leva obbligatoria, avremmo dei ragazzi più autonomi e meglio abituati ad autogestirsi. Avremmo anche avuto una base di monitoraggio sanitario molto più ampia e questo ci avrebbe agevolato nella fase di diagnosi delle malattie e nel contrasto alle pandemie. 

La tua storia personale ci dice che per tre anni sei stato addetto militare presso l’ambasciata italiana ad Ankara. Hai inoltre conseguito una laurea, con il massimo dei voti e lode, in Scienze delle Relazioni Internazionali e Diplomatiche. Forte della tua esperienza militare e diplomatica, ritieni che l’attuale conflitto in Ucraina possa essere fermato dalla diplomazia? Oppure la diplomazia si limiterà a ratificare l’esito della guerra sancito sul campo di battaglia?

Ti rispondo in modo onesto e non uso giri di parole. La diplomazia è pragmatismo. Quando la diplomazia viene in qualche modo intaccata dall’ideologia, perde la propria efficacia. Quando la razionalità diplomatica viene corrotta da ragionamenti fatti “con la pancia” si allontana la reale  volontà di giungere ad una pace vera. Attualmente diversi attori di questo nefasto conflitto ragionano con la pancia. Ho ascoltato diversi pareri espressi da miei colleghi alti ufficiali, con lunga esperienza in ambito internazionale, e posso dirti che non ci è piaciuto l’approccio di diversi attori internazionali a questa guerra. Quando Putin presentò venti richieste per evitare il conflitto, sarebbe bastato dire “si” ad una sola di queste per evitare tutto quello che è accaduto successivamente.

Non hai avuto la sensazione che fossero delle richieste fatte ad hoc per ottenere una risposta negativa e per suscitare il famigerato casus belli?

Da pragmatico ti dico che se si fosse dichiarato esplicitamente che l’Ucraina non sarebbe entrata nella NATO, probabilmente il conflitto non sarebbe partito.


Photo- Oleksandr Ratushniak, UNDP Ukraine  – unric.org

Questo riguarda l’entrata nel conflitto. Per quanto riguarda l’uscita invece pensi che una diplomazia “alta” e priva di attori che agiscono di pancia possa fermare i cannoni?

E’ indubbio che l’Ucraina ha dalla sua parte il sostegno dell’Europa e degli Stati Uniti, questo però non basterà, a mio avviso, per fermare l’avanzata russa. Temo che il conflitto andrà ancora avanti. In ogni caso, prima o poi, una tregua congelerà lo status quo e le conquiste fatte sul campo. Ho detto tregua, non pace. Non ci sarà mai una pace, questo è il mio punto di vista.

Tregua quindi, questo significa niente pace condivisa e tantomeno niente resa sul campo di una delle due parti.

Nella guerra perde anche chi vince sul campo. Sempre e comunque. Ecco perchè alla fine ci sarà uno stop alla belligeranza, perchè la tregua risulterà accettabile sia a chi ha perso di più, sia a chi ha perso di meno. Penso che, potendo tornare indietro di mesi, nessuna delle due parti scatenerebbe di nuovo questo conflitto. 

Dubito che l’ipotesi che sto per formulare rientri nelle intenzioni degli aggrediti, ma se l’Ucraina decidesse di rinunciare per sempre ai territori delle due autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, alla Crimea e ad Odessa, di fatto arrendendosi alle mire russe, saremmo davanti ad un gesto razionale che salva il salvabile oppure davanti ad una resa disonorevole?

Sarebbe una tragedia, priva di convenienza e di pragmatismo. Alla fine credo che gli ucraini dovranno cedere dei territori, ma Odessa no. Assolutamente no, sarebbe inaccettabile e credo che Odessa non rientri nemmeno nelle reali  mire russe. E’ possibile che ad inizio conflitto quella città rientrasse negli obiettivi di conquista di Putin, ma allo stato attuale tutto è cambiato. 

Viste anche le potenzialità dell’esercito russo, meno performante di quanto  prevedibilemesi fa, è ipotizzabile una conquista territoriale, ma Odessa no ed il controllo dell’intera Ucraina nemmeno. Un qualche risultato i russi a casa vorranno portarlo, anche per bilanciare le migliaia e migliaia di vite perdute sul campo, ci sono trentamila madri in lacrime. Troveranno una soluzione, stabiliranno una tregua, non arriveranno però alla pace. La pace no.

L’Italia ed il blocco occidentale non hanno esitato nell’aiutare l’Ucraina con l’invio di armamenti. Rimane il fatto che però all’aggressore russo viene pagato un miliardo di euro al giorno per l’acquisto del gas. Realpolitik o ambiguità?

Questa decisone è stata presa dall’attore internazionale più forte, un attore che non ha alcun bisogno del gas russo. La NATO ha dovuto seguire questa indicazione. Ma non possiamo non sottolineare che l’Europa, per la prima volta, si è dimostrata più unita che mai. Non si è mai avuta in passato una comunanza di intenti in Europa come quella attuale. Si sta facendo il possibile, nel rispetto delle aspettative dei cittadini dei singoli Paesi. Rinunciare al gas russo, tenere l’Italia al freddo e fermare la nostra produzione industriale? Non è possibile, bisogna essere pragmatici e realisti. Si sta cercando di aiutare l’Ucraina con le sanzioni e con l’invio degli armamenti, ragionando ed applicando una misura sanzionatoria realmente praticabile.

Per conto dell’OSCE hai monitorato sul campo le prime elezioni libere in Kossovo nel 2000. Pensi che un giorno potrà accadere qualcosa di simile – elezioni vere e libere – anche nei territori contesi oggetto della guerra?

Quella del Kossovo è stata un’esperienza professionale veramente significativa. Si, un giorno potrebbe accadere, ma solo quando anche la Russia accetterà vere e libere elezioni. E forse sarà anche un lavoro meno difficile di quello svolto nella ex Jugoslavia, dove ai tempi avevamo due province serbe che delle elezioni non volevano proprio sentire parlare, ed una enclave protetta dalle forze NATO che impedivano un possibile massacro. 

Quella era una situazione molto complicata e dura, da entrambe le parti si praticavano gesti di indicibile crudeltà che lasciavano allibiti anche noi militari. Noi militari, se siamo costretti, uccidiamo. Ma abbiamo comunque un codice d’onore da seguire. So che in passato anche le nostre forze armate si sono rese protagoniste di atti indegni, basti pensare a quanto fatto dal generale Rodolfo Graziani in Africa, ma io non mi riconosco in quelle forze armate.

Mi riconosco in quelle dei nostri tempi, quelle schierate in Irak o in Afghanistan, apprezzate e rispettate dalla popolazione locale. Porto un esempio su tutti, il comando del generale Mauro del Vecchio, caratterizzato dalla mancanza assoluta di vittime. Quando poi sono arrivati gli inglesi la musica purtroppo è cambiata. 

Comunque alla tua domanda ribadisco il mio si, anche in Ucraina potrebbe realizzarsi un giorno uno scenario che porti ad elezioni libere e vere.

Palazzo Cusani – Milano

Un bel giorno lo Stato decide di mandarti in pensione e tu, anziché andare a pescare al lago, ti fai coinvolgere dalla gioiosa macchina da guerra del volontariato attivo.

No no, la mia attenzione per il volontariato ed il sociale nasce prima della mia immissione nei ranghi della Riserva. Nel 2009, quando ero ancora pienamente in servizio, sono stato il primo generale dell’Esercito Italiano a ricevere la Medaglia di Benemerenza del Comune di Milano, sotto la sindacatura Moratti.

Avevo organizzato un evento molto particolare a favore dei disabili; duecento di loro con le loro duecento famiglie sono stati imbarcati su un aereo e su elicotteri dell’Esercito ed hanno sorvolato la città di Milano. Poi dieci di loro, si sono lanciati in tandem con un istruttore con il paracadute. I genitori piangevano per la gioia.

Un’iniziativa realizzata in collaborazione con l’associazione d’arma dei Paracadutisti che ha rotto per un breve momento la solitudine che i disabili e le loro famiglie vivono, anche all’interno delle grandi metropoli. A volte si è soli anche in mezzo a tanta gente, quasi non visti, a volte volutamente ignorati. Lo Stato fa troppo poco per aiutare i meno fortunati tra noi.

Ho anche aperto alla cittadinanza Palazzo Cusani* per una serie di attività culturali e fondato il Circolo di Cultura e Scienza Piri Piri, un piccante circolo culturale che prende il nome da una varietà di peperoncino sudafricano che simboleggia il gusto ed il sapore che dobbiamo dare alla cultura.  Insomma ho provato ad aprire alla città, coniugando cultura ed attenzione per i meno fortunati.

Tutto è nato quando ero ancora in servizio come comandante.

*Palazzo seicentesco di Milano, sede del Comando del III Corpo d’Armata fino al 2004, attualmente sede di rappresentanza della NATO a Milano. Dal 2012 è inoltre sede del Comando Militare Esercito Lombardia. – NdR

FAM Fondazione Asilo Mariuccia

E poi ci hai preso gusto. Sono arrivati l’Asilo Mariuccia, la Società Umanitaria… Partiamo parlando dell’Asilo che oggi presiedi. Non hai idea di quante volte a scuola, mille anni fa,  il mio professore di economia mi ha detto “giovanotto che sciocchezze sta dicendo, pensa di essere all’Asilo Mariuccia?”

Non faccio fatica a crederlo, l’espressione “Asilo Mariuccia” è piuttosto diffusa nel gergo milanese, con il tempo ha assunto un significato ironico per indicare un asilo d’infanzia (“questi sono discorsi da Asilo Mariuccia!”, nel senso di “questi sono discorsi infantili”). Ma Asilo Mariuccia non è un modo di dire, è un modo di fare, provo a spiegartelo.

L’Asilo è stato fondato nel lontano 1902 dalle amiche di Ersilia Bronzini, moglie di Luigi Majno, per alleviarle la sofferenza causata dalla morte della figlia Maria, familiarmente detta Mariuccia, morta a 13 anni nel 1901 di difterite. Le amiche dell’Unione Nazionale Femminile per dare ad Ersilia una  nuova prospettiva e per farle ritrovare la voglia di vivere, decidono di aprire un rifugio particolare per giovani fanciulle povere, spesso avviate alla prostituzione, assecondando anche l’attenzione che la piccola Mariuccia aveva per i più deboli prima di morire.

A quei tempi le famiglie povere mandavano le proprie ragazze, poco più che adolescenti, a servizio a casa dei “padroni”, in famiglie agiate della buona borghesia cittadina. E molto spesso capitava che il padrone di casa allungasse le mani o peggio. Scoperto l’abuso, spesso con la fanciulla incinta, la soluzione era quella di cacciare di casa la fantesca che si ritrovava in mezzo ad una strada e per di più disonorata. Non potendo tornare in famiglia a cagione del decaduto decoro, venivano spesso avviate alla prostituzione. 

Ecco che, in alternativa alla carità di stampo clericale che donava un piatto di lenticchie, si palesa un modo nuovo di aiutare queste sventurate, con un’operazione di solidarietà che possiamo definire di “stampo socialista”. La scuola, la formazione, l’insegnamento di un mestiere. Non ti sostengo più donandoti un pesce, ti insegno a pescare.

Luigi Majno e Ersilia Bronzini

All’Asilo si imparava a diventare sartine. La famiglia Bronzini-Majno era una famiglia in vista in città, ricca ed appartenente all’alta borghesia e soprattutto legata da una fitta serie di relazioni alla Milano bene del tempo. Era consueto che la solidarietà di questa rete di famiglie agiate arrivasse a creare per le povere sartine una discreta dote matrimoniale. Ed alla dote seguiva un buon matrimonio che risanava i peccati di gioventù. A quel tempo la dignità femminile si acquisiva con due elementi: famiglia e figli. Le giovani ospiti dell’Asilo si sposarono quasi tutte.

Oggigiorno invece la dignità della donna non passa più attraverso il binomio matrimonio-figli ma attraverso il lavoro. Ecco perchè l’Asilo Mariuccia oggi non si cura più di trovare alle ragazze un marito, ma si occupa di formare le giovani da un punto di vista professionale. 

Recentemente abbiamo lanciato un progetto denominato “inclusive finance” che ha visto protagoniste sette funzionarie, appartenenti a sette importanti istituti bancari, che hanno tenuto una serie di lezioni alle nostre giovani, su temi economici e di gestione bancaria. Non puntiamo più solo a formare abili artigiane, ma anche a completare una preparazione tecnico-culturale di base che possa permettere alle nostre ragazze di entrare in realtà economiche importanti senza sfigurare. 

Ultimamente una di loro ha iniziato a lavorare, ad esempio, per Monclèr. La situazione economica attuale non è rosea e non ci si può più accontentare di insegnare solo un mestiere, bisogna anche assistere la fase di passaggio dall’Asilo al mondo del lavoro. Essere disoccupate significherebbe tornare in balia delle onde più pericolose della nostra società, con un fallimento personale e con un aggravio di costi dovuto alla presa in carico da parte dei Servizi sociali.

Salvo rarissime eccezioni, chi esce dal progetto Asilo Mariuccia riesce a gestire al meglio il proprio presente, dignitosamente e con gioia. Oggi, lo dico con grande orgoglio, l’Asilo Mariuccia è l’ente socio-assistenziale più premiato in Lombardia.

Mario Furlan, fondatore dei City Angels e Camillo de Milato – Milano, presso Radio Lombardia

Progetti in itinere?

Milano è la capitale del “bene comune”, è dai tempi delle prime confraternite (1200 circa) che Milano ha una propria predisposizione genetica per lo sviluppo del bene comune. 

Ho pensato ad un’organizzazione che raccogliesse tutte le forze milanesi che operano per il bene comune.  Ogni anno ci gemelliamo con un ente diverso e con i partner parliamo di bene comune attraverso la realizzazione di un progetto condiviso. Ciascuna organizzazione nel corso dell’anno sviluppa i propri piani strategici ed in più partecipa ad un progetto globale che coinvolge tutti gli aderenti.

Questo progetto si regge su quattro gambe. Il volontariato, le strutture che si occupano di sanità, gli enti socio-assistenziali, la cultura. Cultura che non è accrescimento nozionistico ma rafforzamento valoriale, parliamo di diritti umani, giustizia, rispetto per l’ambiente. Non solo educazione e conoscenza ma anche e soprattutto etica. Cultura ed inclusione.

Abbiamo grande necessità di una reale inclusione, basta ripensare ad alcuni eventi recenti, le molestie sul Garda o i festeggiamenti milanesi di fine anno. Ci sono gruppi che non si sentono parte integrante della comunità cittadina, anche perchè noi italiani facciamo poco o nulla per favorirne l’inclusione. Forse per non forzare un politically correct male interpretato, spesso si fa finta di nulla, di certe situazioni si tende a non parlare, salvo poi strapparsi i capelli quando accadono fatti gravi. 

Le responsabilità sono singole e della comunità, a partire dallo Stato. Se abbiamo persone tra di noi che si considerano diverse, fuori dalla comunità, dobbiamo fare possibile ed impossibile per cambiare il loro pensiero, portandole a sentirsi realmente parte integrante della nostra città. Educazione, alta cultura, inclusione delle comunità di origine straniera con gli italiani. Non c’è altra strada.

Con me sfondi una porta aperta, ma non ti nascondo che mi sembra una via tortuosa da percorrere. Sono anni che la politica italiana viene attraversata da venti ostinati e contrari. Non si guarda a ciò che accomuna ma ci si fossilizza su ciò che distingue, facendo classifiche di merito sociale e stabilendo criteri assurdi. Prima gli…

Sono cose sulle quali mastico amaro anch’io. Possiamo anche guardare alla questione con pragmatismo. Non stiamo facendo figli, chi ci pagherà in futuro le pensioni? Se concediamo dei diritti, nel medesimo tempo possiamo pretendere il rispetto dei doveri.  Anche se la pancia della società mormora in un certo modo, il cervello dovrebbe ragionare in modo diverso, equilibrando diritti e doveri. Se andiamo avanti così ci troveremo nella situazione che vediamo in Francia e Gran Bretagna, due nazioni che soffrono di problemi sociali molto pericolosi. 

Ci manca solo che anche da noi ci si trovi in presenza di banlieue all’italiana, chiuse, radicalizzate, impenetrabili. Recuperare situazioni di equilibrio e convivenza diventerebbe una mission impossible.

Se non facciamo qualcosa di serio e profondo per l’integrazione diventeremo come loro. Abbiamo sotto gli occhi la loro esperienza e la loro storia, mi chiedo perchè continuiamo ad andare avanti con le fette di prosciutto sugli occhi. Quando l’insofferenza si cronicizza diventa razzismo. Le comunità che si sento non integrare si richiudono a riccio su se stesse, si sentono deboli e si radicalizzano in posizione di difesa, rafforzandosi ma anche isolandosi in modo poi difficilmente recuperabile.

Te lo chiedo scherzando, tanto per rimanere nel tema delle “etnie”, ti senti milanese o pugliese?

Sono un milanese, un milanese che guarda con rispetto, affetto ed interesse alla proprie radici ed al luogo dove sono nato. Sono milanese a tutti gli effetti e come me lo sono altri duecentomila pugliesi a Milano e settecentocinquantamila nel territorio della città metropolitana.

L’Associazione Regionale Pugliesi di Milano, che presiedo, ogni anno organizza un premio denominato “Ambasciatore di terre di Puglia” per premiare i pugliesi eccellenti che hanno fatto grandi cose a Milano, e poi assegnamo il riconoscimento “Volti della Metropoli”  (in collaborazione con il Comune di Milano) destinato ai non pugliesi che hanno contribuito al lustro della “nostra” Milano. Potrebbe sembrare una cosa curiosa ma se pensiamo che la comunità pugliese è la più consistente della città e della provincia… ci sentiamo pienamente titolati come attori primi della “nostra” bella Milano.

Premiati ad esempio Filippo Grassia, giornalista sportivo e alto dirigente del CONI e Simonetta Di Pippo di Roma, astrofisica italiana già Direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari dello spazio extra-atmosferico (UNOOSA) attualmente docente di Space Economy all’Università Bocconi.

In passato hai ricoperto l’incarico di assessore all’ambiente presso l’amministrazione comunale di Roma Capitale. Cosa ne pensi della decisione del sindaco Gualtieri di fornire la capitale di un inceneritore proprio? 

Di questo tema non parlo come se fossi al di sopra delle parti, ma parlo come soggetto che si sente fortemente coinvolto in prima persona. 

Nei sei mesi che ho vissuto come assessore all’ambiente ho sempre appoggiato l’idea di avere un inceneritore dedicato al territorio di Roma, in quanto questa scelta mi appariva come l’unica via possibile per risolvere un problema che stava crescendo giorno dopo giorno.

La raccolta differenziata migliorava piano piano ma non si sarebbero mai raggiunti valori tali da rendere la capitale autonoma e pulita. Il fatto che una città debba dipendere da altri territori non è corretto e meno che mai economico, non c’è matematica in una cosa del genere.

L’arrivo della giunta Raggi ha di fatto bloccato ogni progetto per cinque anni,  tanto è vero che le statistiche sono rimaste praticamente inchiodate ai dati che eravamo riusciti a stilare noi, progressi zero.

L’ideologia ha bloccato tutto, il pragmatismo e la matematica soccombono  ingiustamente dinanzi all’ideologia. Hanno perso cinque anni, se avessimo continuato lavorare Tronca ed io avremmo di certo avuto quel benedetto inceneritore, sicuro e pulito come quello di Copenhagen. Ed oggi avremmo avuto una città più sana ed in ordine, con i cinghiali sereni e tranquilli nei boschi e non tra le vie urbane.

Vero, però tu sai che in Italia tutto è bellissimo a condizione che non sorga all’interno del giardino di casa propria. In quel caso tutto diventa una calamità.

Prova a proporre una sensibile diminuzione delle imposte. Il guadagno economico raggiunto viene utilizzato a scomputo d’imposta per i cittadini che risiedono in prossimità dell’impianto. Secondo me le barricate cadrebbero. All’estero ci sono intere regioni che pagano tasse modeste grazie a questo meccanismo fiscale. Una delle cose che aiutano a sconfiggere l’ideologia cieca è… il portafoglio.

Per coloro che invece preferiscono verificare dati e termini dell’operazione ci sono studi ormai inattaccabili che spiegano come l’ambiente guadagna da una scelta del genere. Copenhagen docet, ma ci sono impianti nel mondo ancora più avanzati.

Guarda al domani, cosa temi e cosa invece ti invita alla speranza.

A me piace molto la storia e la storia ci insegna che nella vita delle comunità ci sono alti e bassi. Ciò che mi preoccupa maggiormente sono le pandemie, la storia ci dice che periodicamente ne siamo e ne saremo coinvolti. Il fatto che il nostro sistema di vita provochi un’alterazione della biodiversità mi induce a pensare che sarà più frequente lo scatenarsi delle pandemie. Il nostro stile di vita e di consumi sta contribuendo ad indebolirci attraverso l’attacco alle difese naturali di Madre Terra. La forza dell’uomo sta nella capacità di socializzare, di stare insieme, e gli eventi pandemici minano questa nostra capacità. 

La mia speranza… non riesco a metterla a fuoco. L’uomo è il lupo dell’uomo, ancora adesso nel XXI secolo, sotto forme diverse ma nella medesima sostanza, si sente levare il grido “Dio è con noi”. Ancora gli uomini si contrappongono con la scusante della religione, dell’etnia, del colore della pelle, del predominio territoriale. Passano i secoli, non cambiano gli uomini.

Mi spaventano le guerre etniche in Africa, mi spaventano i suprematisti bianchi, le guerre tra i turchi e gli arabi, mi spaventa molto il rifiorire del nazionalismo, la vendita delle armi, il lobbismo. Tutto questo è un male rivolto contro il “bene comune”. 

Il paravento del “Dio è con noi” riesce a mettere in serie difficoltà anche l’etica, che si regge su due principi fondanti: fare del bene e comportarsi bene. Troppe ideologie, troppo odio, troppe forze contrarie, troppe persone che in buona fede cadono nelle spire dell’ideologia e si scagliano contro i propri fratelli. Sarò realista, sarò pessimista ma non vedo prospettive rosee nel nostro futuro.

Thomas Parma e Anna Renna

Adesso mandiamo il generale De Milato a prendersi un caffè e chiudiamo la nostra chiacchierata con il direttore generale di FAM Thomas Parma (TP) e con la responsabile della comunicazione FAM Anna Renna (AR).

TP: vorrei aggiungere che è un grande piacere lavorare in team con Camillo de Milato, al quale mi lega profonda stima ed una grande amicizia da oltre quindici anni. Professionalmente tra di noi c’è grande sintonia e comunanza d’intenti. Camillo ha fatto cambiare passo a questa Fondazione, aprendo questa istituzione al mondo esterno, rendendola più moderna, rispettandone la tradizione ma evitando che venisse riconosciuta come un polveroso ente di vecchio stampo.

Personalmente ho cercato di portare il mio pragmatismo, un tipo di approccio che ho maturato nel corso delle mie precedenti attività imprenditoriali e di cooperazione internazionale (*), sia nel mondo profit sia nel no profit. La mia conoscenza approfondita delle problematiche legate ai fenomeni della migrazione mi è molto utile nello svolgimento del mio incarico in FAM. La riforma del Terzo Settore del 2017 ha dato un forte impulso ad un modo nuovo di gestire gli enti benefici e la mia conoscenza del mondo profit ritengo possa aiutare il nostro team a raggiungere traguardi ambiziosi e prestigiosi in ambito sociale. 

Non tutto il mondo del Terzo Settore è pronto per affrontare questa rivoluzione, sia per mancanza di esperienza sia per mancanza di professionisti provenienti dal mondo profit, mentre mi sento di affermare con serenità che FAM ha già sciolto le vele e naviga nella giusta direzione. Qui tutta la struttura respira a pieni polmoni l’aria profumata del raggiungimento del bene comune, applicando tecniche amministrative e gestionali al passo con i tempi e le norme vigenti. Non lavoriamo per farci dire “bravi” ma per fare del bene. FAM non è un’etichetta, FAM è lavoro concreto, vero e reale. Giorno dopo giorno.

(*) maturata come responsabile della cooperazione internazionale italiana in diverse sedi nel mondo.

Comunicare quanto si fa senza perdere di vista la propria mission. Anna Renna, quali sono le coordinate della vostra comunicazione sociale?

AR: La sfida della comunicazione sociale è una sfida veramente accattivante, specie per chi, come me, arriva dal mondo profit.

Entrare in FAM ha rappresentato in certa misura una scommessa, una scommessa vinta perchè all’Asilo Mariuccia ho trovato uomini e donne veramente speciali.  A partire da un Presidente che non si atteggia mai a fare il boss, il capo, ma partecipa al lavoro come una guida, un punto di riferimento, un uomo sempre presente, nonostante le numerose attività che segue nella sua vita privata. Nel mondo profit un atteggiamento simile non è così consueto.

Nel mondo profit la comunicazione è sempre e comunque orientata al fine ultimo dell’impresa, ovvero la vendita. La comunicazione sociale di un ente come il nostro ha finalità diverse. Nel mondo della comunicazione social ciò che viene comunicato non corrisponde ad un fine da raggiungere, ma fornisce testimonianza riguardo un risultato conseguito nella vita vera, reale, tangibile di uomini e donne.  Certamente si comunica anche riguardo ai progetti in divenire, ma non si utilizzano tutti i trucchetti un po’ subdoli che attivano un’empatia comunicativa non particolarmente limpida.

Niente comunicazione ruffiana quindi.

Esatto, non c’è spazio per certe tecniche di marketing che puntano al consenso superficiale, alla cattura del like ad ogni costo. Comunichiamo la realtà, lo facciamo in modo sincero, diretto ed onesto. Puntiamo ad aumentare la nostra base di ascolto non per sfruttarla a fini commerciali, ma solo per avere un platea più ampia alla quale comunicare l’esito del nostro lavoro.

Non ci confrontiamo ogni giorno con l’effimero, noi parliamo della vita delle persone, delle difficoltà e delle soddisfazioni. Non vendiamo fumo, raccontiamo storie di vita. Non diamo nulla in cambio della fruizione dei nostri canali informativi, se non la possibilità di vedere uno spaccato della vita di una comunità che al suo interno ha anche zone grigie, di sofferenza e di riscatto. Proprio quelle zone grigie che, nel correre di qua e di là ogni giorno, a volte non si scorgono, o non si vogliono guardare perchè portano disagio nella propria confort zone quotidiana.

TP: cambiamo paradigma. Avvicinarsi a determinate realtà come la nostra non deve essere più pensato come un atto di carità, ma come un investimento. Metto un granello del mio tempo e delle mie risorse in un’attività che può migliorare la società nella quale vivo. Un investimento a lungo termine, per il quale io non riscuoterò alcuna cedola. Lascio il beneficio del l’utile alle prossime generazioni, ai miei figli, ai miei nipoti.

Ottimo, grazie a tutti voi per l’ospitalità e l’attenzione. Buon lavoro e buona vita.

Per approfondire:  https://asilomariuccia.com/it

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