La Nazionale italiana di calcio femminile ha debuttato domenica scorsa nel campionato Euro2022, rimediando una cocente sconfitta inflitta all’undici di Milena Bertolini dalle colleghe transalpine francesi. Un secco 5 a 1 che ha dato vita ad un florilegio di titoli e titoloni, di critiche e di commenti, di spiegazioni e di intenzioni di pronto riscatto.
Sono diversi anni che seguo il calcio femminile, ho visto questo movimento calcistico crescere piano piano, l’ho visto resistere a sberleffi e perplessità per arrivare a costruirsi un proprio spazio vitale. Lo seguo con affetto e con un’attenzione assai critica, mai con la curiosità che si dedica ad un banale fenomeno di costume, ad una semplice novità. Ecco il motivo per cui seguirò da queste pagine le vicende della calciatrici italiane, sia nei loro impegni internazionali sia in campionato.
Tra i tanti commenti ascoltati in questi giorni, uno in particolare mi ha colpito, perchè contiene in sé una verità che… non è tale. “Il calcio femminile è una realtà nuova, ci vuole tempo perchè possa crescere e rafforzarsi”.
Che il calcio femminile italiano debba ancora maturare e fortificarsi è certo, ma siamo certi che sia una realtà nuova?
Per trovare una risposta a questo dubbio cerco e trovo la collaborazione di una collega giornalista del Corriere della Sera, Federica Seneghini, autrice di un romanzo storico intitolato “Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il Duce”, un testo impreziosito da un saggio di Marco Giani.
Federica Seneghini, genovese, al Corriere della Sera da febbraio 2012. Nella sua “prima vita” ha lavorato come freelance, occupandosi di tematiche socio-ambientali. E’ laureata in Lettere Moderne all’Università di Bologna, ha vissuto e lavorato in Inghilterra, in Finlandia, in Scozia ed a Barcellona. Attualmente è giornalista del «Corriere della Sera» nella redazione online ed è a capo della squadra social del quotidiano di via Solferino.
Federica allora questo calcio femminile è davvero un fenomeno recente risalente a pochi decenni?
Veramente no, le donne giocavano a calcio quasi un secolo fa. Non in modo sistematico ed organizzato, ma giocavano. Ne parlo nel mio libro, un romanzo basato su fatti realmente accaduti. Siamo nel pieno dell’era fascista, allo scoppio della guerra mancano ancora diversi anni; sono già passati dieci anni dalla Marcia su Roma. Milano e le altre città d’Italia accolgono Mussolini che celebra il decennale della marcia con imponenti manifestazioni. A Milano, il 4 novembre del 1932, il duce parla in piazza del Duomo davanti a migliaia di persone mentre altrove, in silenzio, un gruppo di ragazze scende in campo per la prima volta ed inizia a giocare a calcio. Furono le prime donne in Italia a fondare una squadra di calcio, il Gfc, Gruppo Femminile di Calcio.
In piena era fascista, in pubblico, apertamente?
La storia inizia nell’autunno del 1932; un gruppo di giovani ragazze di Milano si incontra tra il verde dei giardini cittadini e decide di fare qualcosa di “diverso”, ovvero giocare a calcio. Sino a quel momento nessuna donna in Italia aveva mai praticato il giuoco del calcio in modo organizzato e tantomeno in pubblico.
Per le giovani milanesi si tratta quindi di qualcosa di assolutamente inedito. Provano e si divertono. Provano ancora ed il divertimento cresce in modo esponenziale. Allora iniziano ad organizzarsi, trovano un allenatore ed un presidente. Ovviamente, visti i tempi, un uomo; un agiato commerciante di vini appassionatissimo di calcio. Una domenica dopo l’altra si allenano con puntiglio, trovano un piccolo sponsor (il “Cinzano”) e si procurano due mute di maglie. Due mute sono indispensabili per non creare confusione in campo e riconoscere le due formazioni che si affrontano in allenamento; ormai sono quasi cinquanta le ragazze schierate sul terreno di gioco.
Impossibile continuare ad allenarsi in semi clandestinità e quindi giunge il momento di presentarsi ufficialmente alla città, al mondo dello sport ed all’Italia intera.
Vengono quindi preparate delle lettere che sono inviate alle redazioni dei principali giornali sportivi nazionali, alle riviste illustrate, ai quotidiani. Le risposte che giungono non sono proprio entusiasmanti, ci sono commenti poco garbati e critiche e gli articoli che vengono pubblicati sono colmi di pregiudizi. Le ragazze non si demoralizzano, la propria passione per il calcio non si affievolisce e domenica dopo domenica continuano ad allenarsi. Hanno tutte tra i quindici ed i vent’anni e sono piene di entusiasmo.
La svolta avviene quando riescono ad ottenere un primo riscontro positivo nientemeno che da uno dei grandi capi dello sport fascista, Leandro Arpinati (uno dei gerarchi più fedeli a Mussolini), l’allora presidente della Federazione Giuoco Calcio. L’esperimento durerà poco, ma lo scalpore suscitato non si sopirà velocemente.
Il romanzo «Giovinette, le calciatrici che sfidarono il Duce» (Solferino) restituisce finalmente giustizia a un gruppo di ragazze i cui sogni, nel 1933, furono bruscamente interrotti da un regime che pubblicamente dichiarava: “abbiamo bisogno di buone madri non di calciatrici”.
Le donne che nei primi decenni del novecento seguivano con passione il calcio venivano etichettate come “tifosine”. Un diminutivo che strizza l’occhio ad un vezzeggiativo un po’ irridente. Sentire oggi un termine del genere provoca un certo disagio. Ai tempi di “Giovinette” come veniva accolto dalle signore questo termine?
Veniva accolto diversamente da come può venire accolto oggi. In alcuni casi furono le giovani calciatrici stesse a prendersi un po’ in giro. Mi riferisco ad una lettera che scrissero ai giornali, una lettera molto lunga. In chiusura ironizzarono esse stesse sulla lunghezza del loro scritto: “perdonerete, ci siamo dilungate, ma siamo donne”. L’autoironia era un cavallo di battaglia di queste ragazze; si parla di una storia ambientata quasi novant’anni fa, il linguaggio era molto diverso da quello che usiamo oggi, così come la considerazione che sia aveva delle donne e non solo di coloro che praticavano attività sportive.
Dal tuo romanzo sprigiona un profumo intenso, il profumo di una Milano che chi è nato sotto la Madonnina o chi a Milano è vissuto non può non percepire. Ti sei documentata a tavolino per disegnare così bene la mia città oppure hai chiuso gli occhi e ti sei lasciata cullare dall’immaginazione?
Di immaginato c’è ben poco. Io sono di Genova ma abito a Milano da almeno dieci anni e la città la conosco. Per documentarmi bene sui luoghi che ho citato nel romanzo ho letto i giornali dell’epoca, come la Domenica Sportiva, sono stata negli archivi del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport. Ho studiato gli edifici che ospitano la storia delle ragazze, dai palazzi dove risiedevano ai giardini dove si incontravano, ai navigli già parzialmente coperti e ho controllato le date di costruzione e lo stato in cui si trovavano negli anni trenta del secolo scorso. Direi che non ho lasciato spazio all’immaginazione, in un romanzo storico si rischia di fare degli errori, meglio documentarsi bene
Dopo novanta anni il giuoco del calcio femminile è, incredibilmente, in una certa misura ancora borderline tra lo sport ed il curioso fenomeno di costume. Duro a morire il pregiudizio.
Lo penso anch’io. Molti pregiudizi esistono ancora. Una vera parificazione tra campionato femminile e maschile ancora non c’è. Alla fine della pandemia i campionati maschili sono ripresi (sia pure con tutte le precauzioni stabilite da un rigoroso protocollo) mentre la serie A femminile è rimasta al palo e le ragazze non hanno più avuto l’opportunità di tornare in campo. E’ sotto gli occhi di tutti che i due massimi campionati di calcio nazionali – maschile e femminile – sono ancora molto lontani dall’essere una sola cosa. Anche a livello mediatico la differenza di trattamento riservato alle due competizioni è enorme. Sui giornali nazionali non si trovano quasi mai notizie riguardanti il calcio femminile; a volte qualche trafiletto, qualche riga, qualche tabellino riservato alle partite di cartello. In televisione un canale a pagamento trasmette una partita alla settimana, il grande pubblico non viene raggiunto.
Nella seconda parte del volume troviamo un saggio sul calcio femminile a firma di Marco Giani.
Il saggio di Marco Giani è una parte fondamentale e complementare della pubblicazione. Per forza di cose il romanzo contiene alcune parti ricostruite con la fantasia e romanzate. Il saggio di Marco Giani consente di avere una visione oggettiva sul calcio femminile, anche su quello successivo agli anni trenta. Le note a piè di pagina, la bibliografia, l’impeccabile documentazione permettono di avere nel volume una summa di quello che è il calcio femminile italiano, dagli anni trenta sino ai giorni nostri. Affiancare uno studio accademico al romanzo è stata una scelta editoriale ben precisa che ritengo vincente.
Se non erro è la prima volta che ti cimenti con un tema sportivo.
Io credo che un giornalista moderno si possa sentire perfettamente a proprio agio sia quando approfondisce le tematiche per lui più ordinarie sia quando tocca temi nuovi e pur sempre stimolanti. In fondo nello scrivere questo romanzo ho fatto in buona parte un lavoro di tipo giornalistico, andando a cercare i figli ed i nipoti delle protagoniste del libro, andando a cercare fonti ed approfondimenti negli archivi, facendomi guidare dalla pratica e dal metodo del cronista. In ogni caso poi questo non è proprio un romanzo che parla solo di sport; si parla di calcio, ma anche di resistenza, di coraggio, di storia, di amore, di politica, di sofferenza e di gioia.
Grazie Federica per avere aperto una finestra sul passato, riportando alla memoria una bellissima storia che stava per andare perduta, e per avere contribuito a scrivere una riga in più sul movimento calcistico femminile italiano.