Guarda e dimmi cosa vedi

Guarda e dimmi cosa vedi

Elena Galimberti è un’architetta e fotografa milanese, da sempre particolarmente attenta all’evoluzione sociale ed alla vitalità degli spazi urbani.

La incontro per una chiacchierata in un caratteristico angolino milanese lungo la Martesana.

Facciamo così, niente schemi standard d’intervista. Facciamoci una semplice chiacchierata. Parti e vai a ruota libera. 

Mi chiamo Elena, ho quarantotto anni, vengo dalla Brianza. Sono una donna istintiva, semplice, spontanea.  Da ragazza ho frequentato il liceo artistico in Brianza, assecondando il mio lato creativo. Già allora la Brianza mi stava strettina quindi appena possibile ho colto l’occasione per partire e cambiare orizzonte.

Divenuta architetto, attraverso il programma Erasmus mi sono trasferita in Portogallo, una terra splendida, ed ho iniziato a lavorare come architetto paesaggista.  Ero già da allora insofferente a rimanere chiusa in un ufficio davanti ad un computer e pertanto la scelta di lavorare a contatto con gli ambienti esterni è stata una  soluzione spontanea, quasi obbligata. Ho seguito alcuni progetti di aree cittadine, piazze e giardini, ed inizialmente anche di luoghi privati sempre open air. La tendenza al “pubblico”, allo spazio comune, al luogo condiviso dalla comunità, sino dai tempi del Portogallo, è sempre stata decisamente preponderante.

Una serie di vicende personali mi ha poi portato alla scelta di tornare a casa base, in Italia. L’occasione si è presentata con l’assegnazione dell’Expo universale 2015 a Milano. Avevo già avuto alcune esperienze lavorative quando ero poco più di una ventenne, durante l’Esposizione di Lisbona del 1998 e ricordavo questa esperienza come qualcosa di travolgente ed entusiasmante.

Ho fatto la valigia, sono tornata a Milano ed ho inviato la mia candidatura per Expo Milano. Solo che nessuno mi ha chiamata, ingenuamente non avevo valutato la possibilità di non risultare tra le prescelte. Tanto era il desiderio di entrare nel Team Milano 2015 che l’idea di non essere coinvolta non l’avevo nemmeno considerata.  Invece l’architetto Elena Galimberti per oltre un anno e mezzo per Expo 2015 è stata invisibile e trasparente. Senza lavoro e con troppo tempo libero per rimanere in una Brianza che trovavo sempre più chiusa, ho iniziato a venire quotidianamente a Milano, a girala in lungo ed in largo ed a fotografarla.

Milano nel 2014 era in forte trasformazione ed io dopo dieci anni di assenza avevo voglia di vederla con occhi nuovi. Mi ricordo quante perplessità accompagnavano l’imminente arrivo di Expo, la gente mugugnava come se fosse in arrivo una sorta di Circo Barnum, qualcosa calato dal cielo per scardinare la tranquilla routine della città. Io andavo controcorrente raccontando quanto invece fosse utile e travolgente l’arrivo di aria nuova, avevo già vissuto un’esperienza del genere e la ricordavo come qualcosa di bellissimo.

Gironzolavo e scattavo con il cellulare, scatti che dovevano rimanere esclusivamente a mio personale uso e consumo, ricordi di una Milano ritrovata che mi appariva più bella che mai. Inizialmente fotografavo gli spazi con la testa da architetto e se nel mirino entrava una persona la cosa mi disturbava. Cercavo gli spazi pubblici vuoti. Ero alla ricerca di una nuda e cruda realtà statica. Luci, ombre e linee. Le persone nei miei scatti entreranno solo dopo Expo.

Un bel giorno un’amica mi segnalò che cercavano una commessa per Palazzo Italia ad Expo. Non mi vogliono come architetto, ma io ad Expo devo esserci, mi candiderò come commessa. Se non riesco ad entrare dalla porta entrerò dalla finestra. Sono stata assunta e la mia vita è cambiata. Ero decisamente meno giovane della maggior parte dei ragazzi che lavoravano lì e quindi vedevo le cose in modo diverso da loro. La prima cosa che ho notato era che non esistevano strutture aggregative per i lavoratori che quotidianamente animavano l’esposizione.  Ho creato allora un gruppo Facebook (ai tempi erano una novità per l’Italia) e l’ho chiamato “Inside Expo”. Tempo tre settimane si erano iscritti quasi tutti, dall’ufficio stampa ai ragazzi della vigilanza. E poi sono arrivati i Mondiali…

I Mondiali Expo, perchè nulla aggrega quanto il calcio. Quando abbiamo lanciato l’idea di fare un torneo di calcio interno si è mobilitato il mondo. Tempo pochi giorni abbiamo tracciato lo schema del gioco, il tabellone, le regole d’ingaggio ed abbiamo messo in campo sessantaquattro formazioni agguerritissime. 64!! Solo che non avevamo il campo, le porte le avremmo comprate con un collettone gigante, ma il campo non l’avevamo. Siamo riusciti a farlo realizzare all’interno di Expo… tre partite al giorno. Ho giocato anch’io…

Campione del Mondo Expo 2015?

Enel.

Ed infine arrivò l’ultimo giorno dell’Esposizione, pensavamo di essere tutti liberi, invece mi chiamò la paesaggista che aveva disegnato sette dei giardini interni e mi chiese una mano per salvare le piante. Era previsto il loro smaltimento insieme allo smaltimento dei padiglioni. Follia… ci mettiamo subito al lavoro, dieci donne ed un uomo. AMSA ci fornisce i sacchi entro cui mettere gli arbusti, noi recuperiamo le piante ed iniziamo a contattare i comuni del circondario per vedere come potere mettere a dimora il verde recuperato.  Anche qualche privato ha provato a contattarci ma noi volevamo che il frutto del nostro lavoro fosse indirizzato solo a spazi pubblici. Il Comune di Bollate è stato il primo a raccogliere il nostro appello ed ha realizzato uno spazio che ha chiamato “Parco Expo”, poi sono arrivati tutti gli altri. Abbiamo recuperato oltre seimila piante.

©Elena Galimberti

Nel 2016, ormai conquistata dal lato oscuro della forza, ovvero dal piacere del lavorare in gruppo per la comunità, mi faccio convincere da Sala a candidarmi con la sua lista civica alle elezioni comunali di Milano. E’ stata un’esperienza molto interessante perchè mi ha consentito di tornare a guardare Milano partendo questa volta dalle periferie. Ed ho ripreso a scattare. La fotografia mi faceva stare bene, era come un respiro di aria pura, mi metteva a mio agio all’interno dello spazio urbano. Da questo momento ho iniziato anche a inserire l’elemento umano nei miei scatti.

Le mie immagini cominciavano girare ed iniziavano ad essere apprezzate, è arrivata la prima mostra e da lì è iniziato un percorso che ora non è più solo di accrescimento personale ma anche professionale.

Quale attrezzatura utilizzi?

Ho la mia macchina fotografica ma molto spesso utilizzo il cellulare. La mia prima reflex è stata la macchina di uno zio, vecchiotta e pesante, ora utilizzo una camera che mi è stata donata dagli amici che hanno raccolto tra di loro una certa cifra per farmi questo regalo graditissimo ed inaspettato.

Cosa cerchi quando guardi dentro l’oculare?

La bellezza, quella bellezza che a Milano si trova ovunque, dal centro alle periferie. Pensa che dopo avere visto il mio lavoro, una docente della Cattolica mi anche proposto di fare da insegnante in un corso per cercare di spiegare ai ragazzi cosa significasse per me la bellezza. E’ stata un’esperienza piacevolissima, centocinquanta studenti, nel 2018 e 2019.

Sei agganciata ad uno stile che ti caratterizza?

Non ho uno stile particolare, non scatto seguendo un cliché prestabilito. Mi lascio guidare dall’istinto anche se nelle mie immagini c’è sempre un richiamo alle linee. A volte se ti fermi a pensare come impostare la posa, la magia scompare inaspettatamente come è arrivata. E lo scatto diventa banale e scialbo. Un’occasione perduta. Bisogna veramente cogliere l’attimo, sapere sfruttare quel secondo che passa tra il primo sguardo e la realizzazione della posa.

©Elena Galimberti

Per i fotografi la scelta della luce è fondamentale.

La luce conta molto nella composizione di uno scatto, in particolare modo la notte ma non la utilizzo come un componente tecnico. Io e la tecnica fotografica viaggiamo su due binari separati anche se un giorno, lo prometto, la imparerò.

Condividi volentieri il tuo lavoro?

E’ essenziale, indispensabile. Potere mettere in condivisone con gli altri la bellezza che mi passa davanti giornalmente e che a volte riesco a catturare è indispensabile. E serve anche a confermare o smentire la mia idea di bellezza. Ho fotografato tanto ad esempio il quartiere periferico di Gratosoglio, posto nella cintura sud di Milano. Tanti lo definiscono brutto sporco e cattivo. Io lo trovo bellissimo. Condividere i mie scatti serve anche a cercare di ribaltare una serie di luoghi comuni che negli anni si sono sedimentati. Milano non è solo il centro, le periferie hanno tanto da raccontare.

Non basta condividere bisogna andare oltre.

Si, la condivisone deve andare oltre la fotografia scattata da una singola persona. Ora il progetto è quello di aiutare le persone a realizzare un percorso proprio ed autonomo. Io ti dico cosa vedo quando guardo. Un paesaggio, un ambiente urbano, la folla, la natura, la città. E ti suggerisco come indirizzare la tua attenzione verso aspetti che a volte passano inosservati, forse perchè inseriti in un quotidiano che li trasforma in elementi di routine. Educazione allo sguardo.

Prima impariamo a guardare, a vedere ed a mettere a fuoco utilizzando le proprie emozioni.  Solo dopo, in un secondo tempo, dopo avere affinato la capacità di vedere e non solo di guardare, proveremo a catturare l’immagine con la macchina fotografica. Ed a quel punto saremo capaci di usare cuore, occhi, sentimenti ed infine il mezzo tecnico, cercando di fare una fotografia non omologata sugli standard dei vari social che tutti utilizzano, ma cercando uno stile proprio che rispecchia la personalità dell’autore.

Ciascuno di noi guarda un punto e lo vede in modo diverso da tutti gli altri.

Esatto, ciascuno di noi deve essere capace di proporre a se stesso un’inquadratura personale, frutto del proprio istinto e dei propri sensi. A quel punto rubare l’immagine è una logica conseguenza. Non esistono foto belle e foto brutte, ogni scatto è qualcosa di unico.

Con i giovani sviluppare questo metodo di osservazione è molto semplice, sono aperti ed imparano velocemente. E sono abituati sino da piccoli a vivere in simbiosi con le immagini, grazie ai social ed ai cellulari. E’ molto più complicato con gli  adulti che sono tante volte ormai educati a guardare vedendo in modo omologato e preconfezionato.

Segui uno schema preordinato o ti lasci guidare dall’osservazione del quotidiano?

Entrambi, io preferisco immergermi nel quotidiano ma capita spesso, in particolare quando ti viene commissionato un lavoro, di dovere seguire degli schemi prefissati o di sviluppare dei temi specifici.

Come si allena lo sguardo?

L’allenamento allo sguardo richiede tempo, i gruppi che seguo da me ricevono un input iniziale, diciamo le prime coordinate di navigazione. Seguendole e personalizzandole piano piano assumono una certa dimestichezza con il vedere aspetti del quotidiano che prima sfuggivano, fino a giungere a mettere a punto uno schema di osservazione personale.

Il passo successivo può essere lo scattare una fotografia, ma non è un must. Si può anche semplicemente immagazzinare quanto si è visto nella propria mente trasformandolo in un ricordo.

Tutto ciò non rimane poi fine a se stesso.

Si, c’è un passo successivo a tutto questo. Per prima cosa mi alleno a cercare la bellezza nel quotidiano, imparo poi a trattenerne un ricordo anche attraverso la fotografia. Quello che dovrebbe accadere dopo è lo sviluppare il desiderio di volere proteggere e conservare la bellezza che mi circonda. L’ideale sarebbe proprio quello di cominciare a prendersi cura della bellezza, cosa che fa tanto bene sia a noi stessi sia alla comunità della quale facciamo parte.

Luoghi e persone.

Le persone in particolare nella nostra vita vissuta in modo accelerato ci passano davanti come fantasmi. Mi fermo, le osservo, le catturo in uno scatto. Ecco che non sono più un elemento decorativo dell’insieme, ma un soggetto che deve attirare tutta la mia attenzione. Ovviamente nel riprenderle  ci vuole misura, delicatezza e rispetto.

©Elena Galimberti

Milano si camuffa e si nasconde o si lascia guardare.

Le periferie si lasciano guardare per come sono, il centro tende a darsi un tocco di trucco. Non dico che la Milano del centro sia artificiale e costruita, però le periferie sono un’altra cosa, le periferie non si camuffano.  E ti consentono anche di vedere in chiaro le situazioni di disagio che contengono e le ingiustizie sociali che in un certo modo proliferano al loro interno.

Questo ti deprime o ti disturba?

Mi deprime, mi deprime soprattutto il fatto che io sia impotente e che da sola non possa contribuire a cambiare quello che è ingiusto. Nel mio piccolo ci provo comunque, a testa bassa e con un certo spirito donchisciottesco. Io le periferie le fotografo, le espongo, porto il mio lavoro ovunque ci sia qualcuno disposto a vederlo ed a farsi toccare da ciò che vede. E’ uno dei significati della fotografia ed in generale della comunicazione.

Ti attrae maggiormente la Milano del passato, remoto e recente, o la Milano del presente?

La Milano di oggi è quella che preferisco, ovviamente non tolgo dal mio orizzonte tutto quello che mi parla del passato. Abbiamo una grande fortuna, Milano tutto sommato è una città piccola, non abbiamo un territorio urbano sterminato come può essere quello di Roma e quindi nel proprio colpo d’occhio, inevitabilmente, entra sempre un elemento della Milano di ieri, di oggi e di quella che verrà.


Grazie Elena, buona vita e buon lavoro.

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