Quando potresti dormire un po’ di più, perchè tanto non potrai andare da nessuna parte, gli occhi invece ti si aprono come sliding doors all’alba.
Cyclette, barba, doccia (il mood recluso-naufrago-castaway non mi attira), radio. La sequenza è quella classica, non cambia nemmeno in questi momenti di profondo disagio; i saluti di coda di Gianmaurzio Foderaro su Rai Radio1 poi si passa su RTL 102,5. Oggi intorno alle nove proprio da quelle frequenze ho sentito la trasmissione del Canto degli Italiani, quello che nella prassi comune viene chiamato l’Inno di Mameli.
Subito mi è venuto alla mente un post che avevo letto su un social pochi giorni fa, a firma di una cara e stimatissima amica e collega, Elisabetta. L’ho cercato, l’ho riletto e l’ho trovato bello proprio come mi era apparso in prima lettura.
Elisabetta lo scrisse per la rivista bimestrale Vinile che lo pubblicò nel 2017.
Ve lo ripropongo, arricchendolo con qualche immagine e, molto in breve, vi presento l’autrice.
La Storia del Canto degli Italiani di Elisabetta Malantrucco
I nostri sono anni precari e se l’Inno è simbolo delle Nazioni, mai come oggi Fratelli d’Italia – o meglio Il Canto degli Italiani – ci rappresenta: infatti nessuna musica nazionale è stata più precaria, tra censure e provvisorietà: l’Inno di Mameli non lo volevano i Savoia, non lo voleva il fascismo, e la Repubblica l’ha lasciato per 71 anni in bilico! Solo il 15 novembre 2017 è diventato infatti ufficiale e definitivo.
E visto che il 17 marzo l’Italia compie 157 anni, non si può trascurare la storia di questo Canto bistrattato e calunniato, che lungi dall’essere una retorica marcetta che rievoca orgogli militari, nella realtà è stato uno dei canti più popolari e amati del Paese, scritto nel 1847 da un uomo coraggioso e sfortunato. La musica è del Maestro di coro Michele Novaro, tenore di Genova. Le parole sono del suo concittadino Goffredo Mameli,
ventenne patriota repubblicano e mazziniano. E sono parole che rievocando gesta italiche gloriose, nell’intenzione dell’autore dovevano infondere coraggio. Quello che ora appare retorico, era allora un appassionato grido alla rivolta, per l’Indipendenza e l’Unità. Un grido che Mameli pensava di adattare a musiche già esistenti, prima di inviare il testo a Torino, all’amico Lorenzo Valerio.
E proprio da Valerio c’era Novaro, che si mise al cembalo per trovare le note. In una commemorazione di Mameli – morto nel 1849 per le ferite riportate sul Gianicolo in difesa della Repubblica Romana – Novaro ricordò di essere corso a casa e senza levarsi il cappello, di essersi messo a suonare: “Mi tornò alla mentre il motivo strimpellato in casa di Valerio: lo scrissi su un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani; nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; questa fu l’origine dell’inno”.
Il 10 dicembre di quell’anno Fratelli d’Italia debuttò a Genova, grazie alla banda Casimiro Corradi di Sestri Ponente. Si commemorava la rivolta del 1746, quando Giovan Battista Perasso, detto “Il Balilla”, lanciò il primo sasso contro gli Austriaci che occupavano Genova. Quel giorno l’inno di Mameli – stampato su “fogli volanti” (una copia originale è conservata al Museo del Risorgimento della città) – venne accolto con entusiasmo da ben 30.000 persone; dopo pochi giorni era una vera “hit”. Durante le Cinque giornate di Milano venne intonato dagli insorti, divenendo simbolo del Risorgimento repubblicano. Le autorità piemontesi invece lo consideravano eversivo e cercarono di vietarlo, ma il tentativo fallì: durante la Prima Guerra d’Indipendenza veniva suonato da tutte le bande militari, mentre i soldati lo cantavano alzando i caschetti sulla punta delle baionette.
I Savoia tentarono fino al 1911 di censurarlo, ma senza fortuna. Anche Garibaldi lo amava e pare lo canticchiasse insieme alla Bella Gigogin. Quando nel 1862 scrisse l’Inno delle Nazioni, Giuseppe Verdi mise Il Canto degli italiani accanto a God Save the Queen e alla Marsigliese e non la Marcia Reale di Gabetti, inno ufficiale del Regno. Il più antico documento sonoro di Fratelli d’Italia è un 78 giri del 1901, inciso dalla Banda Municipale del Comune di Milano, sotto la direzione di Pio Nevi. Poi arrivò il fascismo e di nuovo Il Canto subì forme più o meno velate di censura: il Regime non lo amava perché legato alla Rivoluzione democratica del 1848. Venne però cantato dopo l’8 settembre insieme con le canzoni partigiane. Diventò Inno provvisorio dello Stato, con decisione del Consiglio dei Ministri – e su proposta del Ministro della Difesa Cipriano Facchinetti – il 14 ottobre 1946.
Diceva Giosuè Carducci: “E’ un inno che, quando lo ascolti sull’Attenti, ti fa vibrare dentro; è un canto di libertà di un popolo che, unito, risorge dopo secoli di divisioni, di umiliazioni” e così la pensava anche il Presidente Carlo Azeglio Ciampi, che ne fece il cavallo della sua battaglia civica.
Non la pensava come loro l’autore di canzoni Roberto Ferri, che in un 45 giri del 1980 ne fece una versione curiosa, in stile “demenziale”: Italian Brothers Reggae. Non è stato l’unico a interpretarlo a modo suo: lo fece anche in versione spiritual Elisa, come inno ufficiale del Mondiale del 2002 (venne censurato).
Ora l’Inno è di nuovo popolare e viene raccontato da artisti alla Benigni, interpretato in lingua dei segni dagli atleti sordi, strimpellato al piano da Mario Balotelli; l’unico vero problema è che in troppi si chiedono perplessi perché Iddio abbia creato schiava la Chioma e non direttamente – come in effetti è – la Vittoria. Ma questa è un’altra storia.